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Perché non bisogna aver paura della libertà di scelta dei lavoratori


Le risposte alle critiche ricevute sulla proposta del Tfr in busta paga sono nelle condizioni alle quali verrà fatta l’operazione. Se il trasferimento di una mensilità aggiuntiva l’anno, per tutti i lavoratori che lo richiedessero, sarà fatto solo su base volontaria, se graverà su tale anticipo la stessa imposta che grava ora sul Tfr (tassazione separata non cumulabile con retribuzione), se l’anticipo sarà materialmente e tecnicamente a carico del sistema bancario e quindi se le imprese non avranno nessun costo né riduzione di liquidità, se le garanzie sul prestito bancario fossero tali da fare effettivamente un’operazione di impegno bancario risk free e a tasso(quello del Tfr) garantito e indicizzato sull’inflazione, avremo tre effetti importanti per la nostra economia. In sintesi, sono: un rilevante afflusso di reddito (volontario) con i relativi effetti positivi su domanda e crescita, un rilevante gettito fiscale aggiuntivo e immediato per lo Stato, un miglioramento della patrimonializzazione delle banche.
Sono condizioni che ho avuto occasione più volte, in passato, di ricordare e mi pare che il Governo stia andando in quella direzione, vedremo…. Altre critiche sono state mosse, tutte legittime, alcune convincenti, come quelle di Fausto Panunzi relative all’effetto deprimente sui consumi delle aspettative: è un effetto probabile, ma, viste le quantità in gioco, l’impatto sui consumi sarebbe comunque significativo. E poi il Tfr in busta paga è solo uno degli strumenti di una politica anticiclica, che è fatta di più elementi.
L’operazione non vuole mettere vincoli, ma eliminarne alcuni anacronistici come il risparmio “coatto”. Non si può pensare che lo Stato (se non per la previdenza pubblica) debba continuare a imporre a tutti di diventare formiche previdenti che accumulano cibo, vietando però loro di mangiarne un po’, neanche per sopravvivere. Penso che le formiche siano da preferirsi alle cicale solo nel caso in cui siano vive.
TFR E PREVIDENZA COMPLEMENTARE
Ma veniamo alla critica più diffusa: “in tal modo si penalizza il risparmio previdenziale da convogliare nei fondi pensione e nella previdenza integrativa”, espressa in particolare da Assofondi con l’intervento di Michele Tronconi. Si parte dalla premessa che con più libertà di scelta il Tfr non sarebbe destinato a risparmio e in particolare a previdenza complementare. Quindi, la previdenza complementare non ha un suo appeal “autonomo”, se si ha timore che nel caso i lavoratori fossero liberi di decidere sul proprio Tfr, anche con l’alternativa (che oggi non hanno) di averlo in busta paga, “penalizzerebbero i fondi”. Ma allora il tema si sposta sulla previdenza complementare in Italia e sul perché non decolla. Le adesioni (anche se spinte dal “silenzio assenso” e dal fatto che se non si aderisce si perdono i contributi dell’azienda perché non c’è la possibilità di trasformarli in salario) sono 6 milioni su 22 milioni di occupati. Inoltre, dei 6 milioni che avevano aderito, ben un milione e 400 mila ha smesso di versare i contributi e risulta ancora iscritti. Il segnale che ci manda quel quarto di aderenti che dopo essersi iscritto non effettua più i versamenti (senza poter uscire e ritirare il montante) è chiaro: pesa sulla previdenza complementare sì la crisi economica, ma soprattutto pesano i difetti del sistema. Io penso che il nemico vero della previdenza complementare nel nostro paese sia proprio l’attuale modello.
Il problema infatti non si esorcizza assumendo come giustificazione una presunta assenza di cultura previdenziale e del risparmio: tesi azzardata a stare alle cifre sulla propensione al risparmio di lungo periodo, e al fatto che l’Italia è il paese europeo che ha una forma di risparmio rilevantissimo, superiore alla media europea costituito dalla proprietà della casa (la ricchezza in case è stimata essere superiore alla ricchezza pensionistica). Ed è anche questa lungimirante forma di risparmio che spiazza il risparmio previdenziale complementare: le famiglie ritengono giustamente preferibile risparmiare “nel mattone” come forma di tutela per i figli e la vecchiaia (anche perché mentre si paga il mutuo nella casa ci si può abitare, mentre il risparmio in un fondo è “silente” fino al momento della pensione).
Inoltre, è e rimarrà centrale l’attuale risparmio previdenziale pubblico. Occorre abbandonare un’impossibile concorrenza al sistema pubblico (addirittura c’è chi per risolvere alla radice il problema ha proposto di rendere obbligatoria la previdenza facoltativa) e prendere atto definitivamente che non è vero che con il sistema pensionistico pubblico i giovani avranno pensioni inadeguate. Il tasso di sostituzione futuro sarà più basso di quello passato, ma rimarrà al 70 per cento al netto (come ormai confermato da tutti gli studi più seri, vedi Unione Europea, Ragioneria generale dello Stato e altri). Certo, è più basso di quello attuale e delle pensioni retributive, ma è quest’ultimo che è stato ed è troppo alto in media (con grandi iniquità distributive). Certo, non sarà così se le carriere saranno tutte di basso reddito e con pochi anni di contributi, ma questo problema non lo può risolvere la previdenza complementare, dato che quella fascia di lavoratori non ha margini di risparmio e il Tfr servirebbe loro per garantirsi un reddito adeguato o una tutela dalla disoccupazione. Ma il problema di un mercato del lavoro che va male non lo può risolvere il sistema pensionistico. Nessuno può seriamente pensare di avere un paese al mondo con un mercato del lavoro che va malissimo, una bassa crescita e un sistema pensionistico, pubblico o privato che sia, florido. O meglio, un paese così c’è stato: l’Italia degli anni Duemila e infatti il debito pubblico è passato dal 100 al 135 per cento.
I veri freni al decollo della previdenza complementare sono nei bassi rendimenti (vicinissimi a quelli del Tfr), nell’eccesso di vincoli alle possibilità di libera uscita dai fondi, (come sottolineato anche da Amato), nell’inefficienza costituita da generosi e regressivi incentivi fiscali che finiscono per ridurre l’efficienza dei gestori e anche in quella sfiducia sul futuro che Michele Tronconi evoca, e che è legittimata non solo dai rischi “politici”, ma ben più dai rischi demografici e finanziari dai quali, come dice l’UE, non è indenne la previdenza privata.
PERCHÉ NON SERVE UN FONDO DEI FONDI
Ma il Il punto più “critico” è quello del rapporto con le imprese e con i mercati finanziari. Quanto scrive il Tronconi è chiarissimo e lo condivido integralmente  “Nella fase attuale (…) l’allocazione del nostro risparmio previdenziale sia finita per quasi due terzi in un impiego estero (…) un lieve difetto: il disaccoppiamento tra origine del risparmio e luogo del suo impiego produttivo, se eccessivo, può trasformarsi in un amplificatore pro-ciclico (…). Il lieve difetto si è inoltre sommato a un piccolo costo per il sistema delle imprese, connesso alla devoluzione del Tfr maturando, cosa che in una fase di credit crunch ha concorso a fare sì che il costo sistemico si trasformasse in termini di minore occupazione”. Forse tali difetti (esportazione di risparmio) e costi (minore occupazione) non sono tanto piccoli specie se amplificano una crisi già in atto. E quindi si pone l’interrogativo: è stato giusto negli ultimi sette anni prelevare circa 35 miliardi di Tfr dalle imprese italiane e investirlo per il 75 per cento all’estero, tutto questo per garantire al lavoratore un rendimento del 22 per cento invece che del 20 per cento, con una differenza minima sulla pensione futura, ma massima per le imprese che quei 35 miliardi li hanno dovuti cercare altrove, spesso senza trovarli?
La proposta di ri-orientamento degli investimenti con un “fondo dei fondi” mi pare lodevole nelle intenzioni, ma un po’ da economia pianificata. Se si vuole veramente far avere liquidità alle impresa, basta non torgliergliela lasciandogli il Tfr (e magari contrattando con il sindacato un aumento di rendimento del Tfr per il lavoratore). Oppure metterlo in busta paga, ma anticipato da una banca. Tutto ciò peraltro determinerebbe un colossale risparmio di tutti i costi di intermediazioni dei fondi e dei gestori e delle burocrazie
La crisi sta riducendo l’opportunità di garantire le promesse previdenziali. È bene che la previdenza complementare non abbia paura di un sistema economico con più libertà di scelta, ma trovi il suo spazio togliendo lacci e lacciuoli a se stessa, favorendo la crescita dell’economia e, soprattutto, riformandosi radicalmente.
E questa sarebbe una buona notizia, specie per chi come me, alla fine degli anni Novanta ha contribuito attivamente alla fase pionieristica di costruzione della previdenza integrativa.

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  1. Roberto

    Io sono pronto a scommettere qualsiasi cifra che i giovani lavoratori odierni che andranno in pensione nel 2050 (in poi) non avranno un tasso di sostituzione del 70%, sarà già buono arrivare al 50% sperando di mantenere un vita lavorativa senza pause.
    Questo perché nelle simulazioni che si fanno adesso ci si basa sulla legislazione vigente, senza prendere in considerazione i probabili cambiamenti che si avranno da qui al 2050 a causa della situazione economica e finanziaria dell’Italia (sostenibilità della spesa pensionistica, bassa crescita economica, debito pubblico che bisognerà ridurre prima o poi).
    Sulla libertà di scelta del tfr da lasciare al lavoratore si può essere d’accordo, però prima bisogna informare adeguatamente sui rischi futuri mica pubblicizzare il tfr in busta basa, come fa il governo, come se fosse un regalo che si fa ai lavoratori.
    Tutto ciò specialmente in un paese come l’Italia privo di cultura finanziaria, problema che riguarda anche la mancata diffusione della previdenza complementare.

  2. Silvestro De Falco

    Lei insiste a dire che il tasso di sostituzione della previdenza pubblica sarà del 70%. Non è vero. Ci indichi questi studi cui lei fa riferimento e discuta le assunzioni su cui si fonda questa previsione.

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