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Caroleo e Pastore rispondono su “Troppo educati per lavorare”

Il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, in una intervista su La Repubblica dell’8 settembre ha dischiarato: “L’Italia non dovrà mai più sfornare un laureato che a 25 anni non ha mai fatto un lavoro, neppure il cameriere. Le multinazionali oggi assumono laureati su tre criteri: primo, chi ha chiuso l’università in tempo. Secondo, chi ha fatto l’Erasmus. Terzo, chi ha fatto stage o lavori. Con il decreto del Fare abbiamo già introdotto i tirocini formativi da 400 euro al mese in azienda”.
Nel nostro intervento su La voce del 19 luglio “Troppo educati per lavorare” individuavamo come, per ridurre il crescente pericolo che i giovani trovino un lavoro da sovraistruiti , fosse necessario tra l’altro aumentare la qualità dell’istruzione terziaria e del capitale umano in generale. In particolare affermavamo che occorrerebbe rilanciare il percorso del 3+2, con una laurea triennale generalista, orientata al lavoro, con percorsi anche di formazione in azienda e pieno riconoscimento del titolo di studio nel mondo del lavoro. Invece, il biennio dovrebbe essere fortemente specialistico e consentire percorsi di alto profilo, ma pur sempre con formazione in azienda quando il corso di laurea non è strettamente rivolto alla formazione accademica.
Gli interessantissimi commenti all’articolo, anche quelli di tono critico, hanno in genere toccato quelli che secondo noi sono i due corni del problema. Da un lato il fenomeno della sovraistruzione è legato alla scarsa qualità della domanda di competenze richiesta dal nostro sistema produttivo. Dall’altro i commenti più numerosi si sono concentrati sul giudizio sulla qualità del sistema universitario italiano e sulla capacità della riforma 3+2 di fornire livelli di preparazione adeguati e utili nel mondo del lavoro.
Si è affermato: “le lauree triennali sono il diploma di un tempo, le lauree tre + due sono molto teoriche perché collegamento tra teoria e pratica, ossia tra università e mondo del lavoro, è ben poco diffuso”. “Spesso il laureato ottiene una posizione inferiore a quanto il suo livello di studio ed esperienza (poca) gli consentirebbero a livello teorico in quanto, alle prove pratiche, dimostra competenze e conoscenze nettamente inferiori a quanto riportato sul curriculum”. “Io nel corso dei miei studi mi sono interrogata più e più volte su quanto ciò che stavo apprendendo potesse poi effettivamente essermi utile nel mondo del lavoro. Tanta tanta teoria, ma quasi niente di applicabile alla vita reale”. “…il 3+2 di oggi: in molte università il percorso di studi è tutto pianificato per i cinque anni. In poche parole la laurea triennale è volutamente poco spendibile, in modo da costringerti a proseguire”. “ I risultati che la laurea triennale in Ingegneria civile è in grado di produrre la rendono molto meno conveniente di un semplice diploma di geometra (o tecnico per l’ambiente e il territorio, come si chiama ora): si entra prima nel mercato del lavoro, si ha una preparazione molto più professionalizzante (lo dico per esperienza, alle superiori ho fatto il geometra) e si risparmiano i soldi dell’università”.
Una conseguenza di questo stato di cose, ben evidenziata dai vari commenti, è la tendenza a prolungare il processo di transizione scuola-lavoro a dopo la laurea. La formazione post-universitaria (master, corsi di specializzazione ecc.), prevedendo in genere una qualche forma di stage, diventa il modo attraverso cui i giovani “fanno curriculum” e riescono a segnalare o ad avere un primo contatto con il mondo del lavoro. Ma anche in questo caso i commenti sono sconfortanti: “Le vere fabbriche di titoli sono qui (la formazione post-universitaria) ed è piuttosto evidente che se mi fregio anche del master x o della specializzazione y, ma non trovo uno sbocco lavorativo coerente sarò statisticamente overskilled, mentre in realtà le cose sono diverse”. Ancora: “Quanti abbandonano o non intraprendono una formazione post lauream visto l’effettivo apporto che essa dà? Quanto è facile fermarsi ai titoli acquisiti nel cv di un candidato, senza valutare la sostanza di quei titoli? Qual è il ruolo del diritto allo studio nella formazione specialistica?”. “La vergogna italiana: curricula di giovani iperpreparati buttati nel cestino”. “Cv perfetti che alla prova pratica si rivelano un romanzo di fantasia, megatitoloni di master e corsi e poi mancano nozioni di base sulla partita doppia e cosi via, non parliamo della voce lingua straniera dove la parola più ricorrente è fluent…”
In effetti sorge il sospetto che questa tendenza produca un forte spreco di risorse monetarie e di capitale umano. Non si capisce, infatti, perché il percorso universitario non debba essere sufficiente a fornire le competenze e il livello di istruzione in grado di ottenere un lavoro adeguato.
Detto molto banalmente, si sa che dopo la scuola dell’obbligo la scelta di prolungare gli studi frequentando un corso di laurea deriva dal fatto che i giovani vogliono accrescere il proprio capitale umano in modo da poter concorrere a posti di lavoro qualitativamente migliori. Ma come ha ben evidenziato il premio Nobel Gary Baker (1964), il capitale umano non è solo rappresentato dal livello di istruzione ma anche dall’esperienza lavorativa generica e specifica acquisita nel lavoro.
Ha ragione quindi il ministro Carrozza quando si pone il problema di far sì che un giovane già durante la scuola secondaria o durante l’università possa fare esperienza diretta sul lavoro. I confronti internazionali già evidenziano come i paesi , come la Germania, con un sistema scolastico ed universitario duale, ovvero con percorsi educativi che prevedono l’alternanza tra periodi di istruzione e periodi di apprendistato sul posto di lavoro, siano quelli che permettono un miglior inserimento lavorativo dei giovani.
Ma dall’esperienza di questi paesi si possono ricavare anche alcune problematiche che il ministro dovrebbe tener presente. Il sistema duale, perché possa funzionare, deve basarsi su una stretta e ben codificata collaborazione tra scuola, mondo della imprese e pubblica amministrazione. Per questo secondo noi nel nostro paese è necessaria una vera rivoluzione culturale che cambi la mentalità di questi soggetti istituzionali. I docenti dovrebbero saper superare l’atteggiamento rigido che li porta ad avere l’idea che l’università non possa fornire alcun percorso professionalizzante. Le imprese dovrebbero capire che il giovane che si affaccia nel mondo del lavoro deve acquisire esperienza che solo sul posto di lavoro si può acquisire. Ed essere disponibili a fornirgliela. La pubblica amministrazione dovrebbe attrezzarsi per fornire servizi di coordinamento e risorse progettuali e finanziarie al fine di attivare occasioni d’incontro tra studenti ed imprese.
Sicuramente, allora, i pochi euro messi a disposizione per finanziare tirocini formativi nel decreto del Fare vanno nella direzione giusta, ma non sono sufficienti a realizzare tutto ciò di cui ci sarebbe bisogno. Speriamo però che si sia finalmente imboccata la strada giusta, dopo tanti anni in cui il fare università non ha tenuto conto delle problematiche sollevate qui.

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Il Punto

  1. Roberto Bianchi

    Grazie innanzitutto delle vostre preziose riflessioni.
    Lavoro come docente in un centro di formazione professionale con allievi adolescenti e sto frequentando un master universitario su apprendimento, lavoro e sviluppo organizzativo. Il tema della relazione scuola-lavoro fa parte dell’esperienza pluriennale della “vituperata” formazione professionale regionale, che rappresenta, in realtà, un luogo straordinario di sperimentazione e di creatività didattico-pedagogica e di competenze sociali e relazionali. Che la professionalità esperta si acquisisca attraverso le pratiche reali contestualizzate dovrebbe essere assunto comune, cosa ovvia. E non può esistere apprendimento reale se non vengono coinvolte le sfere spaziali, fisiche, ambientali, emotive. La centralità del pensiero e della cognizione astratta, che peraltro non possono essere slegati dagli altri aspetti che ci caratterizzano come persone, ci ha portati a trascurare la valorizzazione di una pluralità di fattori, non ultima la molteplicità delle intelligenze. In particolare, la nostra tradizione culturale ci porta a stigmatizzare le intelligenze e le attività professionali di tipo pratico, dimenticando che il lavoro artigiano, ad esempio, richiede elevate capacità di pensiero e l’utilizzo coordinato di più tipologie di intelligenze. Forse parte del nostro mondo accademico trascura proprio le “evidenze più evidenti” della ricerca sul campo degli ultimi (ahimè) almeno vent’anni.

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