Secondo un esperto di economia dello sport, il financial fair play cambierà in modo radicale il mondo del calcio, irrigidendo il divario tra piccoli e grandi club. Dobbiamo veramente aspettarci campionati di calcio meno interessanti?

Il weekend che è alle porte segna l’inizio della stagione calcistica italiana, una settimana dopo il calcio d’inizio in Premier League e nella Liga. Come sempre, per gli appassionati, ogni campionato ha i suoi motivi d’interesse. In Italia ci si chiede chi contenderà alla Juventus lo scudetto, in Inghilterra se Mourinho tornerà a far prevalere il Chelsea contro un Manchester United senza sir Alex Ferguson sulla panchina dopo più di un quarto di secolo, in Germania se Guardiola riuscirà a far ripetere al Bayern Monaco la stagione trionfale appena trascorsa. Senza dimenticare che questa stagione si concluderà il 13 luglio 2014 con la finale dei Mondiali organizzati in Brasile. Ma, secondo Stefan Szymanski, un ricercatore dell’University of Michigan esperto di economia dello sport e coautore del libro Soccernomics, i campionati di quest’anno vanno assaporati anche per un’altra ragione: il financial fair play imposto dall’Uefa sta per cambiare radicalmente il mondo del calcio, probabilmente in peggio (1).
UNA GESTIONE PIU’ PRUDENTE
Come sappiamo, sotto la spinta del presidente Platini, l’Uefa ha approvato regole che impongono ai club di legare le spese ai ricavi (2), in modo da ridurre i deficit di bilancio che gran parte di essi hanno e che ne compromettono a volte la stessa esistenza. Secondo alcuni esperti, tra cui Szymanski stesso, è probabile che questa regolamentazione riduca la concorrenza tra club, cristallizzando la superiorità dei grandi club rispetto ai piccoli. Non sarà più possibile per uno sceicco o per un altro magnate acquistare, ad esempio, il Cagliari e investire abbastanza da farlo tornare alla gloria dei giorni di Gigi Riva e Manlio Scopigno. Szymanski  va oltre e vede il financial fair play come il primo passo del calcio europeo nella direzione degli sport americani che, per mantenere l’equilibrio finanziario dei club, hanno ristretto l’entrata, abolendo retrocessioni e promozioni e concedendo la possibilità di ingresso a nuove squadre alle major leagues solo in presenza di bacini di utenza sufficientemente ampi e remunerativi. Un significativo indizio di questa tendenza, a suo avviso, è fornito dal fatto che ormai 6 dei 20 club di Premier League siano controllati da investitori americani (senza dimenticare, in Italia, la Roma di James Pallotta).
FINANCIAL FAIR PLAY…. MINORE CONCORRENZA SPORTIVA?
Quanto fondati sono questi timori? Il financial fair play cambierà radicalmente e in peggio il calcio europeo?
In primo luogo, l’efficacia del financial fair play va ancora valutata a fondo. Uno dei suoi punti deboli, come ormai sembra chiaro dalle esperienze di PSG e Manchester City, è che il proprietario di un club può alimentare in modo artificiale i ricavi mediante contratti di sponsorizzazione estremamente generosi. Al posto di ripianare le perdite, si gonfiano le entrate. Vedremo se questa strada verrà percorsa da altri club e come reagirà l’Uefa.
In secondo luogo, occorre ricordare che alcuni dei club di maggior successo a livello europeo hanno sempre prestato grande attenzione ai bilanci. I due club che hanno disputato la finale dell’ultima edizione della Champions League, il Bayern Monaco e il Borussia Dortmund, sono due società che si sono distinte, negli ultimi anni, per la loro gestione economica oculata e per i bilanci in ordine (anche se il Borussia, circa dieci anni fa, era praticamente sull’orlo del fallimento). Ma va ricordato che anche il Manchester United generava profitti prima che i fratelli Glazer (americani, peraltro) lo comprassero con un leveraged buyout, caricando cioè la società stessa dei debiti contratti per il suo acquisto. E, al contrario, non sempre le politiche di spese sconsiderate di ricchi investitori hanno portato a trionfi sul campo, come mostrano i casi di Anzhi e Malaga. Successi sportivi e gestioni economiche oculate non sono dunque incompatibili.
In terzo luogo, il sistema attuale garantisce una certa mobilità tra le diverse categorie (quest’anno in Italia avremo per la prima volta in serie A il Sassuolo, ad esempio), ma in misura molto minore ai vertici. Negli ultimi 10 anni solo quattro squadre hanno vinto la Premier League e solo tre la Liga e la Serie A. L’ultima volta che una squadra “provinciale” ha vinto lo scudetto in Italia risale ormai a quasi trenta anni fa, con l’Hellas Verona. Quasi nessuno pensa che la Liga possa essere vinta quest’anno da un club diverso da Real Madrid e Barcellona. I grandi club hanno sempre avuto maggiori probabilità di vincere, come è ovvio che sia. Il nesso tra financial fair play e minore concorrenza sportiva non sembra quindi scontato. Ancora più avventurosa è la previsione dell’”americanizzazione” del calcio europeo. Passare a un sistema che, ad esempio, non prevede retrocessioni e con playoff alla fine della stagione, è molto rischioso perché va contro la tradizione e le abitudini di gran parte dei tifosi europei. Dubito che qualcuno voglia veramente testare la reazione dei tifosi a un simile cambiamento.
Il calcio è sempre di più un fenomeno globale e proprio per questo attira nuovi investitori, a volte provenienti da Paesi senza tradizione (il tormentone dell’estate calcistica è stato il passaggio dell’Inter all’indonesiano Thohir), che portano metodi di gestione diversi da quelli abituali e i cui effetti sono a volte difficili da prevedere. Il tempo dei presidenti “ricchi scemi” è agli sgoccioli ed è giusto interrogarsi sull’evoluzione del calcio. Ma è difficile concludere che regole che hanno l’obiettivo di condurre le società ad avere una gestione finanziaria più oculata siano contro l’interesse di lungo periodo dei tifosi e del calcio stesso. Godiamoci dunque questo lungo anno calcistico. Il Brasile è (quasi) alle porte.
(1)http://www.ft.com/intl/cms/s/0/a13db70c-05d7-11e3-8ed5-00144feab7de.html
(2) http://www.financialfairplay.co.uk/financial-fair-play-explained.php

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