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Riequilibri necessari

Per arrivare a ripresa mondiale forte, equilibrata e prolungata servono due complesse azioni di riequilibrio economico. Una rivolta all’interno dei paesi, per sostituire la spesa pubblica con la domanda del settore privato. Ma serve anche un riequilibrio esterno, per affrontare gli squilibri globali tra paesi esportatori e importatori. E’ nell’interesse di tutti, economie avanzate e paesi emergenti. Entrambe le azioni però procedono con troppa lentezza.

La Consob batte un colpo

La Consob ha presentato nei giorni scorsi delle proposte di revisione della regolamentazione sulle Opa. Alcune sono opinabili, ma l’impianto complessivo fa pensare che Consob sia tornata a preoccuparsi della tutela degli azionisti di minoranza, dopo gli sbandamenti dell’ultimo periodo della presidenza Cardia. Importante però che sia nominato al più presto un nuovo presidente. Con le competenze necessarie per il ruolo che dovrà ricoprire. L’ennesimo politico spacciato come tecnico sarebbe un boccone indigeribile.

Un Nobel alla ricerca di lavoro

Il premio Nobel in economia del 2010 è stato assegnato a Peter Diamond, Dale Mortensen e Christopher Pissarides per il loro contributo nella comprensione del processo di ricerca tra domanda e offerta. Che nel mercato del lavoro permette di spiegare la curva di Beveridge come un fenomeno di equilibrio. E i loro studi hanno fatto capire che è meglio studiare il mercato del lavoro guardando ai suoi flussi, fino a comprendere gli effetti del precariato. Perché la loro teoria è densa di implicazioni pratiche e di suggestioni per la politica economica.

Il nuovo fisco regionale? Quello di prima

Nel decreto omnibus sul federalismo fiscale approvato dal governo è delineato anche il sistema di finanziamento delle Regioni a statuto ordinario. I tributi disponibili restano quelli di oggi: Irap, addizionale Irpef, compartecipazione Iva, con qualche margine di manovra in più, seppure sotto il vincolo di non aumentare la pressione fiscale generale. Sul sistema perequativo delle Regioni, lo schema di decreto aggiunge poco a quanto detto dalla legge delega. Scioglie alcuni ma non tutti i dubbi e suscita però anche nuovi interrogativi.

I dati economici nella crisi

L’informazione economica è vitale in una democrazia. Tanto più in tempi di una lunga strisciante campagna elettorale, quando l’informazione si trasforma spesso in propaganda e viene utilizzata per orientare l’opinione pubblica. Per questo ribadiamo il nostro impegno nell’aiutare i cittadini a interpretare i dati e la situazione economica. Ma anche noi risentiamo della crisi. E chiediamo perciò ai nostri lettori un contributo che ci permetta di svolgere meglio il nostro lavoro.

Un’onda anomale minaccia l’università

La Camera inizia l’esame del disegno di legge sull’università, norme di reclutamento comprese. Veniamo da un lungo blocco dei concorsi e da norme restrittive sull’adeguamento dell’organico. Ma un blocco di assunzioni e carriere seguito da una riforma radicale spesso comporta la successiva assunzione di una massa di ricercatori qualitativamente eterogenea. E lascia un segno indelebile sulla produttività scientifica media. In Italia è già accaduto dopo le riforme del 1980 e del 1998. Nel Ddl 1905 ci sono tutte le premesse per una futura nuova onda anomala di assunzioni.

La risposta ai commenti

Ringraziamo tutti i lettori per i loro commenti.
L’’idea che ha ci ha spinto a scrivere l’’articolo era quella di spostare il dibattito dal potere d’acquisto dei salari alla causa principale dei bassi salari e del loro potere d’acquisto: la produttività del lavoro. Lo spunto ci è stato fornito dallo studio pubblicato da Ires-Cgil lo scorso 27 settembre. Non era, e non è, nostra intenzione quella di attaccare la Cgil per partito preso (come ipotizzato da qualche lettore), ma piuttosto volevamo mostrare che, utilizzando i dati Istat cioè quegli stessi dati utilizzati dall’’Ires prima della loro correzione per i lavoratori irregolari, viene fuori un risultato diverso da quello dell’’Ires, cioè che il salario dei lavoratori italiani era aumentato (e non diminuito) in termini reali tra il 2000 e il 2009.
L’’Ires, nei suoi complessi calcoli, tiene in considerazione la componente irregolare di lavoro nel calcolare i salari. Noi non lo facciamo. In questo modo possiamo coerentemente parlare dei dati sulla produttività (che allo stesso modo escludono la componente irregolare) e soprattutto perché l’’Istat non fornisce più la serie aggiornata dei dati corretti per la componente irregolare. Nei suoi calcoli, inoltre, l’’Ires calcola il drenaggio fiscale (noi non lo abbiamo fatto). Può valer la pena di ricordare che il drenaggio fiscale non misura l’’aumento delle imposte in generale, ma solo quell’’aumento delle tasse che deriva dall’’inflazione in un sistema di tassazione progressiva. L’’inflazione infatti “gonfia” i nostri redditi in euro (non abbastanza secondo alcuni dei nostri lettori, ma lo fa), il che ci fa scattare automaticamente su uno scaglione di reddito più alto senza che siamo diventati davvero più ricchi. L’’aumento delle entrate fiscali derivante da queste effetto “palloncino” è il drenaggio fiscale.
La produttività del lavoro in aggregato si calcola, in modo inevitabilmente un po’’ impreciso, dividendo un indicatore di prodotto in termini monetari (come il valore aggiunto, cioè la somma dei redditi da lavoro e di quelli da capitale d’’impresa) per un indicatore di impiego del lavoro, che può essere il numero delle ore lavorate, il numero degli addetti o il numero delle ULA. L’’utilizzo delle ULA (Unità di Lavorativa equivalente a tempo pieno) permette di prendere in considerazione una misura di lavoro standard depurandola per le componenti di lavoro atipico standardizzando il numero di ore lavorate. Si tratta quindi di un “addetto medio” che prende in considerazione la creazione di posti di lavoro precari negli ultimi anni uniformando lavoratori a tempo indeterminato a tempo pieno, part-time e atipici.
Molti lettori hanno criticato l’’utilizzo dell’’indice dei prezzi al consumo Istat per calcolare il salario reale. Qualche anno fa uno di noi (FD, in un commento su questo sito intitolato “Io sto con le casalinghe”) dichiarava di condividere la percezione dei lavoratori dipendenti medi e delle loro famiglie che, in corrispondenza dell’’avvento dell’’euro, si erano sentiti più poveri. Ora siamo un po’’ più cauti. E’ probabile e legittimo che molte delle famiglie – quando vanno al ristorante e a fare la spesa al supermercato – abbiano in questi anni percepito un aumento dei prezzi maggiore di quello rilevato dall’’Istat. Ma è anche vero che i consumi su cui viene fatto questo ragionamento riguardano gli acquisti che l’’Istat chiama “ad alta frequenza”. Ci sono però anche tanti beni che compriamo meno spesso (ad esempio, i prodotti dell’’elettronica di consumo) i cui prezzi sono diminuiti notevolmente in questi anni e che l’’Istat contabilizza correttamente nell’’indice dei prezzi del consumo. Quando pensiamo all’’inflazione dovremmo guardare all’’intero paniere di beni, non solo a quelli che siamo più abituati a comprare. Il paniere Istat coglie questo fenomeno: rileva il prezzo di molte migliaia di beni, rivede frequentemente la composizione del paniere – anzi dei vari panieri – che usa per misurare le variazioni del costo della vita. E’ vero: fa fatica, come tutti gli uffici statistici di tutto il mondo, a stare dietro ai mutamenti di qualità dei beni e all’’introduzione di nuovi beni e servizi; in più misura il costo delle abitazioni in termini di affitti e non di prezzi delle case. Ma tutto considerato il suo indice è una buona rappresentazione della spesa media degli Italiani.
Condividiamo le preoccupazioni di chi, replicando i nostri calcoli, vede la propria pensione in termini reali pressoché costante e di chi denuncia l’’importanza del fiscal drag e l’’incidenza delle imposte locali. Nel nostro articolo non ci siamo dedicati a questi argomenti nello specifico, ma spesso su queste pagine si discute dei modi per ovviare a queste storture.

Se il costo standard diventa inutile

Il governo ha approvato la bozza di decreto sui costi standard in sanità. Saranno applicati solo dal 2013 e potrebbero aprire la strada a tagli al budget del Sistema sanitario nazionale. Ma la vera sorpresa è che i costi standard diventano irrilevanti per la ripartizione dei fondi e per stimolare l’efficienza delle Regioni, tanto che lo stesso risultato si può ottenere applicando qualsiasi costo standard, basso o alto.

Ma l’aria è avvelenata

Cosa succede nelle nostre città, stiamo soffocando per lo smog o siamo vittima di eccessivi allarmismi? E’ la domanda alla quale cercano di rispondere Andrea Boitani e Francesco Ramella con il loro documentato intervento su lavoce.info, nel quale sviluppano anche la proposta di introdurre sistemi di pagamento per la circolazione nelle aree urbane. In effetti è indiscutibile che il trend di alcuni inquinanti in Europa sia in diminuzione, anche se, come gli stessi autori precisano, questo non vale per tutti: le concentrazioni di ozono, sono, ad esempio, in costante crescita nel nostro Paese, dove raggiungono i livelli più alti di tutto il Continente. Complessivamente comunque l’’aria delle nostre città è migliorata perché si usa meno carbone, è stato tolto il piombo dalle benzine e anche il benzene è stato ridotto. L’’inquinamento urbano di oggi è inferiore a quello di trent’’anni fa ma ha anche cambiato composizione e l’’effetto nocivo dei nuovi inquinanti non è meno temibile (Composti Organici Volatili, Composti Organici Volatili Biologici, metalli, nano particelle, etc.).

TABAGISMO…

Il problema, a mio parere, va però visto anche sotto un’’angolazione diversa e per spiegarmi utilizzerò l’’esempio del fumo di sigaretta. In Italia negli ultimi anni, grazie alle campagne d’’informazione sanitaria e alla legge Sirchia, il consumo di sigarette è andato diminuendo sensibilmente, ma possiamo accontentarci? Soprattutto possiamo confrontare i dati attuali con quelli di cinquanta anni fa quando gran parte delle tossicità del tabagismo erano ancora sconosciute? I nostri genitori, quando fumavano, non sapevano tutto quello che oggi noi conosciamo sul potere nocivo del tabagismo. Lo stesso discorso vale per l’’inquinamento: gran parte degli studi effettuati sui danni causati al nostro organismo da PM 10, PM 2,5, NO2, SO2 e dagli altri inquinanti sono stati svolti negli ultimi 10 anni e hanno portato ad alcune scoperte fondamentali. E’ nota per esempio l’’azione pro-trombotica dei particolati, con l’’aumento di rischio di malattie cardiovascolari, come l’’infarto, l’ictus, le trombosi; ci sono poi rischi gestazionali, rischi per la popolazione pediatrica e per i più anziani, problematiche respiratorie.
…E INQUINAMENTO

L’’esempio del tabagismo che ho utilizzato è però un’’analogia imperfetta: chiunque di noi, informato delle possibili conseguenze, può scegliere se fumare o meno, cosa che ovviamente non può avvenire con l’’aria che respiriamo.
L’’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che 800.000 persone all’’anno in tutto il mondo muoiano prematuramente a causa dell’’inquinamento (tredicesima causa di mortalità) e che lo smog sia oggi responsabile del 3 per cento di tutti i decessi per malattie cardio-vascolari e del 5 per cento di tutti i tumori polmonari. Oltre 350.000 morti premature dovute al PM 10 si registrano ogni anno nella sola UE. Secondo lo studio APHEIS, pubblicato nel 2006 sull’’European Journal of Epidemiology, che ha interessato 23 importanti città europee (per l’Italia, Roma), su una popolazione totale di oltre 32 milioni di persone, la riduzione delle concentrazioni di PM 2,5 a livelli massimi di 15µg/m3 comporterebbe un risparmio ogni anno di 16.926 morti premature (delle quali 11.612 per cause cardio-polmonari e 1901 per tumori polmonari). Questi dati non possono essere sottovalutati, la consapevolezza dell’’importanza dell’’ambiente e della sua tutela, della pericolosità dello smog è fondamentale. Una vastissima letteratura scientifica ha ormai chiaramente documentato che non esiste un vero valore soglia di tossicità: qualsiasi livello degli inquinanti causa danni, il loro effetto è presente anche a bassi livelli e aumenta in modo direttamente proporzionale all’’aumentare delle concentrazioni degli inquinanti. Le norme inoltre sono spesso il frutto di mediazioni: non deve quindi stupire che i valori soglia adottati dalla UE per alcuni inquinanti, come i particolati, siano sensibilmente superiori a quelli suggeriti dall’’Organizzazione Mondiale della Sanità.
L’’inquinamento è un’’emergenza nazionale, lo confermano gli ultimi dati dell’’Agenzia Europea per l’’Ambiente con 17 città italiane nella classifica delle trenta città Europee più inquinate, e tre fra le prime quattro (Torino, Brescia e Milano), dopo la bulgara Plovdiv. I rimedi possono essere tanti, la “congestion charge”, almeno per una città come Milano, è certamente una proposta da discutere e valutare attentamente. E’ chiaro però che, oltre a misure locali e a politiche adeguate, sono indispensabili strategie ambientali che intervengano su macro-regioni per modificare l’’inaccettabile inquinamento delle città del nostro Paese.

La risposta ai commenti

Scrive il dott. Harari nella sua replica al nostro articolo che il livello dell’’inquinamento delle città del nostro Paese è inaccettabile e che per ridurlo sono indispensabili “strategie ambientali” su macro-regioni. Non si precisa quali dovrebbero essere tali strategie.
La nostra modesta cultura sanitaria non ci permette di esprimere una valutazione informata dell’’impatto sulla salute dell’’inquinamento atmosferico.  Ci pare però utile presentare ai lettori qualche altro parere, perché possano formarsi un’’opinione e, se ne hanno voglia, decidere di approfondire la questione. Ecco dunque quanto scriveva qualche anno fa l’’Accademia Francese delle Scienze (1): “Vi sono numerose incertezze in merito alla rilevanza degli effetti a corto e a lungo termine. Tali incertezze sono legate alla piccolezza del rischio (corsivo nostro). È relativamente facile misurare un rischio relativo superiore a 5, come accadeva trent’anni fa. Negli anni Ottanta dello scorso secolo ci si è occupati di rischi dell’’ordine di grandezza da 1,5 a 2 e già questo risultava molto più difficile poiché i fattori di confusione introducono rilevanti elementi di imprecisione. Ma, oggi, i rischi relativi sono compresi fra 1,02 e 1,05; ci si viene quindi a trovare in una situazione assai complessa in quanto i risultati sono largamente influenzati dal tipo di metodologia utilizzata: la correzione dei fattori di confusione, i modelli matematici che sono indispensabili per l’’analisi determinano infatti livelli di incertezza assai rilevanti… Se si paragonano le diverse Regioni della Francia si può riscontrare una forte correlazione fra la mortalità prematura e il consumo di alcol e di tabacco mentre non è possibile rilevare alcun impatto delle diverse forme di inquinamento sulla speranza di vita o sulla frequenza dei casi di cancro sia a scala nazionale che regionale. In particolare, in Francia, non si registra alcuna correlazione fra l’’evoluzione della speranza di vita e l’’inquinamento atmosferico; la speranza di vita più elevata dell’’intero Paese è quella che si registra nell’’Île de France ossia nella regione più densamente popolata e che fa registrare i livelli di traffico più elevati. Si può inoltre rilevare come le due regioni nelle quali la speranza di vita si è maggiormente accresciuta nel corso degli ultimi decenni sono la regione di Parigi e la Provenza Costa Azzurra. Tali elementi non consentono di escludere che esista un qualche impatto dell’’inquinamento sulla salute ma suggeriscono che non si tratta di fattori che hanno un peso maggioritario”. Analoghe considerazioni, aggiungiamo noi, possono essere presumibilmente svolte con riferimento all’’Italia.
Un impatto, dunque, da non sottovalutare ma neppure da sovrastimare. Come ha fatto notare nel suo commento il dott. Galavotti (AUSL Modena) il rischio della sovrastima è che: “una spasmodica attenzione verso l’inquinamento collettivo riduca l’attenzione dei cittadini sul più grave e rimediabile dei fattori di rischio sanitario: il comportamento individuale”. Al riguardo si segnalano anche le parole di Umberto Veronesi (2): “un atteggiamento, inaccettabile, è quello di cambiare la realtà dei fatti. Un luogo comune, molto diffuso, è quello di affermare che l’inquinamento atmosferico, specie in città, è tale che una sigaretta in più o in meno non fa alcuna differenza. È un’affermazione sbagliata e priva di senso: l’inquinamento cittadino provoca bronchiti, allergie, ma la possibilità che provochi tumore al polmone è minima rispetto a quella del fumo di sigaretta. Pochi lo sanno, ma nell’arco alpino, ad esempio in Friuli, dove si fuma molto, l’incidenza del cancro al polmone è superiore a quella che si registra in città come Milano o Genova. Impegnarsi per un ambiente più pulito è giusto, ma questo non deve distoglierci dalla lotta contro i tumori”. Infatti, secondo il parere del dott. Aldo De Togni (AUSL Ferrara): “una persona che respira per un anno lo smog di una città molto inquinata come Los Angeles inala la stessa quantità di inquinanti combusti che un fumatore introduce col fumo di 40 sigarette”. L’’inquinamento atmosferico, nel peggiore dei casi, sarebbe dunque paragonabile al fumo di una sigaretta ogni nove giorni.
Impatto sulla salute a parte, vale la pena di precisare che il nostro intervento mirava a smentire con i numeri la tesi secondo cui l’’inquinamento nelle città italiane starebbe continuamente peggiorando. Non abbiamo detto – né avremmo avuto gli strumenti per farlo – che il livello attuale del particolato o di altri inquinanti nelle città italiane è alto, basso o accettabile e neppure abbiamo nascosto che le città italiane si trovano in coda alla lista nella graduatoria delle città europee per rispetto dei limiti comunitari in materia di emissioni di particolato. Volevamo e vogliamo richiamare la differenza tra livelli e dinamica, nonché tra livelli assoluti e relativi. Ignorando queste differenze, a nostro avviso, si fa solo confusione. E dalla confusione non nascono buone politiche. In ogni caso, eventuali ulteriori politiche di riduzione dell’’inquinamento atmosferico dovrebbero essere valutate alla luce di un’’attenta analisi dei costi e dei benefici.
Come evidenziato nell’’articolo, le politiche di riequilibrio modale indotto dal potenziamento dell’’offerta di trasporti collettivi (a spese dei comuni) non sembrano superare questo test: avrebbero elevati costi per i contribuenti e benefici molto modesti, se paragonati a quelli conseguiti grazie alla innovazione tecnologica. L’’offerta non crea la sua domanda! L’’introduzione di un pedaggio, abbinata al potenziamento della rete stradale (specie sotterranea) – il cui obiettivo prioritario sarebbe la riduzione dei costi di congestione che risultano essere assai più elevati di quelli correlati all’’inquinamento –avrebbe come beneficio ancillare la riduzione delle emissioni nelle città, perché contribuirebbe alla riduzione della circolazione di autoveicoli. Il potenziamento del trasporto collettivo, in questo caso, verrebbe trainato dalla maggior domanda (di coloro che usano meno l’’auto privata) e dalla maggior velocità di circolazione nelle aree sottoposte a pedaggio. I costi sarebbero molto più bassi. Infatti, per potenziare il servizio a congestione invariata (come nello scenario “riequilibrio modale”) sarebbero necessari più autisti, più mezzi, più spese di manutenzione e più carburante; nello scenario “pedaggio”, viceversa, sarebbe in buona misura possibile potenziare il servizio spendendo in più solo per il carburante e per le manutenzioni, a parità di ore lavorate, di autisti impiegati e di parco autobus. Considerando quanto incide il costo del lavoro sui costi totali di gestione e quanto pesano i mezzi sulla spesa per investimenti…

(1) Académie des Sciences – Cadas, (1999), Pollution atmosphérique due aux transports et santé publique, Rapport commun n. 12, Paris, p. 177
(2) L’’Unità, 13 aprile 2002

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