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PERCHÉ È UTILE TASSARE MENO LE DONNE

Un governo che volesse realizzare una riduzione della pressione fiscale per stimolare la crescita economica, otterrebbe risultati maggiori concentrandola sulle sole donne. La minore aliquota sui redditi delle donne si applicherebbe poi a una base imponibile maggiore e quindi il gettito fiscale diminuirebbe poco. Non è la mancanza di servizi di cura a tenere le donne lontane dal mercato del lavoro, ma una divisione dei compiti squilibrata all’interno della famiglia. La tassazione differenziata per genere aiuta a cambiare una mentalità che non ha più alcuna giustificazione.

Siamo stati i promotori dell’introduzione in Italia della tassazione differenziata per genere e ovviamente non la consideriamo una “stonatura” del programma del nuovo governo. Sarebbe forse meglio attendere di avere maggiori informazioni su quello che Mario Monti e i suoi ministri concretamente vorrebbero fare prima di discuterne in astratto, anche per non ripetere cose già dette. (1) Tuttavia, grazie a lavoce.info, il dibattito si è riaperto, proviamo dunque a riassumere le ragioni per cui riteniamo sia utile discutere di questa proposta .

UN PROBLEMA DI OFFERTA

Nel breve periodo, la proposta si giustifica in virtù del principio secondo cui è possibile diminuire la pressione fiscale media, a parità di gettito, tassando di più i beni la cui offerta è rigida rispetto a quelli la cui offerta è flessibile. Innumerevoli studi economici mostrano che l’offerta di lavoro femminile, soprattutto nelle fasce economicamente deboli, reagisce in modo diverso da quella maschile rispetto a variazioni del salario. (2) In particolare, gli uomini non riducono la loro offerta di lavoro quando la retribuzione diminuisce, mentre le donne iniziano a lavorare più volentieri o lavorano significativamente di più, se già occupate, quando la loro retribuzione aumenta. È quindi possibile tassare poco di più gli uomini, senza ridurre la loro base imponibile e aumentando il gettito da loro prodotto, per poter tassare molto meno le donne che in questo modo lavorerebbero di più. La minore aliquota sui loro redditi si applicherebbe a una base imponibile maggiore e quindi il gettito fiscale delle donne diminuirebbe poco. In altre parole, un governo che, come Mario Monti ha detto, volesse realizzare una riduzione della pressione fiscale per stimolare la crescita economica, otterrebbe risultati maggiori concentrando la riduzione sulle sole donne.
Chiara Saraceno obietta che la scarsa occupazione femminile è un problema di domanda non di offerta. È un’affermazione da dimostrare empiricamente e se possibile in modo sperimentale. Non sappiamo su quale evidenza empirica Saraceno fondi questa sua convinzione. Quello che sappiamo è che il meccanismo della traslazione dell’imposta fa sì che una riduzione del prelievo fiscale sull’offerta si traduca almeno in parte in una riduzione del costo del lavoro, che quindi stimola la domanda. Il caso evidente è quello dell’imprenditoria: se il lavoro delle donne fosse tassato meno sarebbe più facile per loro far nascere imprese. Ma non è certo l’unico esempio. Molti ritengono che tra i vincoli che impediscono la crescita nel nostro paese ci sia l’eccessiva tassazione del lavoro. Ai tempi del governo Prodi si parlava di riduzione del “cuneo fiscale” per rilanciare l’occupazione. Se Chiara Saraceno avesse ragione, ridurre il prelievo fiscale sul lavoro sarebbe inutile. Invece la maggior parte degli economisti oggi ritiene il contrario. Ed essendo difficile che gli uomini lavorino di più, gli effetti benefici della riduzione possono conseguire solo dalle donne. Quindi tanto vale concentrarla lì.

PIÙ PARITÀ IN FAMIGLIA

Chiara Saraceno afferma poi che la scarsa offerta di lavoro femminile dipende dalla carenza di servizi di cura. Questo, però, è qualcosa che limita l’offerta, non la domanda, in contraddizione con quanto lei stessa precedentemente afferma. Comunque sembra difficile credere che il problema sia davvero la carenza di servizi (pubblici) di cura. In paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna e altri ancora, questi servizi mancano più che da noi, eppure i tassi di occupazione femminile sono maggiori dei nostri. Lo sono perché i compiti di cura sono distribuiti in modo più equilibrato tra i membri delle coppie e le famiglie hanno maggiori risorse economiche per poter comprare i servizi di cura sul mercato. La tassazione differenziata per genere aumenta le risorse a disposizione delle famiglie (perché mediamente sono tassate meno) e quindi consente di chiedere maggiori servizi al mercato, cosa che indirettamente accresce anche la domanda di lavoro femminile.
Nei paesi scandinavi dove lo Stato offre servizi di cura in abbondanza, i tassi di occupazione femminile sono elevati, ma si osserva anche una forte segregazione occupazionale per genere. (3) Il motivo è che in un mondo in cui sono le donne a doversi occupare prevalentemente dei figli, gli asili nido consentono loro di lavorare, ma solo in impieghi compatibili con l’accompagnare e riprendere i figli a ore precise e stare con loro quando sono malati. Chiunque abbia figli sa che gli asili nido risolvono solo parzialmente le difficoltà di conciliazione dell’attività di genitori con il lavoro.
In ogni caso pensare ai servizi pubblici di cura come una soluzione per l’occupazione femminile significa dare per scontato che debbano essere le donne, e non gli uomini, a curarsi dei figli, degli anziani e della casa. Vuol dire usare l’aspirina per curare il sintomo, invece di andare a toccare l’origine del problema, che è lo squilibrio dei compiti familiari tra donne e uomini in famiglia. Proprio su questo squilibrio agisce, nel lungo periodo, la tassazione differenziata per genere.
La divisione dei compiti all’interno della famiglia è ancora fortemente sbilanciata, come dimostrano innumerevoli ricerche e la quotidiana percezione di tutti. In un mondo in cui la forza fisica fosse un requisito importante per lavorare nel mercato, sarebbe efficiente che le donne si specializzassero nei lavori casalinghi e gli uomini in quelli fuori casa, come è stato per migliaia di anni. Ma oggi non è più così: in un’economia avanzata come quella italiana, sono sempre meno i lavori fuori casa per i quali si possa sostenere che gli uomini hanno un vantaggio comparato rispetto alle donne, di natura tecnologica o biologica. Tuttavia le donne non possono esprimere fuori casa la stessa energia degli uomini perché su di loro ricade la maggior parte dei compiti domestici. Il risultato è che, sommando lavoro in casa e fuori, le donne lavorano 80 minuti al giorno in più degli uomini.
Tra i compiti familiari, solo la gravidanza e l’allattamento al seno possono essere considerati impossibili per gli uomini. Eppure i lavori in casa e fuori sono allocati in modo squilibrato tra i sessi, perché così è stato in una storia secolare in cui questo aveva un senso. Oggi non lo ha più. In altre parole, se per un verso le differenze di genere che osserviamo sono efficienti dato il secolare condizionamento storico-culturale, qualora potessimo eliminare il condizionamento e ricominciare da capo nelle attuali condizioni di sviluppo economico, sarebbe più efficiente redistribuire in modo equilibrato i compiti tra donne e uomini sia nel mercato che in casa.
La tassazione differenziata per genere contribuisce esattamente a questo effetto, accelerando un processo evolutivo che comunque è in corso, ma appare troppo lento. Contribuisce perché aumenta il potere contrattuale delle donne all’interno delle coppie. (4)

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REDISTRIBUZIONE E FORMAZIONE

Non sappiamo se Chiara Saraceno abbia colto questa funzione della tassazione differenziata per genere, dal momento che sembra conoscere solo il primo dei nostri articoli in proposito, sul Sole24Ore, e forse non ha visto il nostro lavoro scientifico al riguardo. Ha però ragione a dire che la proposta comporta conseguenze da valutare con attenzione per i maschi single e le famiglie monoreddito nelle quali solo l’uomo lavora. Se in queste famiglie l’incentivo fiscale non fosse sufficiente a indurre la donna a lavorare, il reddito familiare diminuirebbe. Tuttavia uno studio recente di Fabrizio Colonna e Stefania Marcassa mostra che oggi in Italia le donne sono di fatto tassate di più, per il gioco delle detrazioni, soprattutto nelle famiglie meno abbienti in cui solo l’uomo lavora. (5) Anche alla luce di questo dato, non ci sembra una stonatura che il governo Monti voglia seriamente prendere in considerazione il problema dei regimi fiscali a cui sono assoggettati donne e uomini in Italia.
In ogni caso, sono pochissime le riforme che aumentano il benessere di tutti. Quando va bene, il beneficio tratto da alcuni supera i costi sofferti da altri. Decidere se ne vale la pena è compito della politica. E i problemi distributivi sollevati da Chiara Saraceno sono risolvibili affiancando la tassazione differenziata ad altri strumenti di riequilibrio fiscale. Inoltre il problema delle differenze di genere non è solo la scarsa occupazione femminile, ma anche la difficoltà a far carriera. La tassazione differenziata agisce anche su questo.
Chiara Saraceno ritiene più efficace investire nella formazione delle donne a bassa istruzione. Tutti i dati mostrano però che ormai le donne sono più istruite degli uomini (e conseguono voti mediamente migliori a scuola), sembra dunque difficile che questo possa spiegare perché oltre metà delle donne italiane non lavora. Inoltre, è stato ampiamente documentato lo spreco di soldi pubblici per corsi di formazione di cui nessuno ha mai valutato la reale efficacia. (6) Ma se si riescono a trovare i soldi per la formazione (efficace), certo male non fa. Non si dimentichi, però, che la tassazione differenziata per genere è a costo zero per il bilancio pubblico: e proprio di riforme a costo zero ha bisogno Monti.

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(1) I lettori de lavoce.info interessati a leggere quando da noi scritto, trovano a questo link vari articoli usciti su Il Sole24Ore, Financial Times e Vox. L’articolo scientifico che studia nei dettagli la proposta è “Gender based taxation and the division of family chores”, scritto insieme a Loukas Karabarbounis, American Economic Journal: Economic Policy, 2010. Infine la proposta è descritta e argomentata anche nel nostro libro “L’Italia fatta in casa”, Mondadori, 2009.
(2) Vedi recentemente, tra gli studi più convincenti, Alexander Gelber “Taxation and the Earnings of Husbands and Wives: Evidence from Sweden”, in corso di pubblicazione sulla Review of Economics and Statistics, che sfrutta la riforma fiscale svedese dei primi anni Novanta per studiare, in modo quasi sperimentale, le reazioni dell’offerta di lavoro di donne e uomini indotte da variazioni “esogene” delle retribuzioni al netto delle tasse. Per l’Italia otteniamo risultati simili in una nostra ricerca in corso di elaborazione i cui risultati verrano presentati a Milano il 30 novembre presso l’aula magna di Unicredit in via Tommaso Grossi 10.
(3) Vedi ad esempio Breen and Penalosa, (2000) “A Ratioanl Learning Model of Gender Segregation in Labour Markets”, Journal of Labor Economics.
(4) Essendo tassate meno, le donne potrebbero dire agli uomini: “sono le 4: vai tu a prendere il bambino all’asilo e inizia a cucinare, perché conviene a tutta la famiglia se continuo io a lavorare e tu smetti”.
(5) F. Colonna e S. Marcassa “Taxation and Labor Force Participation: The Case of Italy”, Banca d’Italia 2011.
(6) Vedi ad esempio Martini e Trivellato “Sono soldi ben spesi?”, Marsilio 2011.

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14 commenti

  1. fRancY

    due commenti: 1) l’offerta di lavoro maschile è rigida DATA LA TASSAZIONE OMOGENEA di maschi e femmine che c’è oggi. E se con l’introduzione della tassazione differenziata la curva di offerta maschile cambia e diventa più flessibile? Ad esempio, proprio grazie a un riequilibrio della divisione dei compiti all’interno della famiglia, l’offerta maschile potrebbe diventare più reattiva ad incentivi fiscali. 2) dite che la “divisione dei compiti è squilibrata all’interno della famiglia”. Ora, perdonate la franchezza, ma chi siete voi per dire cosa è equilibrato o squilibrato in una famiglia? Perché dovrebbe essere socialmente utile incentivare fiscalemente una redistribuzione dei compiti all’interno di esse? E se questa struttura delle famiglie è semplicemente revealed preferences?

  2. Matteo

    Vorrei porre all’attenzione dei due autori un aspetto su cui potrebbe essere necessario approfondire l’analisi per capire se in Italia, e soprattutto al sud, il problema della disoccupazione femminile sia davvero un problema di domanda e non di offerta. L’aspetto in questione è rappresentato dalle innumerevoli agevolazioni contributive per le assunzioni (oltre 30) che in alcuni casi riguardano direttamente il target femminile. Da anni esistono meccanismi di sgravi contributivi anche consistenti che riguardano una platea ampia di beneficiari e che pur incidendo significativamente sul costo del lavoro tuttavia non sembra abbiano generato scatti impetuosi da parte delle aziende nell’assunzione nè di uomini nè di donne. Certo uno studio valutativo sull’efficacia di tali misure permetterebbe di capire meglio da che parte sta il problema.

  3. Francesco Bloise

    I punti critici secondo il mio modesto parere sono i seguenti:
    1.Non è assolutamente automatico che ad una diminuzione del costo del lavoro si associ un aumento delle retribuzioni. Si potrebbe verificare anche un aumento del margine del profitto (non rigido per definizione). In tal caso l’occupazione aumenterebbe in caso di una maggiore domanda e non per una maggiore offerta (a parità di retribuzioni).
    2. Le retribuzioni dipendono, tra le altre cose anche dalla produttività del lavoro. Le donne vengono considerate “meno produttive” perché nel corso della loro vita devono affrontare la maternità riducendo la produttività oraria ma quella totale a causa di minore tempo dedicato al lavoro. Detassare il lavoro femminile non risolverebbe questa problematica. Dovrebbe farsene carico il sistema di welfare state per tentare di alleviare il problema.
    3. I paesi del nord europa hanno i tassi di occupazione femminile più elevati al mondo grazie anche ai servizi di cura e a forti politiche attive del mercato del lavoro. Un sistema di questo tipo stimolerebbe di molto l’occupazione femminile in Italia.

  4. Stella

    L’osservazione di Matteo sugli incentivi per l’assunzione di donne nel Mezzogiorno è corretto, ed un metodo per valutarne l’impatto esiste anche se di massima: i dati annuali ISTAT. Leggendo i dati della disoccupazione femminile nel 2009,si vede che la Calabria è l’unica regione ad avere un dato addirittura negativo par ad – 1,8%, rispetto alle altre regioni dove la percentuale. Il decremento coincide con l’azione di incentivazione economica, su FSE, della Regione Calabria per l’assunzione di soggetti svantaggiati operata proprio quell’anno.

  5. Samanta Colli

    Vedo in questo articolo alcuni stereotipi che nella vita reale, almeno nel mio ristretto campo di osservazione (PA) sono ormai marginali. Quando si portano/prelevano i figli all’asilo/scuola non è la donna, ma chi è più comodo. Anche chi resta a casa se c’è qualcuno malato non sempre è la donna. Il telelavoro, lì dove esiste (e sarebbe interessante vedere qualche ricerca al riguardo, con sesso, fasce di età e figli), è di grande aiuto per tutti. Non è per nulla detto che gli asili debbano essere vicino a casa, in alcuni posti (sempre seguendo l’esempio scandinavo…) ci sono gli asili aziendali o “pluriazienda”. Certo se la dirigenza delle aziende (con percentuali maschili ben oltre l’80%) considera le donne come un peso, non c’è incentivo fiscale che tenga. C’è un’altra distorsione che non sono riuscita a capire: io dal quarto giorno di scuola in 1° elementare sono andata e tornata da scuola da sola ed a piedi. Oggi bisogna accompagnarli e prelevarli fino alla terza media. Con il delirio di automobili in seconda e terza fila che ne consegue. Ragioniamo anche su questo perditempo parassita che all’estero non ho visto?

  6. Paolo Brera

    L’idea proposta da Alesina e Ichino può essere estesa ad altre categorie. 1) Tassare di meno gli immigrati e di più gli indigeni, visto che i secondi non hanno voglia di andarsene dal loro Paese e lavoreranno lo stesso; 2) Tassare di più i cattolici osservanti e di meno gli atei, visto che i primi sanno di doversi guadagnare il pane con il sudore della fronte (è nella Bibbia) e quindi continueranno a lavorare; 3) Tassare di meno i ricchi e di più i poveri, visto che i secondi non hanno scelta mentre i primi si possono ritirare dl mercato del lavoro e vivere di rendita. Brava gente, dove va a finire l’eguaglianza dettata dalla Costituzione?

  7. Chiara Saraceno

    Una maggiore attenzione per i dati empirici non guasterebbe. Tutte le ricerche mostrano che l’occupazione femminile fa aumentare solo fino ad un certo punto il contributo maschile al lavoro familiare (J.L. Hook, Gender Inequality in the Welfare State: Sex Segregation in Housework, The American Journal of Sociology, 115, 5, 2010: 1480-1523). Anche la (mancata) disponibilità degli uomini a condividere il lavoro familiare è rigida. E’ vero, inoltre, che le donne sono mediamente più istruite degli uomini; ma quando sono poco istruite la loro capacità di stare sul mercato del lavoro si riduce. I dati delle Indagini sulle forze di lavoro e di EU-Silc mostrano che nella fascia di età 25- 49 le donne a bassa istruzione senza figli hanno tassi di occupazione più bassi di quelle con istruzione più elevata. Le differenze tra paesi nell’intensità del fenomeno sembrano dipendere dalla domanda di lavoro (ad es. M. Estevez-Abe, Gender bias in skills and social policies:The varieties of capitalism perspective on sex segregation. Social Politics 12,2, 2005: 180–215). In Italia, inoltre, come in Portogallo e Spagna, la differenza è maggiore tra le madri. La difficoltà a rimanere nel mercato del lavoro è quindi particolarmente concentrata tra le madri a bassa istruzione, specie se vivono nel Mezzogiorno. Non si vede come una riduzione della tassazione farebbe aumentare la domanda di lavoro nei loro confronti e risolverebbe i loro problemi di conciliazione in assenza di servizi accessibili.

  8. Francesco

    E’ notevole che gli autori, maschi, propongano di tassare di più gli uomini, perchè di questo si tratta: se le donne pagano meno vuol dire che gli uomini pagano di più, dipende solo da dove la si guarda. Io per conto mio non ritengo asssolutamente di dover pagare più tasse delle donne, e penso che si arriverà all’evasione fiscale per gender, come la dicono sofisticatamente gli autori. All’uomo converrà lavorare in nero

  9. Francesco

    In aggiunta alla mia nota precedente, vedremo sorgere una nuova conflittualità in sostituzione della lotta di classe: la lotta di sessi.

  10. Virginia Giglio

    La proposta di A&I forse potrebbe scardinare gli stereotipati squilibri nelle coppie double income with kids ma non si lega con il principio di cittadinanza (Colombino) e non affronta il nodo centrale della (dis)occupazione femminile italiana per cui le donne del Sud (pure quelle istruite) lavorano meno che al Nord o non lavorano affatto. Mi piace ricordare oggi che Marco Rossi-Doria proponeva tempo fa di sviluppare gli asili nido e il sostegno alla genitorialità durante la prima infanzia, specie nei confronti delle mamme sole, di sostenere le scuole dell’infanzia; creare zone di educazione prioritaria dove si concentra la dispersione scolastica; rilanciare la formazione professionale, la ripresa dell’apprendimento dei mestieri, le esperienze di formazione proiettate verso l’auto-impiego. Le donne italiane che devono lavorare sono quelle che vivono nelle aree geografiche dove è minore offerta di lavoro (legale e qualificato), la scuola è meno efficiente e i servizi all’infanzia sono internalizzati alle famiglie, talvolta non proprio esemplari. Per rompere questo circolo vizioso mi sembra che ci vogliano politiche più ampie della tassazione di genere.

  11. giulio

    Siccome madre Natura verso alcuni è madre generosa, mentre verso altri è matrigna, e siccome incontestabilmente chi ha un aspetto gradevole trova più facilmente lavoro (basti pensare ai lavori di rappresentanza, di vendita, di relazioni al pubblico, di comunicazione, nei quali è necessaria la “bella presenza”), anche le categorie svantaggiate dei brutti/e, bassi/e di statura, grassi/e, ecc., otterranno sgravi fiscali? E gli immigrati con la pelle dello sgradevole colore olivastro otterranno pure loro qualche agevolazione?

  12. af 54

    Una lieve riduzione della pressione fiscale sulle donne non credo sia in grado di modificare, dati gli effetti poco rilevanti sulle singole situazioni, le modalità comportamentali di gestione familiare. Non solo, l’esperienza pratica dice che non necessariamente una equa divisione dei compiti domestici consegua alla percezione di un reddito medio-alto delle donne. I cambiamenti culturali, in questo campo lentissimi, saranno di poco o per niente agevolati. La donna è in grado di stare sul mercato del lavoro nella misura in cui è in grado di pagare con parte del proprio reddito l’acquisizione dei servizi che, se rinunciasse al lavoro, renderebbe gratuitamente alla famiglia. E’ il solo caso in cui viene monetizzato il lavoro domestico femminile! E’ l’organizzazione sociale complessiva che concorre a estromettere o a non consentire l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. I servizi scolastici part-time, l’assenza di servizi di assistenza in generale strutturati in modo efficiente, che impongono una continua ricerca di concilazione di orari rendendo la donna meno produttiva sul lavoro, perché concentrata anche distanza sulle incombenze domestiche e di accudimento.

  13. Christian

    Cito: “…sarebbe più efficiente redistribuire in modo equilibrato i compiti tra donne e uomini sia nel mercato che in casa. La tassazione differenziata per genere contribuisce esattamente a questo effetto, accelerando un processo evolutivo che comunque è in corso, ma appare troppo lento. Contribuisce perché aumenta il potere contrattuale delle donne all’interno delle coppie.” In pratica si vorrebbe indurre un cambiamento culturale attraverso il fisco? E’ davvero così che si promuovono i cambiamente culturali?

  14. Stefano

    Oltre ad una minore tassazione per le donne, bisognerebbe aggiungere anche una tassa sul genere maschile, come è già stato proposto altrove in Europa, affinchè si possano offrire anche alle donne che per vari motivi non possono lavorare un risarcimento statale.

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