La Banca centrale europea ha fatto capire in questi giorni che Unione bancaria europea non vuol dire bail-in e men che meno bail-out europeo. Alcune banche sono destinate a fallire e saranno i governi nazionali a doversi far carico di eventuali salvataggi. La Bce non avrà riguardo verso nessuno (banca o paese) quando dovrà esaminare i bilanci delle principali 130 banche europee, tra cui il Monte dei Paschi, Banca Carige e il Credito Valtellinese.
L’impegno è credibile: la Bce è l’unica istituzione economica europea sovranazionale e ciò le consente di non essere soggetta alle pressioni politiche e alla forza contrattuale delle grandi banche nazionali, che ad esempio hanno condizionato la gestione delle vicende Alitalia e Telecom da parte del Governo italiano. Bene allora sfruttare i dodici mesi che ci separano dal passaggio delle consegne, per mettere i nostri istituti di credito nelle condizioni migliori per rafforzare i loro bilanci, i loro patrimoni e la struttura di governo. Vorremmo a questo proposito segnalare una lettura utile, un documento oscurato da gran parte della stampa italiana. Si tratta del rapporto del Fondo monetario internazionale sulla stabilità finanziaria in Italia. Suggerisce di agire su tre linee.
1. Adottare misure per facilitare lo “smaltimento” delle posizioni in sofferenza nei bilanci delle banche (hanno raggiunto il 14 per cento degli attivi), incoraggiandole a effettuare adeguati accantonamenti, facendo ripartire il mercato delle cartolarizzazioni e adeguando gli incentivi fiscali sulle perdite agli standard europei, come in parte previsto Legge di stabilità.
2. Promuovere il rafforzamento della posizione patrimoniale delle banche, anche per accrescerne la capacità di erogare prestiti e sostenere la ripresa, preparandole ad affrontare gli stress test della Bce. Questo presuppone che gli azionisti di controllo siano disposti a sottoscrivere nuovo capitale o, quantomeno, a non ostacolare l’ingresso di nuovi sottoscrittori, dunque che si siano disposti ad accettare gli investitori per i soldi che portano, indipendentemente dalla loro nazionalità o casacca.
3. Migliorare la governance delle banche e la loro struttura proprietaria, per metterle al riparo da interferenze politiche. Questo significa adottare strutture di controllo che non siano canali nascosti di penetrazione politica.
Il rapporto del Fondo documenta quanto sosteniamo da tempo: “le fondazioni bancarie sono soggette a forte influenza politica. Le fondazioni sono fortemente influenzate dagli stakeholders che esse servono (…) e di conseguenza sono fortemente influenzate da interessi locali e cicli politici” (pag. 82 del Rapporto). Dunque, le fondazioni bancarie sono il cavallo di Troia della politica nelle banche italiane, a partire dalle più grandi. Le fondazioni detengono, congiuntamente, il 9 per cento e il 25 per cento del valore azionario di Unicredit e Intesa Sanpaolo, ma arrivano a esprimere oltre l’80 per cento del consiglio in entrambi gli istituti, di fatto esercitando pieno controllo. Inoltre gli stress test effettuati da Fondo mostrano che “le banche influenzate dalle fondazioni sono uno degli anelli più deboli del settore bancario italiano” (pag. 83 del Rapporto).
Il ministero dell’Economia ha recentemente dichiarato di voler intervenire per ridurre la quota di capitale posseduta dalle fondazioni nelle banche di riferimento. Bene che si spinga oltre, trasformando queste azioni in azioni di risparmio. È quanto sta avvenendo in Spagna, dove nella ristrutturazione delle Cajas si prevede la creazione di fondazioni che siano detentrici di subordinati bancari anziché di azioni.
Un problema di governance diverso, ma non meno importante, si pone con le banche popolari, soprattutto quelle di grandi dimensioni, che, sempre secondo il rapporto del Fondo, “soffrono per via di una bassa qualità degli attivi e inefficienza”. Il problema è legato ai tetti stringenti imposti alla detenzione di quote delle banche da parte di investitori non istituzionali (lo 0,5 per cento) e al voto capitario, che “riduce gli incentivi degli azionisti a esercitare supervisione efficace sul management” e può finire per incentivare “insiders con interessi non necessariamente convergenti a quelli degli azionisti, come i dipendenti, gli ex-dipendenti o i parenti di questi, a controllare la banca”. In questo caso, la strada obbligata non sembra essere altro che quella della trasformazione delle banche popolari in società per azioni.
P.S. Delle 12 banche che sono commissariate dalla Banca d’Italia, fatta eccezione per 7 Banche di credito cooperativo (esposte spesso a distress per le loro ridotte dimensioni), 3 su 4 sono banche gestite da fondazioni come descritto nella tabella allegata.
E’ tempo di salvare le banche dalle fondazioni, ma è anche tempo di salvare le fondazioni dalle banche.
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