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CHI RISCHIA DI AFFONDARE NEL MARE IN TEMPESTA

Se si osserva la dinamica del tasso di cambio effettivo reale basato sui costi del lavoro per unità di prodotto, la dissoluzione dell’Eurozona appare inevitabile. Per Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, c’è stata una continua perdita di competitività dall’introduzione dell’euro. Ma a giudicare dall’andamento dei Cds, la rottura dell’unione monetaria non sarebbe un affare per nessuno. Gli investitori finirebbero per abbandonare anche la Germania. L’alternativa è una maggiore integrazione politica, con trasferimenti di risorse dalle zone floride verso quelle in difficoltà.

Il dibattito economico è da diversi mesi centrato sul futuro dell’Eurozona. La tenuta dell’area monetaria unica, e della relativa moneta di riferimento, è messa in discussione da molti analisti. I dubbi si sono particolarmente intensificati dopo lo stallo politico avutosi in Grecia, con la mancata formazione di un Governo che potesse garantire l’adempimento degli impegni presi con la cosiddetta “troika” (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Unione Europea).
Sui mercati sono cominciate quindi a circolare voci insistenti di possibili piani per l’uscita controllata della Grecia dall’euro e per il suo successivo ritorno alla dracma (si vedano Fausto Panunzi e Angelo Baglioni). Uno scenario di questo tipo senz’altro non lascerebbe imperturbati gli altri paesi dell’area che negli ultimi tempi sono stati oggetto di forti oscillazioni nei tassi d’interesse sui titoli governativi, come l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia.

LA COMPETITIVITÀ PERDUTA

Ma la dissoluzione dell’euro è veramente l’unica strada percorribile? Osservando la dinamica di uno dei principali indicatori di competitività internazionale elaborati dall’Ocse, il tasso di cambio effettivo reale basato sui costi del lavoro per unità di prodotto, verrebbe da dare una risposta affermativa. L’indicatore misura l’evoluzione del tasso di cambio di un paese rispetto al paniere dei tassi di cambio dei principali mercati di sbocco commerciale del paese stesso, aggiustato per tener conto della potenziale perdita di competitività derivante dall’evoluzione del costo del lavoroper unità di prodotto.

Grafico 1

Dal grafico 1 si riscontra che per i paesi dell’Europa del Sud, cioè Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, c’è stata una pressoché continua perdita di competitività dall’introduzione dell’euro. Particolarmente rilevante è la mancanza di competitività internazionale dell’Italia, dove il tasso di cambio effettivo reale si è apprezzato di ben 35 punti percentuali da quando è stato varato l’euro. Alla fine del 2011 il divario di competitività tra i paesi dell’Europa del Sud e la Germania ha assunto livelli abissali: 10 punti percentuali per il Portogallo, 20 per la Grecia (dato riferito al 2010), 30 e 50 rispettivamente per Spagna e Italia.
La presenza di un’unica valuta di riferimento per queste aree impone che la sola variabile che può fungere da riequilibrio siano i prezzi domestici, e in particolare i salari per unità di prodotto. Il fatto, però, che nei paesi del Sud del’Europa, con l’intensificarsi della crisi finanziaria a seguito del default della Lehman Brothers, vi sia stato un ulteriore peggioramento della competitività, come nel caso specifico dell’Italia, o quanto meno un miglioramento solo modesto, come osservato in Spagna, mostra come non vi siano sufficienti spinte di mercato verso il riequilibrio. Quest’ultimo, infatti, è frenato da vincoli normativi, da usi e consuetudini, anche politiche, che si sono sedimentati nel tempo e che ostacolano un funzionamento più fluido dei mercati.
Esempio lampante di come possa essere diversa la reazione a forti shock, qual è stato il default Lehman, si osserva invece in Irlanda. In questo paese, il tasso di cambio effettivo reale è diminuito drasticamente dalla metà del 2008 alla fine del 2011 di quasi 40 punti percentuali. Il notevole recupero di competitività ha permesso all’Irlanda di risollevare le prospettive economiche e di migliorare quindi le aspettative circa la sostenibilità dei propri conti pubblici. Una riprova è data dal fatto che il premio sui credit default swap (Cds), indicatore del grado di rischio percepito dai mercati sui titoli di Stato, sia andato migliorando notevolmente negli ultimi mesi. Dopo aver toccato un picco di quasi 1.000 punti base nel luglio del 2011, le quotazioni medie di aprile 2012 lo indicano a un livello pari a circa la metà. Spagna, Portogallo, Italia e Grecia, invece, mostrano tutte un peggioramento del Cds rispetto allo scorso luglio 2011.
In definitiva, i dati sull’andamento del tasso di cambio effettivo reale sembrano mostrare che il riequilibrio interno all’area euro, attraverso la flessione dei prezzi e dei salari domestici, è sulla carta possibile (l’Irlanda ne è una dimostrazione), ma tecnicamente molto difficile, posto anche i difficili equilibri politici che tutti i paesi dell’Europa del Sud stanno evidenziando.

Grafico 2

PIÙ INTEGRAZIONE

Non esistono quindi alternative, nel breve-medio termine, alla dissoluzione dell’euro per far riprendere competitività a paesi europei in grave crisi di crescita e di tenuta dei conti pubblici?
In realtà, l’alternativa è che l’area euro vada verso una maggiore integrazione politica che implichi trasferimenti di risorse dalle zone economicamente floride, quali la Germania, la Finlandia, l’Austria e l’Olanda, verso quelle in difficoltà. Ovviamente questa opzione si scontra con il no, ancora una volta politico, dei paesi dell’Europa del Nord che non vogliono accollarsi i costi delle inefficienze dei paesi del Sud. A ben guardare l’andamento dei Cds, però, questa scelta non appare molto lungimirante. Il premio sui Cds dei paesi dell’Europa del Nord è infatti in netta crescita: dalla prima metà del 2011 è pressoché triplicato, passando da circa 45 punti a più di 120 (grafico 2). Ancor più sorprendente è il fatto che la quotazione più recente del Cds tedesco, circa 80 punti ad aprile 2012, è ben superiore a quella che la Grecia mostrava nel settembre 2008, quando il default Lehman si era già verificato (per la precisione era di circa 50 punti). Per il momento la Germania sta comunque traendo dei vantaggi di breve termine derivanti dalla maggior attrattività dei suoi titoli di Stato rispetto a quelli degli altri paesi europei (cosiddetto fenomeno del flight to quality). Un’indicazione dell’esistenza del fenomeno è data dalla crescita dello spread verso i Bund registrato dai titoli di Finlandia e Olanda, gli altri due paesi dell’area euro con rating AAA, che negli ultimi 12 mesi è più che raddoppiato (da 25 a circa 55 punti base in media). Dopo aver penalizzato, nell’ordine, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia, fino ad arrivare a Finlandia e all’Olanda, passando per Francia, Belgio e Austria, è molto probabile che in caso di un’effettiva dissoluzione dell’euro gli investitori “volerebbero” via anche dalla Germania.
I politici europei dovrebbero quindi essere consapevoli di essere a bordo di un’unica nave che al momento sta imbarcando molta acqua. Il fatto che alcuni contino di avere a disposizione qualche scialuppa di salvataggio non dovrebbe far dormire loro sonni tranquilli: usare una scialuppa per affrontare il mare in tempesta non è sicuramente il mezzo più sicuro per la navigazione. Di tutto questo probabilmente “l’ufficiale in seconda” François Hollande è consapevole, il problema ora è convincere il “capitano” Angela Merkel a riparare le falle prima che sia troppo tardi.

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QUANTA INCERTEZZA SULL’EURO

  1. andreag

    Quando leggomi viene un dubbio che l’autore deve rimuovere:se l’unico parametro della sua valutazione è il cambio effettivo reale basato sui costi di lavoro per unità di prodotto,viene spontaneo pensare che a parità di moneta di cambio l’unico parametro che può muovere questo grafico sia il costo del lavoro oppure l’se mi passate il termine.Sono curioso di sapere come eventualmente cambierebbe l’analisi e la valutazione se inserissimo la pressione fiscale,l’andamento dei prezzi dei beni che dobbiamo per forza importare(in primis petrolio,gas),l’incidenza della spesa pubblica:insomma tutte le variabili che incentivano i dipendenti e le rappresentanze sindacali a mantenere alti i salari,quelle che mantengono bassi i consumi domestici e quelle che crescono a dismisura per manifesta inefficienza.

  2. Diego d'Andria

    In base a quale intuizione l’autore desume, partendo dai dati presentati che indicano un peggioramento in termini relativi della competitività dell’Italia rispetto ai partners europei lungo un periodo di diversi anni, che si dovrebbe giungere ad una “maggiore integrazione politica, con trasferimenti di risorse dalle zone floride verso quelle in difficoltà” ? In pratica, l’autore pare suggerire che la miglior trovata che l’UE può generare al fine di ricomporre il crescente divario nelle produttività tra nord e sud d’Europa, sia una sorta di grande Cassa del Mezzogiorno di dimensioni pan-europee. Abbiamo ben potuto riscontrare quali esiti disastrosi una tale policy abbia avuto nel nostro meridione, e quali incentivi perversi abbiano mantenuto in essere i trasferimenti perequativi tra regioni ricche e meno ricche… Per quale bontà divina la medesima soluzione dovrebbe, questa volta, condurre al risanamento e all’aumentato benessere del tessuto industriale dei paesi PIGS?

  3. Piero

    Ormai tutti gli economisti sono d’accordo sulla diagnosi della crisi, sulla sua origine, tutti sanno che con l’euro c’e stata una distribuzione di ricchezza dai paesi mediterranei ai paesi del nord, tutti sanno che non c’e piu’ tempo per prendere decisioni, tutti sanno che il problema e’ monetario, ma nessuno propone una soluzione nel breve periodo, si parla di golden rule, di fiscal combact, di spending rewiew, di Unione fiscale europea, di Unione bancaria europea ecc; penso che i mercati aspettino la fine del mese per vedere i frutti della riunione Holland Merkel, e poi prendono le decisioni, che possono consistere in un ritorno alla normalità se passa la linea Holland oppure un ultimo attacco se vince la Merkel, ormai quello che dice Monti ai mercati non fa piu’ effetto.

  4. Giuseppe

    Dalla lettura dell’interessante analisi emerge che sarebbe molto importante migliorare la competitività e abbassare i costi del lavoro per unità di prodotto in ognuno dei Paesi “deboli”. Impresa fondamentale ma non facile, perchè coinvolgerebbe tutto il sistema paese, dall’organizzazione del lavoro all’efficienza della pubblica amministrazione, passando per ristrutturazione di fiscalità e sistema giudiziario. Giusto considerare molto importante una maggiore integrazione politica, anche per evitare il “panico fin troppo razionale” che Martin Wolf ben descrive in un ottimo articolo sul FT riportato dal Sole24Ore. L’analisi sull’andamento dei CDS dovrebbe indurre profonde riflessioni.

  5. Antonio Aquino

    In un’area così vasta e differenziata come l’Unione monetaria europea non si può pensare di avere una moneta comune se non si controlla la dinamica del costo del lavoro in modo da mantenere in equilibrio competitivo i diversi paesi. Se non si può ripristinare questo equilibrio mediante una diminuzione del costo del lavoro in Italia, Spagna e Grecia, é necessario farlo mediante un aumento dei salari in Germania. Italia, Spagna e Grecia dovrebbero chiedere non eurobond o trasferimenti compensativi, ma un forte aumento dei salari in Germania. Il peccato originale dell’euro fu la convinzione che una politica monetaria comune avrebbe comportato dinamiche analoghe di costi e prezzi interni nei diversi paesi; é necessario prendere atto di questo errore, e prevedere vincoli in termini non soltanto di saldi di finanza pubblica, ma anche di dinamica dei salari, in rapporto alla dinamica della produttività. L’alternativa sarebbe una “italianizzazione dell’Europa”, vale a dire la riproduzione a livello europeo di un’economia fortemente dualistica, con una vasta area caratterizzata da elevata disoccupazione e forti disavanzi sia di finanza pubblica sia di scambi con l’estero.

  6. marco

    Se i paesi del Mediterraneo europeo riuscissero ad aumentare la competività e la produttività in pochi mesi con grandi riforme strutturali diventerebbero culturalmente del nord – si può cambiare la mentalità e le organizzazioni di interi popoli in così poco tempo? Le altre soluzioni proposte, ovvero la cinesissazione dei salari o il traferimento di fondi ai paesi del sud escono dal surreale per entrare nel solco del masochismo: ovvero per dimostrare di essere europei dobbiamo spontaneamente impoverirci e suicidarci per permettere ai ricchi tedeschi di potersi arricchire di più e di poterci offendere e pigliare per il culo- I cinesi tengono la moneta articifialmente bassa-Gli U.S.A appena possono stampano- noi coglioni non capiamo che abbiamo solo da guadagnarci dall’uscita dall’euro-abbasseremmo il debito pubblico immediatamente e andremmo a vendere valanghe di Maserati in Germania- se diventassimo autosufficienti dal punto di vista energetico con le rinnovabili e il risparmio e facessimo poi vere riforme strutturali potremmo crescere tantissimo!

  7. Riccardo Colombo

    Sono pienamente d’accordo con il commento di Aquino: bisognerebbe richiedere alla Germania non gli eurobond, non fattibili politicamente e forse poco utili, ma un aumento dei salari così da ridurne la competitività. Su questa richiesta si troverebbe, sicuramente, un appoggio da parte dei socialdemocratici e dei sindacati. Ciò che dovrebbe fare il nostro paese è aumentare gli investimenti, soprattutto quelli rivolti alla tecnologia e all’innovazione. Come fare ? E’ possibile una riedizione della vecchia legge Sabatini che forniva finanziamenti agevolati all’acquisto di macchine utensili ?

  8. Davide Muratori

    Per salvasi nella tempesta economica che stiamo vivendo forse potrebbe essere utile portare l’euro ad una parità con il dollaro. Che ne dite, fattibile?

  9. Enrico Amsterdam

    Nel mare in tempesta affondano le barche grandi, le piccole barche a vela seguono la legge del guscio di noce. Enrico Amsterdam

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