“Il nuovo inizio”. Così il premier sulla fase del suo Governo che comincia ora con un orizzonte di 15 mesi. Che cosa fare -e non fare- per agganciare la ripresa ed evitare al paese il rischio di derive anti-europee?
Introduzione di Francesco Giavazzi
C’è sempre un ritardo di qualche trimestre fra la ripresa della produzione e il miglioramento del mercato del lavoro, perché le imprese non rischiano nuove assunzioni ai primi segnali di miglioramento della domanda: aspettano che questa si consolidi. Quindi, anche se “la ripresa è alle porte”, come pensano Letta e Saccomanni, non aspettiamoci miglioramenti sul fronte del lavoro, almeno fino a metà anno. [tweetability]La campagna elettorale per le europee si svolgerà quindi in un’atmosfera molto difficile[/tweetability]. Da un lato l’ansia di famiglie sempre più direttamente esposte alla disoccupazione e alla difficoltà concreta (per molte sarà la prima volta nella vita) di arrivare alla fine del mese; dall’altro le sirene di chi batterà l’Italia chiedendo l’uscita dall’euro.
Se il Governo non fa qualcosa per evitare questa tenaglia ne verranno stritolati, e con essi tutti noi. Che fare? La strategia è chiara: meno tasse, rifinanziare ed estendere il supporto si disoccupati e riforma dei contratti di lavoro. È una strategia che necessariamente ci porta fuori dal 3 per cento e quindi richiede di essere negoziata con Bruxelles. Per questo la riforma del mercato del lavoro è il primo punto. Senza un’approvazione definitiva di una riforma convincente, a Bruxelles non si riuscirebbe neppure ad avviare la trattativa, a meno di non accettare di essere sottoposti alla Troika. I tempi sono strettissimi, anche perché i giorni che il Parlamento sta dedicando alla Legge di stabilità, per questa strategia sono essenzialmente gettati al vento. Matteo Renzi ha annunciato un contratto, cioè un calendario di provvedimenti che chiederà al Governo di approvare e che ne determineranno la sopravvivenza. È una strategia rischiosa perché se Letta fallisse a maggio, nel clima sociale che descrivevamo, voteremmo per il parlamento italiano, non solo per quello europeo. Ma sarà l’unica strategia possibile. Quindi è essenziale che il contratto si concentri su 5 punti cruciali:
1) [tweetability]Legge elettorale, da approvare entro il 15 gennaio.[/tweetability]
2) [tweetability]Nuovi contratti di lavoro secondo le proposte di Boeri, Garibaldi e Ichino da varare entro fine gennaio[/tweetability].
3)[tweetability]Accelerazione dei tagli alla spesa dando a Cottarelli obiettivi semestrali[/tweetability]: mentre sinora il presidente del consiglio ha indicato come scadenza per una verifica il 2016, quando certamente non sarà più a palazzo Chigi.
4) [tweetability]Riduzione del cuneo fiscale dal 1 febbraio 2014. Il 10 per cento in meno, 22 miliardi.[/tweetability]
5) [tweetability]Un accordo con Bruxelles per consentire a fronte di riforme approvate uno sforamento per due anni del 3 per cento.[/tweetability]
Se questo piano non fosse approvato in tutte le sue parti entro il 31 gennaio, prepariamoci ad elezioni anticipate, sotto il controllo della Troika: ammesso che i movimenti anti-euro le consentano di arrivare a Roma.
[toggle title=”Priorità al lavoro | Tito Boeri e Pietro Garibaldi”]
IL CIRCOLO VIZIOSO
Se si guardano attentamente le statistiche del lavoro, si rischia di cadere in crisi depressiva. Il tasso di disoccupazione, che per un decennio è stato sotto la media europea, da ormai due anni ha superato quello medio del continente e ha raggiunto il 12,5 per cento nel terzo trimestre 2013. Più del 50 per cento di queste persone sono state in condizione di disoccupazione per più di un anno, contro il 40 per cento in Europa. La disoccupazione giovanile è ormai saldamente al di sopra del 40 per cento. Solo Spagna e Grecia fanno peggio di noi nell’Unione Europea. E tra i pochi giovani occupati, quasi il 50 per cento ha un lavoro temporaneo, contro il 40 per cento in Europa.
Riflettendoci, non può che essere così. Con un paese in recessione da cinque anni e con la peggiore performance di crescita del Pil tra i paesi Ocse nell’ultimo decennio, un mercato del lavoro non può che produrre disoccupazione, bassi salari e povertà. Se poi allarghiamo il campo e riflettiamo sugli impegni di finanza pubblica dei prossimi venti anni, quando dovremmo ridurre il rapporto debito-Pil di circa due punti all’anno, sembra davvero che quattrini per il lavoro non ve ne siano e il nostro mercato del lavoro sia destinato a rimanere intrappolato in un circolo vizioso di bassa crescita, disoccupazione inarrestabile e precariato crescente, soprattutto tra i giovani.
UN PIANO IN TRE PUNTI
Siamo convinti invece che esista un’alternativa. Che sia possibile cambiare scenario. Siamo anche profondamente convinti che la priorità assoluta di questo Governo, e di quelli che verranno dopo, debba essere il mercato del lavoro.
Un piano per il lavoro dovrebbe essere basato su tre punti essenziali e immediati.
1) Riduzione immediata del cuneo fiscale di circa 5 punti e di altri 5 nel giro di tre anni sui contratti a tempo indeterminato. Il piano può essere finanziato tagliando subito i contributi alle imprese, inclusi i trasferimenti alle ferrovie dello Stato. I cittadini pagheranno più caro il treno, ma almeno torneranno al lavoro. Oggi, su un aumento del costo del lavoro di 100 euro, un lavoratore ne intasca soltanto 40: bisogna far sì che si arrivi almeno a 50 euro. Una parte della riduzione della pressione fiscale avverrà attraverso la riduzione dei contributi previdenziali. Questo vuol dire pensioni pubbliche più basse in futuro. Ma permetterà a più giovani di lavorare.
2) Sostegno diretto al reddito per i lavoratori a basso salario. L’esempio è quello dei mini-jobs tedeschi, dove il Governo trasferisce direttamente al lavoratore la differenza tra quanto percepisce dall’impresa e un dato livello di salario. Per l’Italia il livello potrebbe essere 5 euro all’ora: lo Stato finanzia la differenza tra quanto guadagnato dal lavoratore e i 5 euro stabiliti. Per sostenere i redditi dei lavoratori ed evitare abusi, l’iniziativa dovrebbe essere accompagnata dall’introduzione del salario minimo, che potrebbe essere di circa 4 euro. Una manovra di questo tipo farebbe emergere lavoro nero, e da qui si potrebbero ricavare una parte delle risorse per il suo finanziamento.
3) Istituzione immediata a livello statale di un contratto di inserimento a tutele progressive. Questa misura è essenziale per dare stabilità ai giovani e ridurre il precariato. La nostra proposta prevede un contratto a tempo indeterminato con tutele progressive, certe e crescenti contro il licenziamento economico nei primi tre anni. Sui dettagli si può discutere, ma un intervento di questo tipo non è più rinviabile. E il contratto deve essere siglato a livello statale a valere su tutto il territorio nazionale, senza alcun riferimento alla legislazione regionale.
Un Governo e un Parlamento che approvassero nel giro di tre mesi queste proposte darebbero un segnale fortissimo, anche a Bruxelles. A quel punto, si potrebbe negoziare un temporaneo incremento del disavanzo.
Siamo consci che questi tre punti non esauriscono le riforme del mercato del lavoro. Il sostegno ai disoccupati è ancora limitato, confuso e iniquo, anche dopo la riforma Fornero-Monti. Mentre l’apprendistato resta totalmente bloccato dalle legislazioni regionali. Ma queste misure, che possono essere varate nei prossimi 3 mesi, rappresentano, a nostro giudizio, le cose più urgenti da fare. [/toggle]
[toggle title=”Riassetto del sistema finanziario | Luigi Guiso”]
INTERVENTI POSSIBILI IN TRE MESI
1. Separazione definitiva tra banche e fondazioni. Adozione volontaria entro un mese dal varo di un decreto di un piano di cessione delle quote detenute nelle banche di riferimento (o altre partecipazioni rilevanti) attraverso vendite automatiche al meglio e conclusione del processo entro una data certa. In caso di non ottemperanza, trasformazione automatica delle azioni nella banca di riferimento in azioni di risparmio senza diritti di voto.
2. Promozione dei fondi pensione. Mandato alla Covip per una seria campagna di sviluppo dei fondi pensione che, avvalendosi della collaborazione dell’Inpas e del Mefop, agisca su due fronti:
a) Dal lato della domanda conduca una campagna di informazione sui benefici pensionistici (attraverso la lettera arancione Inps, anche questa da varare) e sulle caratteristiche dei fondi pensione privati;
b) Dal lato dell’offerta, rivedendo profondamente l’organizzazione e struttura dei fondi pensione. Oggi il settore è estremamente polverizzato – 545 fondi, 10 con oltre 10 mila iscritti e ben 274 con meno di 10mila e 137 con meno di 100. Occorre fonderli e ridurne il numero per sfruttare ovvie economie di scala che consentirebbero di: accrescere la gestione professionale dei risparmi; permettere politiche disinvestimento più remunerative senza accrescere il rischio grazie alla diversificazione consentita dalla scala.
INTERVENTI POSSIBILI IN UN ANNO
1. Separazione delle banche dai fondi di investimento. Obbligo per le banche di cedere le partecipazioni in società di gestione del risparmio. Queste sono oggi fonte di irrimediabili conflitti di interesse sia quando le banche agiscono da consulenti finanziari e venditori di prodotti finanziari al dettaglio sia, come insegna la vicenda Telecom, quando le partecipazioni nelle Sgr possono essere usate dalle banche per trarre vantaggi interferendo nel governo delle società.
2. Creazione di un Bureau per la protezione finanziaria del risparmiatore. Ispirato al Consumer Financial Protection Bureau creato dall’amministrazione Obama. Perché farlo? Perché le interazioni tra risparmiatori e mercati finanziari sono oggi il cuore della finanza; la ricchezza amministrata per conto delle famiglie e il debito in capo alle famiglie sono le fonti primarie di profitto per le banche e i volumi eccedono ormai il debito delle imprese. I problemi relativi richiedono un’ unità specializzata. Le risorse umane possono derivare in parte da istituzioni esistenti, come Consob e banca d’Italia, assorbendo alcune delle funzioni presenti in esse.[/toggle]
[toggle title=”Cosa non fare per Banca d’Italia | Angelo Baglioni”] Richiesta: eliminare dal decreto-legge sulle quote di proprietà della Banca d’Italia la norma che introduce la libera circolazione delle quote stesse.
ECCO PERCHÈ
Il decreto-legge n.133/2013 relativo alla rivalutazione delle quote di partecipazione nella Banca d’Italia è già stato oggetto di analisi e critiche sul nostro sito: si veda il dossier . Attualmente è all’esame del Parlamento per la conversione in legge. Senza neppure attendere l’esito dell’iter di conversione, il Governatore ha già convocato per il 23 dicembre l’assemblea della Banca per modificare lo Statuto, al fine di dare attuazione al decreto; si noti che il decreto stesso gli lasciava sei mesi di tempo. Questo modo di procedere, a cominciare dal ricorso al decreto-legge, sembra finalizzato a realizzare una riforma della proprietà della banca centrale, senza affrontare il necessario dibattito politico-parlamentare.
Al di là degli aspetti di metodo, vi è (almeno) un aspetto di sostanza del decreto che va ripensato e modificato: quello che prevede l’abrogazione della clausola di gradimento alla cessione delle quote, ora contenuta nello Statuto della Banca d’Italia. Abrogando questa clausola si introduce la libera circolazione delle quote che rappresentano la proprietà della banca centrale. Come già abbiamo argomentato nel dossier, il limite del 5 per cento e la definizione delle categorie di soggetti (europei) che possono acquistare le quote non è una garanzia sufficiente, poiché possono essere aggirati (attraverso partecipazioni indirette e accordi tra azionisti). È vero che l’assemblea dei partecipanti non può interferire nell’esercizio delle funzioni istituzionali della Banca (politica monetaria e vigilanza, esercitate nell’ambito del Sebc) ma ha comunque poteri molto rilevanti: la nomina del Consiglio superiore (che a sua volta nomina il Direttore generale e i Vice Direttori generali e concorre alla nomina del Governatore) e del Collegio sindacale, nonché l’approvazione del bilancio. Quindi il fatto che potenzialmente soggetti esteri e di qualunque natura possano acquisire partecipazioni rilevanti nella proprietà della Banca d’Italia desta qualche preoccupazione. La motivazione ufficiale a sostegno del provvedimento è la seguente. Il processo di concentrazione vissuto dal sistema bancario italiano ha portato alcune banche a detenere una percentuale elevata di quote di proprietà, facendo nascere la percezione di una loro possibile influenza sull’esercizio delle funzioni istituzionali della banca centrale. Occorre quindi una diluizione di queste quote. Questa argomentazione è corretta, ma si presta a due obiezioni. Primo, la diluizione delle quote non comporta necessariamente la loro libera trasferibilità: si può benissimo prevedere che chi ha partecipazioni superiori al 5 per cento ceda la parte eccedente, senza che questo comporti la creazione di un mercato libero delle quote. Secondo, in realtà in problema riguarda solo due banche: Intesa Sanpaolo e Unicredit, che hanno partecipazioni rispettivamente del 30.3 per cento e 22.1 per cento. Le altre banche hanno già partecipazioni ampiamente inferiori al 5 per cento (con l’eccezione di Cassa di Risparmio di Bologna con il 6.2 per cento). Forse si poteva trovare una soluzione ad hoc per quelle due banche, anche attraverso una azione di moral suasion, affinché diluissero nel tempo le loro quote.
Nella sua audizione presso la Commissione Finanze del Senato (12 dicembre), il Governatore cita i casi della Grecia e del Belgio come paesi che “riconoscono espressamente il diritto a soggetti stranieri di sottoscrivere il capitale sociale” delle rispettive banche centrali (peraltro in Grecia la possibilità per tali soggetti di intervenire in assembla e votare è limitata). È singolare come, nel cercare esempi da seguire nel panorama internazionale, si sia riusciti a trovare solo quelli di Grecia e Belgio: ma chi ha detto che dobbiamo prendere esempio proprio da questi due paesi? Si noti che (come lo stesso Governatore riconosce) perfino negli Usa le quote di proprietà nelle Federal Reserve Banks, detenute dalle banche commerciali, non possono essere cedute: quindi neppure in questo paese- notoriamente liberista- esiste un mercato dove scambiare la proprietà della banca centrale.
Infine, fanno sorridere le motivazioni addotte nel Comunicato stampa (N.239, 2 dicembre) del Ministero dell’Economia. L’urgenza, che motiva il ricorso al decreto legge, è giustificata così: “la revisione dell’assetto organizzativo della Banca d’Italia si rende necessaria in via d’urgenza anche per adeguarlo al nuovo Sistema Unico Europeo di Vigilanza Finanziaria”. Ma quel sistema entrerà in vigore tra un anno! E ancora: l’estensione a soggetti europei dell’autorizzazione a partecipare al capitale della Banca d’Italia viene ricondotta alla necessità di adeguarsi “ai Trattati europei ed ai principi di libertà in essi contenuti”; peccato che stiamo parlando di una banca centrale, non di una impresa privata…
[/toggle]
[toggle title=”Trasporto pubblico | Andrea Boitani e Giuseppe Catalano”] Un emendamento approvato in Commissione Bilancio della Camera prevede che “i costi standard dei servizi di trasporto pubblico locale e regionale, nonché i criteri per l’aggiornamento e l’applicazione degli stessi” debbano essere definiti entro il 31 marzo 2014. Se il testo legislativo riuscirà a sopravvivere fino all’approvazione definitiva da parte dei due rami del Parlamento, si aprirà una opportunità straordinaria per rimettere un po’ d’ordine nel sistema di finanziamento e, di conseguenza, nella programmazione e gestione di un servizio (quello di Tpl, appunto) che, nelle sue varie modalità, ha oggi un fabbisogno di oltre 6,5 miliardi di euro l’anno di danaro pubblico, oltre a quanto pagano i viaggiatori, eppure genera continue perdite alle aziende che lo gestiscono e conseguenti richieste di ripiano alle amministrazioni locali e allo Stato. Nonostante il fatto che i sistemi di finanziamento siano passati dal centralismo (1981-1995) al “federalismo” (1996-2012) e di nuovo al centralismo da quest’anno, la ripartizione delle risorse ha finito sempre per seguire un criterio di “spesa storica”, con l’effetto di incentivare le inefficienze gestionali e di permettere distorsioni nella quantità, qualità e modalità dei servizi forniti. Si sono così perpetuati eccessi di capacità e mezzi semi-vuoti in alcune aree, carenze di servizio in altre; extra-costi, privilegi corporativi, ma anche assurde disparità di trattamento tra dipendenti di una stessa azienda; invecchiamento del parco mezzi, carenze infrastrutturali e delle manutenzioni da un lato e, dall’altro, progetti sovra-dimensionati o semplicemente inutili.
Nessuno può realisticamente pensare che la formulazione e applicazione (“gradualmente crescente”, come prevede l’emendamento approvato) dei costi standard per la distribuzione delle risorse tra le regioni sia da sola capace di arginare la crisi insieme acuta e profonda che caratterizza il settore. Ma non bisogna cedere al “benaltrismo”: questo è il primo tassello per una scalata tutt’altro che breve e agevole. Perdere l’occasione o anche solo non rispettare i tempi – essendo gran parte della metodologia per calcolare i costi standard già definita e ampiamente condivisa – sarebbe veramente un peccato grave. [/toggle]
[toggle title=”Riforma delle professioni | Michele Pellizzari”]INTERVENTI POSSIBILI IN TRE MESI
1. Obbligo per tutti gli ordini professionali di mantenere un sito web e di pubblicarvi l’elenco degli iscritti, completo delle eventuali sanzioni e i verbali delle sedute.
2. Modifica delle norme di accesso con accoppiamento casuale delle sedi d’esame, come avviene oggi per gli scritti degli avvocati, da estendere a tutte le professioni e agli esami orali
3. Modifica della regola di determinazione delle sedi notarili con l’eliminazione della clausola che prevede che la sede sia definita in modo da garantire al notaio un volume d’affari di almeno 50mila euro all’anno.
4. Modifica del sistema sanzionatorio con assegnazione del procedimento a un ordine locale diverso (scelto casualmente) da quello di appartenenza del professionista la cui condotta è sotto scrutinio.
5. Eliminazione dai codici di condotta professionale di tutte le norme finalizzate esclusivamente a “garantire la dignità e il decoro della professione”.
INTERVENTI POSSIBILI IN UN ANNO
Per fine 2014 si può certamente pensare di rivedere la riforma delle professioni in senso più liberale.[/toggle]
[toggle title=”Liberalizzazione e privatizzazioni | Michele Polo”]
Nella ripartenza del Governo Letta un posto importante lo possono occupare i temi delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. Tra i cardini di quelle riforme strutturali che ai sui inizi il Governo Monti aveva imposto al dibattito pubblico, questi capitoli sono state progressivamente risucchiati nel dibattito infinito sulla tassazione degli immobili scomparendo dall’agenda politica.
Le misure che possono essere messe in cantiere debbono rispettare una sequenza logica che vede, prima di tutto, l’apertura dei mercati e, conseguente a questo, le possibilità di coinvolgere investitori privati attraverso la privatizzazione di imprese oggi in controllo pubblico. Tra queste, inoltre, è utile distinguere tra quante hanno come oggetto la realizzazione e la gestione di infrastrutture, per le quali una presenza dell’azionista pubblico può essere desiderabile, a garanzia anche per gli investitori privati della stabilità del quadro regolatorio e del ritorno sugli investimenti, e imprese impegnate nell’erogazione dei servizi, spesso in concorrenza con altri soggetti privati, per le quali invece le ragioni di una presenza pubblica sono assai meno forti.
In questo quadro, un settore che si è aperto alla liberalizzazione con largo anticipo rispetto al ridisegno degli assetti di mercato e alla predisposizione di un quadro regolatorio completo è quello del trasporto ferroviario nei servizi dell’alta velocità. Le potenziali distorsioni della concorrenza hanno costellato il decollo della concorrenza da parte di un secondo operatore – Ntv- che offre servizi su alcune delle tratte coperte da Trenitalia. La soluzione che meglio favorisce una riduzione di questi ostacoli, e che è in grado di mettere sul mercato un ramo di attività con prospettive di redditività interessanti, è quella di una privatizzazione delle attività di trasporto ad alta velocità (Frecciarossa e Frecciargento) attualmente offerte da Trenitalia. In questo caso, esigenze di liberalizzazione e di privatizzazione procederebbero in modo coerente, rompendo la commistione tra gestione delle infrastrutture e dei servizi che oggi distorce la concorrenza.
Nell’ambito dei settori energetici, si è già osservato come diverso sia il discorso per le attività di erogazione dei servizi, nelle quali sia Eni che Enel potrebbero vedere ridotta la quota detenuta dallo Stato con una ulteriore tranche di privatizzazioni, e attività di gestione delle infrastrutture elettriche (Terna) e del gas (Snam Retegas), per le quali si è già operata una separazione societaria ma lo Stato mantiene, attraverso Cassa Depositi e Prestiti, una presenza che ne consente il controllo. La redditività di queste aziende, fortemente legata alla regolazione dei prezzi di accesso alle infrastrutture, consente di attrarre capitali privati, e quindi di portare avanti programmi di privatizzazione parziale.
Nei servizi oggi gestiti da Poste Italiane è bene che il governo inizi una riflessione su quali tra questi ubbidiscano a obiettivi di servizio pubblico e quali siano attività del tutto equiparabili a quelle che già oggi molti concorrenti privati svolgono in competizione col gruppo pubblico, in campo finanziario, assicurativo, di telefonia mobile. Una più netta riorganizzazione societaria del gruppo tra queste attività è il primo passo per poi procedere a cessione di quote azionarie in alcune di queste.
Infine, un banco di prova dove il governo, nei complessi rapporti con le amministrazioni locali emersi anche nell’iter della legge di Stabilità di quest’anno, potrà svolgere un ruolo propulsivo riguarda il vastissimo e variegato universo delle partecipazioni degli enti locali in attività di erogazione dei servizi. Ci attendiamo dall’esperienza amministrativa del neosegretario Renzi, e dalla sua impostazione innovativa, l’apertura di un confronto tra governo e enti locali che individui gli strumenti e le forme di incentivazione al recupero di risparmi, per le amministrazioni locali, attraverso l’abbandono di opache e inefficienti forme di fornitura inhouse, o di parnership mascherate, a favore di sistemi generalizzati di assegnazione dei servizi attraverso gare e di coinvolgimento dei privati nella loro fornitura.
[/toggle]
Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.
24 Commenti