Lavoce.info

Se l’export cresce a spese del mercato del lavoro

Le esportazioni italiane crescono da tre anni come quelle della Germania. È una buona notizia, eppure la Spagna fa meglio. D’altra parte, i miglioramenti competitivi sono ottenuti al costo di forti deterioramenti del mercato del lavoro. I rischi del riequilibrio asimmetrico perseguito in Europa.
IL CONFRONTO SULL’EXPORT
Come vanno le esportazioni italiane? Sappiamo che la domanda estera è stata l’unica componente di spesa che in questi anni di recessione ha sostenuto il Pil e che all’export è affidato il ruolo di traino anche nella debole ripresa attesa per i prossimi mesi. La domanda è dunque opportuna, e non solo per motivi legati al ciclo, ma anche per verificare a che punto è il processo di riequilibrio competitivo intra-euro, senza il quale non potrà aversi superamento della crisi europea.
Valutiamo, quindi, la performance italiana in confronto con i paesi della moneta unica. Per superare le incongruenze tra paesi dei metodi di costruzione dei deflatori, consideriamo, inoltre, valori a prezzi correnti. (1)
La figura 1 riporta l’export di merci italiane in rapporto alla Germania e al resto dell’area euro. Come si vede, la forte perdita di quote di mercato rispetto all’economia tedesca, in atto dall’avvio dell’euro, si è praticamente fermata nel 2010. Sono tre anni che il nostro export cresce in linea con quello tedesco. È un risultato da leggere positivamente, tenuto conto che il benchmark è costituito da imprese super-competitive, nei cui confronti occorre riguadagnare posizioni.
È sufficiente? Per rispondere bisogna andare avanti nell’analisi e osservare la nostra performance rispetto al resto dell’area euro. Si caratterizza per oscillazioni molto più contenute, a conferma che la crisi italiana di quote dello scorso decennio è stata soprattutto nei confronti della Germania. Nell’ultimo periodo, si vede che, dopo una riduzione tra il 2008 e il 2009, le esportazioni dell’Italia hanno preso a crescere, anche in questo caso, in linea con gli altri partner euro.
Tra questi paesi ci sono, però, economie molto diverse, quali la Francia, rispetto a cui l’Italia ha migliorato la propria posizione sin dall’inizio dell’euro, e i cosiddetti periferici (Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda, Cipro) che, con l’Italia, si trovano impegnati in processi più o meno severi di riequilibrio macroeconomico. Come si posiziona il nostro paese rispetto al loro sforzo di aggiustamento? La figura 2 mostra il confronto con l’economia più importante per dimensioni di export: la Spagna, portata a esempio negli ultimi tempi per avere cominciato a evidenziare i frutti di un miglioramento competitivo, in termini di costi unitari di produzione e di export performance. E, in effetti, la figura mostra come l’evoluzione delle esportazioni spagnole rispetto alla Germania sia stata superiore a quella dell’Italia e, di conseguenza, come le vendite sui mercati esteri di merci iberiche siano cresciute più di quelle italiane sin dall’uscita dalla prima recessione; un andamento che si è accentuato nel 2013.
Allora Spagna sugli scudi, nuovo benchmark da imitare per noi italiani? Pur nella sua crudezza, è una conclusione errata. Trascura il modo in cui avviene il riequilibrio competitivo in Europa: asimmetrico (tutto a carico dei paesi in deficit) e con scarsa flessibilità al ribasso dei salari (caratteristica comune a tutte le moderne democrazie industriali). In queste condizioni, i miglioramenti di competitività devono essere realizzarti dai paesi in disavanzo al costo di forti deterioramenti del mercato del lavoro. La Spagna nel 2007 aveva un tasso di disoccupazione dell’8,5 per cento, due punti e mezzo in più dell’Italia; a metà 2013 la percentuale di disoccupati spagnoli è del 26 per cento, 14 punti in più dell’Italia. Anche questo è un modo per leggere la migliore performance competitiva dei prodotti spagnoli.
Lungo questa linea, la figura 3 riporta le dinamiche delle esportazioni e del mercato del lavoro nel periodo 2007-2013 in sette economie euro che, in passivo nei conti con l’estero, stanno procedendo a una correzione competitiva: a eccezione dell’Irlanda, è evidente una correlazione tra i due fenomeni, talché l’export è andato tanto meglio lì dove la disoccupazione è aumentata di più. In queste condizioni, è opinabile che un’economia come l’Italia che ha, rispetto agli altri periferici, gap competitivi e squilibri settoriali (ipertrofia costruzioni) molto più contenuti debba intraprendere lo stesso percorso di aggiustamento. (2)
UN RIEQUILIBRIO ASIMMETRICO
C’è infine da chiedersi quanto il miglioramento relativo delle esportazioni dei paesi periferici stia effettivamente sottendendo un riequilibrio competitivo intra-europeo. La figura 4 illustra l’andamento della capacità produttiva dell’industria, cioè del settore esportatore, in Germania, Italia e Spagna. (3)
Il divario che è andato aprendosi dall’avvio dell’euro tra l’economia tedesca e i due paesi mediterranei non si è ridotto, si è anzi è accentuato negli ultimi anni, cioè proprio nel periodo in cui cominciano a osservarsi dinamiche dell’export relativamente migliori. Al recupero di quote delle esportazioni delle economie periferiche non corrisponde, dunque, una riallocazione di capacità produttiva a loro favore; avviene l’opposto. Ciò è la conseguenza dell’asimmetria dell’aggiustamento europeo: la strada del recupero di competitività dei paesi in deficit passa per la forte compressione del mercato interno, ma questo incide anche sulle imprese esportatrici che hanno nella domanda domestica il principale sbocco delle loro vendite (65 per cento del fatturato per gli esportatori italiani) e sono colpite dal credit crunch indotto dalla recessione.
Gli elevati costi sociali e di perdita di base produttiva insiti in questo processo possono alla lunga renderlo non sostenibile; un rischio di cui i responsabili politici europei dovrebbero farsi carico quanto prima possibile.
 

Leggi anche:  Lezioni di Brixit dall'Italia

Schermata 2013-09-17 alle 14.15.12Schermata 2013-09-17 alle 14.15.17Schermata 2013-09-17 alle 14.15.26Schermata 2013-09-17 alle 14.15.50

 
Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat e Commissione europea
(1) La deflazione dei dati di commercio estero viene effettuata dagli uffici statistici con i valori medi unitari che risentono dei mutamenti di composizione nel basket di beni e del trattamento dei valori estremi. Per questo motivo, l’Istat ha abbandonato il riferimento ai valori medi unitari nel calcolo del deflatore delle esportazioni della contabilità nazionale, basandolo sui prezzi alla produzione dei prodotti industriali sui mercati esteri. In questo modo, però, la nostra contabilità si discosta da quella degli altri principali paesi, per i quali non si riscontra un nesso diretto tra deflatore dell’export e prezzi alla produzione sui mercati esteri. Per un controllo, le valutazioni contenute in questo articolo sono state fatte anche sulla base di dati di export deflazionati in modo omogeneo, utilizzando per ciascuna economia il relativo indice dei prezzi sui mercati esteri. I risultati sono in linea con le tendenze descritte nelle figure 1 e 2.
(2) Sulle misure di perdita di competitività dell’Italia, stimata tra il 5 e il 10 per cento come distanza da un cambio reale di equilibrio, si veda IMF, Article IV Report, Competitiveness Annex, 2012.
(3) La stima della capacità produttiva dell’industria è ottenuta dal rapporto tra l’indice di produzione industriale e il grado di utilizzo degli impianti; per la metodologia si veda https://www.lavoce.info/crisi-ripresa-recessione-credito-mercato-produzione-industriale/.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Chi paga le conseguenze se Pechino rallenta

Precedente

La multa con lo sconto, un comportamento da italiani

Successivo

Il realismo dei francesi taglia l’alta velocità

24 commenti

  1. Francesco Lavezzi

    Lei scrive di forte compressione del mercato interno che darebbe vantaggio alle imprese tedesche. Nella trasmissione Rai3 condotta da Riccardo Iacona (Presa diretta), andata in onda lunedì 16 settembre, si dice l’euro forte ha rafforzato la Germania a scapito di altri (Italia compresa). E’ questo il senso della sua riflessione; e cioè del vizio di origine dell’euro che sta impietosamente presentando il conto di una strage di imprese e lavoratori? Ed è altrettanto reale il pericolo mostrato da Iacona di nazionalismi e destre anti euro? E infine è questo il senso del suo finale, e cioè l’aupicio che a Bruxelles si rifletta quanto prima su queste tragiche conseguenze prima che sia troppo tardi? Se è così, perché abbiamo tutti applaudito l’operazione Prodi-Ciampi di entrata nell’euro, anche se a qualcuno erano noti i punti deboli della questione?

  2. SimoneCaroli

    Sarebbe corretto aggiungere che, alla luce di questi dati, tornando alla sovranità monetaria le cose non potrebbero che peggiorare?

    • Luca

      Secondo me non sarebbe corretto. Perché, ristabilendo la sovranità monetaria, il governo potrebbe disporre delle risorse necessarie a sostenere la domanda nei momenti di recessione (come questo) realizzando delle politiche anticicliche.

      • Maurizio Cocucci

        Questa è pura illusione. Intanto perchè se a fallire (o in procinto di) sono negozi di abbigliamento, cosa fa il governo, ordina un ingente quantitativo di mutande e camicie? Se è un negozio di alimentari ordina un autotreno di salsicce? Al di la della mia provocazione concordo che lo Stato potrebbe contribuire a dare una spinta all’economia, secondo le ben note teorie Keynesiane (*),però il problema se non lo elimina alla radice non risolve nulla. E cosa sarebbe da risolvere alla radice? Riequilibrare la pressione fiscale ad esempio, che oggi è troppo sbilanciata sul lavoro e sui redditi medio bassi. Gli investimenti, che sono pochi e mal orientati. La riforma della burocrazia ad esempio è a costo ‘zero’ epppure non si sta facendo nulla. Poi va ricordato che una politica del genere, ovvero di monetizzazione del deficit provocherà un innalzamento dell’inflazione che va a discapito dei redditi fissi e incentiverebbe l’esportazione di capitali.
        (*) A proposito di teorie Keynesiane non va dimenticato che la spesa pubblica americana negli anni ’20 non superava, vado a memoria, il 15%. Noi oggi abbiamo una spesa pubblica del 30% circa a cui c’è da aggiungere un 20% di spesa pensionistica, credo che nel complesso quindi lo Stato stia già facendo molto (o troppo) e sarebbe invece da invertire questa tendenza, non aumentarla. In questo modo si libererebbero risorse da destinare all’incremento della domanda interna senza intraprendere una via illusoria come quella dell’utilizzo della Banca Centrale come bancomat.

  3. Luca

    L’ennesima prova del fatto che il vincolo dell’euro, nei paesi periferici, è sostenuto a caro prezzo dai lavoratori e dai piccoli imprenditori.

  4. Erwin

    Si ma quale è il meccanismo causale che lega aumento dell’export in termini assoluti o relativi da un lato e l’aumento della disoccupazione dall’altro?

    • Luca

      Il meccanismo è il prezzo dei prodotti che è dato dal costo dei fattori produttivi, e dal cambio della moneta.
      Se il cambio non è una variabile (euro), a determinare il costo sono: capitale e lavoro. Il prezzo del primo è un fattore esogeno all’impresa, mentre il secondo può essere tenuto sotto controllo dall’imprenditore (soprattutto con i contratti atipici come co.co.pro. ecc.).
      Quindi, il risultato è che, dato che la moneta non si svaluta come succederebbe in regime di cambi flessibili, per rimanere competitivi, gli imprenditori devono rifarsi sul mercato del lavoro, mantenendo basso il costo di quest’ultimo, con tutto ciò che ne consegue: precariato, disoccupazione, e domanda interna che diminuisce.

      • Erwin

        Si, in effetti, ragionandoci, se non si può far leva sul canale della competitività estera svalutando il cambio bisogna per forza agire sulla competitività interna comprimendo il prezzo unitario, ma riducendo le quantità (calo occupazione) anziché i salari per via di una “scarsa flessibilità al ribasso dei salari (caratteristica comune a tutte le moderne democrazie industriali”. Questo si dovrebbe tradurre in un aumento della produttività oraria. Vediamo se l’ISTAT lo rileverà.

  5. Enrico

    Ottimo articolo.
    L’aumento della disoccupazione interna e l’aumento delle esportazioni non sono necessariamente correlati, ne è la prova che la capacità produttiva diminuisce (assumo che la capacità produttiva di un’azienda italiana venga misurata in base agli stabilimenti produttivi italiani).
    Dato che probabilmente le aziende con maggiore vocazione all’export sono strutturate con importanti realtà produttive all’estero, ecco che per far fronte alla maggiore richiesta (estera=export) si sono stressati gli stabilimenti non italiani.

  6. La politica di cambio fisso tra i paesi euro ha aumentato gli squilibri economici dei paesi aderenti non essendoci una politica redistributiva, ciò penso che oramai a tutti e’ noto. La politica dei compitini a casa propria imposta dalla Merkel ha aumento il vantaggio e la ricchezza della Germania sui paesi meridionali.
    Cosa fare? Continuando con tale politica si avrà la riduzione dei compensi dei lavoratori italiani e l’aumento dell’export che mai compenserà il calo del consumo interno. Inoltre:
    – la politica di bilancio e’ impotente;
    – la politica monetaria può salvare l’attuale crisi, ma non e’ prerogativa dei singoli stati;
    Quindi l’uscita dall’euro oppure la minaccia di uscita per fare cambiare passo alla Germania e’ l’unica strategia.

    • Maurizio Cocucci

      Quali sarebbero questi compiti a casa che la cancelliera Merkel avrebbe imposto?

      • Fiscal combact-no politica redistributiva-no politica monetaria espansiva con strumenti non convenzionali.

        • Maurizio Cocucci

          Il Fiscal Compact è semplicemente la rigida applicazione dei trattati di Maastricht, nulla di diverso o di nuovo per ciò che concerne i parametri, parametri che all’epoca furono decisi tutti assieme, non imposti dalla Germania. L’acquisto di titoli del debito sovrano degli Stati è vietato dallo statuto della BCE, statuto che fu concordato (anche qui non imposto dalla Germania) già prima dell’ingresso dell’euro, quindi si sapeva. Comunque lei dimentica che la BCE ha acquistato titoli del debito pubblico italiano sul mercato secondario (in forte contrasto con la Bundesbank) per un controvalore di circa 100 miliardi di euro e questo per calmierare i tassi di interesse. Inoltre, forse non lo ha notato se non ha letto il bilancio di Bankitalia, sempre la BCE e altre banche centrali dell’eurozona (Bundesbank in primis!) hanno concesso alla nostra banca centrale una linea di credito per 222 miliardi di euro e questo in violazione degli accordi. Ma forse lei pretende che questi soldi vengano regalati.
          Politica redistributiva, cosa intende? Che i contribuenti del nord Europa dovrebbero impiegare i loro risparmi per pagare i nostri deficit, deficit dovuti ai nostri sprechi e cattiva amministrazione?

          • Il fiscal combact giustamente e’ la rigida applicazione del…. e’ giusto la definizione di “rigida applicazione”, perché non è’ stata fatta fin dall’inizio tale applicazione rigida? La Germania e’ stata la prima alla deroga dell’accordo.
            Ricordiamoci le critiche della Germania del 1992 verso l’Italia per la svalutazione resasi necessaria dopo 6/7 anni di cambio fisso, nel banda stretta dello SME, naturale che la Germania successivamente e’ stata contenta dell’euro, moneta che non è stata voluta dai cittadini ma dai politici di turno(successivamente ricambiati), la Germania con l’euro ha riportato la sua bilancia dei pagamenti in surplus nei rapporti tra i paesi euro.
            La Bce come ha già fatto se vuole può acquistare sul secondario i titoli che vuole, tale politica di acquisto e’ stata bloccata da Draghi ( questa e’ la meraviglia, il tempo ci dirà perché lo ha fatto, forse avrà anche lui una carriera politica in Europa?).
            L’acquisto dei 100 mld di titoli italiani ha fatto chiudere in utile l’ultimo bilancio della Bce.
            Gli oltre 200 mld della Bce sono gli Ltro fatti a tutte le banche.

          • La politica redistributiva non deve essere intesa come i regali che il nord deve fare al sud, ma come politica necessaria, quando uno stato o una federazione di stati utilizzano una moneta comune, finalizzata alla riduzione degli squilibri economici provocati dalla moneta unica, un’altra cosa e’ la cattiva amministrazione della cosa pubblica e il costo della pubblica amministrazione, qui siamo tutti d’accordo al cambiamento uno stato più leggero più efficiente più produttivo quindi meno costoso per i cittadini, faccio un esempio in Germania hanno ridotto i comuni facendo delle forti aggregazioni, in Italia al contrario non riusciamo nemmeno a togliere le provincie, anzi le aumentiamo, ma un commissari amento dell’Italia sul settore pubblico tutti lo vorrebbero, ma una cosa diversa e’ l’economia privata, le imprese italiane sono le più produttive dell’Europa, abbiamo l costo della manodopera superiore solo alla Spagna e al Portogallo, oggi la politica dell’austerità sta uccidendo questa base produttiva non sta modificando la pubblica amministrazione che al contrario di rafforza in questo momento di crisi.

  7. Leonardo

    Sono poco convinto delle tesi sostenute. Se l’export tiene e il mercato interno crolla, non possiamo attribuire all’export la responsabilità della disoccupazione. E’ il poco lavoro che porta alla riduzione dei salari (e chi può offrire lavoro ne approfitta). Chi esporta e ha i conti in ordine ha la coda di banche davanti alla porta che offrono soldi. Il bandolo della matassa secondo me è la riduzione di reddito disponibile delle famiglie e la riduzione dello stato sociale derivante dalle operazioni di riduzione del deficit pubblico. Per questo più che incentivare le aziende vanno ridotte le tasse ai redditi bassi, perchè tutti questi soldi in più che si troveranno in tasca le famiglie più povere diventeranno subito consumi che rivitalizzano il mercato interno (e quindi l’occupazione).

  8. E’ una analisi che conferma la coesistenza in Europa di due diverse modalità di crescita delle esportazioni: da un lato quei paesi che avevano una moneta debole, abituati a competere sui mercati internazionali attraverso le svalutazioni, e che oggi non sanno fare di meglio che comprimere i costi di produzione (leggi il costo del lavoro) e dall’altro quei paesi che essendo abituati ad una moneta forte sono cresciuti grazie allo sviluppo tecnologico e all’innovazione di sistema.
    Il punto è che per fare innovazione di sistema occorrono riforme
    importanti come quelle della giustizia civile, dell’istruzione, del
    sistema finanziario, della pubblica amministrazione, dei regolamenti sui conflitti di interesse al fine di favorire meritocrazia e concorrenza leale e del sistema dei partiti che ha generato una spesa pubblica fuori controllo. Anche se oggi sembrano “impossibili” queste riforme sono l’unico antidoto al declino economico e sociale del paese.
    Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti (ma evidentemente non lo è se si continua a dire che i problemi derivano dalle politiche europee o dalle presunte politiche di austerity che, al di là dell’invenzione mediatica, rappresentano solo la tabella di marcia verso una maggiore integrazione europea) che o si accetta di stare in Europa con una moneta forte oppure si muore.
    E l’adozione di una moneta forte come l’euro non contempla tra le opzioni praticabili le scelte fatte fino ad oggi dai governi italiani (incluso quello attuale) che tra l’altro hanno assecondato politiche autolesioniste di compressione dei salari e del
    potere di acquisto delle classi medie (avvenuta nonostante la presenza dei sindacati, che nella sostanza hanno solo difeso interessi corporativi) ammazzando la domanda interna.

    • Certo è vero, nel medio e lungo periodo si deve creare uno stato più leggero e competitivo, con risorse alla ricerca e innovazione, con più meritocrazia, ciò è tutto perfetto, i vantaggi se iniziamo con questa politica possiamo averli i prossimi decenni, li avranno le generazioni future, è tutto giusto e va fatto anche subito.
      Ma ciò nel breve periodo non serve a niente, noi veniamo fuori da una politica degli anni ’80 che ha distrutto l’Italia, avevamo governi che duravano due o tre mesi e che lasciavano tutti i problemi ai governi successivi che erano sempre gli stessi.
      Oggi solo una manovra monetaria strutturale può aggiustare tutto, non vedo perché gli Usa, il Giappone e l’ Inghilterra se attuano politiche di svalutazione sono legittimati mentre l’Europa deve per forza attuare la politica della moneta forte che alla fine dei conti ha portato ricchezza solo alla Germania, facendo venire meno la costruzione dell’Europa che era sentita da tutti i cittadini come una cosa positiva, oggi se andiamo al voto in tutta Europa siamo tornati indietro di oltre 20 anni, ma ciò è quello che vuole la Germania che non vuole l’unione politica ma solo quella economica gestita da loro.

      • Maurizio Cocucci

        Scusi, ma quali sarebbero queste politiche di svalutazione adottate da USA, Giappone e Regno Unito? Se l’euro è una moneta forte non lo deve alla Germania perchè la vuole così per principio (semmai al loro contributo nel settore delle esportazioni), ma al fatto che il saldo commerciale dell’eurozona è in attivo contro quello statunitense ad esempio che è in passivo. Quando un Paese ha un saldo positivo vi è un apprezzamento della sua valuta contro quella di un Paese il cui saldo è in passivo. Se desidera un euro più debole dovrebbe convincere le aziende dell’eurozona (quelle tedesche in primis) a esportare meno. Per quanto riguarda il fatto che la politica monetaria dell’eurozona nel suo insieme ha portato vantaggi solo alla Germania è falso, si guardi i conti anche di Austria, Olanda, Belgio, Francia, Spagna e io ci aggiungo pure l’Italia perchè se la domanda interna fosse cresciuta da quando abbiamo l’euro agli stessi livelli percentuali dell’export oggi saremmo ricchi come i tedeschi. Il problema nostro di crollo della domanda interna (e dei Paesi periferici) non è l’euro, ma la (cattiva) politica fiscale e amministrativa.

  9. E’ vero che la maggior parte dei risultati delle riforme strutturali non si vedrebbero nel breve periodo, ma alcune riforme (ad esempio, una nuova disciplina del conflitto d’interesse, la riforma della giustizia civile e la riforma del sistema politico – la “governance” dell’Italia) avrebbero un impatto immediato su alcune leve del sistema economico come il grado di fiducia degli investitori internazionali e della propensione al consumo. E’ già successo con la riforma delle pensioni della Fornero, che seppure criticata e piena di errori, di fatto ha cambiato l'”outlook” sull’Italia, anche se limitatamente ad alcuni aspetti. Nella sostanza, però, è stata interpretata dai mercati come un passo in avanti del barcollante sistema Italia.
    Non credo sia possibile un cambio di rotta nella politica monetaria europea per diverse ragioni. Una è che l’economia tedesca basata su una moneta forte era più efficiente delle economie dei paesi a moneta debole già prima della creazione dell’euro, quindi se è vero che bisogna puntare su un cavallo vincente è giusto che l’Europa punti su un sistema di sviluppo economico che si avvicini di più a quello tedesco piuttosto che a quello di paesi che già erano in difficoltà nella competizione con i paesi emergenti.
    Ed infatti un’altra considerazione riguarda gli spazi sui mercati internazionali che una volta erano occupati dai paesi europei a moneta debole e che invece oggi sono occupati da altri fornitori come la Cina. Per quanta liquidità l’Europa voglia immettere nel sistema non credo sposterebbe di una virgola la capacità competitiva dell’Europa ma farebbe solo aumentare l’inflazione mettendo a rischio i debiti sovrani dei paesi membri.
    I paesi che hanno svalutato hanno probabilmente pesato i pro ed i contro, perchè le svalutazioni in un modo o nell’altro, prima o poi, si pagano con l’inflazione, l’aumento del debito pubblico, l’aumento del costo delle materie prime.

    • Piero

      Il cambio di passo sulla politica monetaria non sarà una scelta ma un obbligo, continuare in questa politica comportera la rottura dell’equilibrio sociale e l’Italia non è come la Grecia.
      Il modello di punta dei tedeschi comporta che vi siano dei paesi sudditi che di facciano spremere come hanno fatto i paesi meridionali, noi ciò lo potevamo fare solo con l’Africa, purtroppo l’area euro finiva con noi e non fu estesa al nord africa.
      Ricordo che con l’avvento dell’euro la Germania è passata da un deficit commerciale tra i paesi ad un surplus con gli stessi, ciò ha provocato un trasferimento di ricchezza al loro paese, non vi è stato ritrasferimento, anzi l’Italia ha continuato a versare contributi all’Europa (50 miliardi nell’ultimo anno).
      Ma che Europa e questa?

  10. Piero

    Dalla parità del dollaro del 2002 al livello attuale non è svalutazione? QE della Fed ancora in corso? Tutti i paesi avanzati stanno utilizzando la leva monetaria ad eccezione della Cina e la Germania, la prima perché punta sulla crescita dell’export che ha provocato la posizione di pese creditore nei confronti degli USA, la seconda perché ha trovato i paesi sciocchi europei che in cambio della diminuzione del costo del debito iniziale ( la droga sui tassi e durata solo 6/7 anni) si sono fatti ingannare con l’euro.

    • Maurizio Cocucci

      I saldi della bilancia commerciale (in questo caso USA vs.UE) secondo lei non hanno nulla a che vedere con il rapporto tra le valute (USD e euro)? E la sua spiegazione del perchè stiamo oggi soffrendo è che all’epoca eravamo tutti sciocchi da non capire il tranello teso dai tedeschi, i quali sono stati così furbi da far anche credere che siano stati tirati dentro l’euro con la forza?

  11. Piero

    I dati si commentano da soli, con l’euro sono diminuite le esportazioni che l’Italia faceva in Germania, mentre siamo stati invasi dai prodotti spagnoli, altro dato preoccupante e che la crescita delle esportazioni spagnole ha provocato un forte calo dei consumi interni con un forte aumento della disoccupazione interna spagnola. Naturalmente ciò dovrà succedere nonché in Italia e vi sarà l’inevitabile aumento dei costi sociali e perdita della capacità produttiva nel paese, come giustamente affermato nell’articolo.
    Manca un dato importante che nessuno vuole pubblicare: l’export della Germania tra i paesi euro, diviso per ogni singolo paese, si vedrà il forte surplus della bilancia dei pagamenti tedesca nei rapporti paesi euro, ciò naturalmente vuole dire che la Germania e ‘ diventata creditrice dei paesi meridionali, per questo motivo si preoccupa del loro destino, commissariandoli di fatto con le stupidità’ chiamate fiscal compact, Omt sterilizzati ecc.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén