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La risposta ai commenti

Nel ringraziare i lettori che hanno commentato il mio articolo, vorrei fornire qualche doveroso chiarimento.

Innanzi tutto per completezza di informazione (in un breve articolo non si può dire tutto e quello pubblicato l’’ho dovuto accorciare di più della metà per farlo entrare nelle dimensioni standard de La Voce) gli otto ranking da me presi in considerazione e sintetizzati nella figura 1, sono: (1) Higher Education Evaluation & Accreditation Council of Taiwan; (2) Academic Ranking of World Universities, Shanghai Jiao Tong University (Cina); (3) Times Higher Education World University Ranking; (4) Webometrics Ranking of World Universities, Cybernetics Lab del Consejo Superior de Investigaciones Científicas (CSIC), Spagna; (5) Quacquarelli Symonds World University Rankings; (6) International Professional Classification of Higher Education Institutions – École des Mines, ParisTech; (7) Centre for Science and Technology Studies, Leiden University; (8) Global Universities Rankings della Rating of Educational Resources, Russia. Non ho invece tenuto conto dello Scimago Institutions Ranking, Granada University (Spain), perché in esso è fatto solo sul numero delle pubblicazioni, senza pesare i vari criteri e quindi senza pervenire ad un indice unitario, con inevitabili distorsioni (gli enti più grossi, come i vari enti di ricerca nazionali con staff di migliaia di persone, sono chiaramente avvantaggiati).
Il ranking citato da più lettori (in cui non vi sono università italiane tra le prime 200, che è verosimilmente anche quello presentato dal Corriere della Sera) e che ha fatto recentemente scalpore nei mass media è quello del Times Higher Education che, –come chiarifico in un altro mio articolo, – ha la caratteristica di non essere basato solo sulla qualità della produzione scientifica calcolata in base a criteri bibliometrici (impat factor ecc.), ma su tanti altri parametri. La qualità della produzione scientifica incide solo per il 35%. Invece quello da me citato (HEEACT) fa una classificazione interamente basata sui criteri bibliometrici (come anche qualche altro tra gli otto citati). Per cui non è corretto sospettare che qualcuno mente e qualche altro dice il vero: semplicemente i parametri presi in considerazione dai diversi ranking sono diversi. Se, ad es, si prende in considerazione anche il rapporto tra le università e le industrie come criterio di valutazione (come fa il Times Higher Education), allora è evidente che le università italiane risultano svantaggiate rispetto a quelle degli USA. Purtroppo, spesso, di queste differenze non si tiene conto nei discorsi che si fanno.
Nonostante le diversità tra i vari ranking, tuttavia, ho voluto mettere in evidenza come vi sia una convergenza degli otto esaminati nell’’indicare un certo numero di università italiane come quelle che sono piazzate tra le prime 500; alcune per un motivo, altre per un altro, ma in ogni caso presenti. Che qualche lettore veda certe anomalie rispetto alle convinzioni possedute o alla reputazione generale, dipende dal fatto che sono avvantaggiate le università che presentano il range maggiore di discipline, mentre sono sfavorite quelle specializzate (come i politecnici e la Bocconi). E questo è un importante fattore che deve essere preso in considerazione, insieme ad altri, invece di prendere le classifiche così come vengono proposte senza interro­garsi su come sono fatte. Ecco perché che il confronto tra gli otto ranking abbia almeno in parte ovviato alla parzialità che può provenire dal prenderne solo uno di essi e leggerlo come il Vangelo. Purtroppo per un lettore, non ci sono ranking sloveni; ma qualora ci fossero, basterebbe andare a vedere la metodologia che ne sta alla base e qualora essa fosse corretta non vedrei nulla di male a prenderlo in considerazione. Nel mio articolo non si vuole difendere l’’indifendibile, ma semplicemente far vedere come la situazione offerta da una valutazione comparativa dei diversi ranking (se li dobbiamo prendere sul serio) non è così semplice come ci si vorrebbe far sembrare dal prenderne in considerazione solo uno, a seconda della tesi che si vuole dimostrare.
In merito alla mia proposta sulla mobilità dei ricercatori (sganciando il loro budget dai singoli atenei), non so quante università al mondo la pratichino, ma di certo in Italia ci si lamenta della loro scarsa mobilità: ci si laurea in una università, vi si fa il dottorato e vi si diventa docenti, sino al pensionamento. E allora a mali estremi, un rimedio radicale. È ovvio che esso deve essere accompagnato da altre misure, altrimenti si potrebbero verificare le patologie lamentate da un lettore: innanzi tutto l’’università dove ci si vuole trasferire deve essere disposta ad accogliere il nuovo ricercatore, il suo corpo docente deve essere commisurato in qualche modo agli studenti e così via. Infine deve esserci una valutazione della produzione scientifica dei dipartimenti, per evitare di accogliere i ricercatori che si trasferiscono solo per motivi di comodo. Insomma la mia è una proposta che deve essere ulteriormente articolata e contestualizzata; ma mi sembra che sia comunque un forte elemento di rimescolamento e di dinamismo nella sclerotizzata realtà italiana. E poi, non si vuole arrivare alla formazione di un certo numero di università di eccellenza, con una sufficiente massa critica di ricercatori? Si cominci allora da questa innovazione.

Il mercato non prende il treno

La prima azienda privata di trasporto locale di passeggeri debutta sulla linea ferroviaria Milano-Torino. Peccato che l’Ufficio per la regolazione dei servizi ferroviari le abbia vietato le fermate nelle stazioni intermedie. Ma l’ingresso di nuovi protagonisti conferma che le tratte più frequentate possono essere gestite senza alcun sussidio. Anche la Regione Piemonte dovrebbe lasciar fare al mercato, integrando a valle l’offerta con servizi ritenuti socialmente desiderabili. Su molti collegamenti poi sarebbe opportuno valutare l’alternativa del servizio su gomma.

 

Se il diritto allo studio non è uguale per tutti

Pochissime risorse per il diritto allo studio. A cui si aggiunge una elevata disparità di trattamento sul territorio nazionale. Nel 2009-10 solo in dieci Regioni la borsa è stata assegnata a tutti gli idonei, mentre in media uno studente su sei aventi diritto non l’ha ottenuta. Anche l’entità dell’assegno varia di Regione in Regione. Così come le detrazioni per i servizi garantiti. Una riforma è dunque necessaria. Dovrebbe ripartire dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nell’ambito del diritto allo studio e indicare chi li deve finanziare e come.

 

Le buone università ci sono, costruiamo l’eccellenza

Su università italiane e università americane ci sono alcuni luoghi comuni da sfatare. Non è vero che la situazione delle nostre sia così nera come si vuole a volte dipingerla. Né è vero che quelle di oltre oceano siano tutte eccellenti. La posizione dell’Italia nei ranking internazionali è del tutto adeguata al suo ruolo di settima potenza industriale del mondo. Se poi vogliamo creare anche da noi sedi di eccellenza, basta permettere la libera circolazione dei ricercatori. E aggiungere un rifinanziamento virtuoso degli atenei per i cosiddetti costi indiretti.

 

Non sparate sui debitori

Punire i debitori, lasciandoli fallire, per ridurre le aspettative di salvataggi futuri può rivelarsi un’illusione. Anzi rischia di sortire l’effetto opposto. Chi credeva che condannando i banchieri di Lehman Brothers si sarebbe imposta maggiore disciplina sugli altri è rimasto deluso, perché la promessa implicita di salvataggio è aumentata. Al contrario, il salvataggio della Bear Stearns non ha portato a un aumento delle aspettative di bail-out. Bisogna tenere conto di questo quando si discute di Irlanda e altri paesi ad alto debito.

 

Irlanda: il contagio col contagocce

Si sono improvvisamente riacutizzati i timori sulla solvibilità di Irlanda e Portogallo. La maggiore preoccupazione di noi italiani riguarda il rischio di contagio. Ma il mercato dei Cds assegna oggi al fallimento dell’Italia nei prossimi cinque una probabilità notevolmente più bassa rispetto a quella di Irlanda e Portogallo. E l’impennata della percezione del rischio registrata a novembre non sembra avere significativamente contagiato il nostro paese. La cattiva notizia è che, negli ultimi giorni, la curva della probabilità di default dà segni di voler rialzare la testa.

 

Non tutti i debiti sono uguali

Il debito è davvero così centrale nella crisi e nella sua soluzione come si sostiene nei vertici internazionali e nelle discussioni da bar? Il livello del debito è importante perché è importante la distribuzione di quel debito. Insomma, non tutti i debiti sono creati uguali. E la spesa pubblica finanziata in deficit può permettere all’economia di evitare disoccupazione e deflazione, mentre gli agenti fortemente indebitati del settore privato risanano i loro bilanci. Lo Stato potrà rimborsare i suoi debiti una volta che la crisi di deleveraging sia passata.

 

Il maxiemendamento elettorale

Nel maxiemendamento alla Legge di stabilità la spesa aumenta mentre i finanziamenti sono rappresentati per lo più da entrate una tantum o aleatorie come i proventi dell’asta per il digitale, nettamente sovrastimati, e quelli dalla lotta all’evasione. Si potenzia ulteriormente il tesoretto (ormai di quasi tre miliardi di euro) gestito direttamente da Palazzo Chigi. Ci sono inoltre diverse poste che trasferiscono oneri sugli esercizi futuri. Insomma, è un maxiemendamento pre-elettorale. Che, senza sviluppo, toglie ulteriormente al rigore facendo aumentare l’indebitamento netto strutturale.

 

Ma quanto incasseremo dal digitale terrestre?

Il maxi emendamento alla Finanziaria si basa in parte su 2,4 miliardi di euro di entrate legate alla vendita di frequenze elettromagnetiche in seguito al passaggio dal sistema televisivo analogico al digitale terrestre. Le frequenze saranno destinate a servizi di telefonia mobile in banda larga. Bene che il ministero dell’Economia abbia avviato questo processo che porterà sicuri benefici. Il problema è che la stima economica delle entrate è calcolata per eccesso. Vediamo perché.

 

Riforme in progress per le pensioni del Regno Unito

Il sistema pensionistico nel Regno Unito è complesso e dal 1998 ha subito varie riforme. Da una parte, si è ampliata la platea dei beneficiari della pensione pubblica, le cui indennità forfetarie sono diventate più generose. Dall’altra, si è alzata l’età di pensionamento, incoraggiato i piani aziendali e ridotto le pensioni indicizzate al salario. L’obiettivo è fare in modo che il reddito da pensione sia adeguato. Diminuirà così il numero di pensionati che necessitano dei sussidi condizionati alla prova dei mezzi. Ma nuovi interventi sono dietro l’angolo.

 

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