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Il federalismo? Meglio a velocità variabile

Da una parte il rischio che il prossimo Parlamento si trasformi in un’arena di rivendicazioni territoriali contrapposte. Dall’altra, nonostante la retorica federalista, un’azione di governo che deprime l’autonomia degli enti locali. Una buona idea è allora il federalismo a velocità variabile. Diamo maggiore autonomia, anche sul piano delle entrate, ai governi locali meritevoli di fiducia sulla base di parametri costruiti sui comportamenti passati. È un modo per incentivare tutti a migliorare, che in più permette di superare la frustrazione dei territori più efficienti.

 

Perché non serve il vincolo sul debito

L’accordo tra i ministri dell’Economia e delle Finanze dei paesi dell’area euro sulla riforma del Patto di stabilità e crescita ribadisce che sarà rafforzato non solo il vincolo sul deficit ma anche quello sul debito. Che però sono legati fra loro. E dunque una adeguata diminuzione del primo è condizione sufficiente per ridurre il secondo. Mentre un irrigidimento del vincolo sul debito potrebbe avere diversi effetti negativi e non serve neanche a rassicurare i mercati.

 

Grandi opere, un pezzo per volta

Ventisette opere prioritarie nell’ultimo Allegato infrastrutture alla Finanziaria 2011. Ovviamente, mancano le risorse per realizzarle. Dunque si procederà per lotti costruttivi. Meglio sarebbe progettare ogni grande opera per fasi successive, correlate al crescere reale della domanda e alla disponibilità finanziaria garantita per ogni lotto di cui si avviano i cantieri. Altrimenti avremo continui “stop and go” determinati dalle risorse disponibili ogni anno, con opere mai utilizzabili fino all’inaugurazione finale, quando forse saranno tecnologicamente obsolete.

 

La risposta ai commenti

Nei commenti dei lettori sono state poste due questioni inerenti il diritto allo studio universitario: l’’età per accedere alla borsa di studio, l’’importo di borsa relazionato al costo della vita.
In Italia non esiste un limite di età per beneficiare della borsa di studio ma i criteri che determinano l’’idoneità sono esclusivamente due: quello economico, avere un valore ISEE inferiore ad una certa soglia, e quello di merito, acquisire un determinato numero di crediti in relazione all’’anno di iscrizione. Ne consegue che quando si parla di borsisti non necessariamente si parla di “sbarbatelli”. In Piemonte, ad esempio, il 2% dei borsisti ha oltre 35 anni; il borsista più anziano ha 71 anni.
Differentemente, in Francia e Germania hanno diritto al sostegno economico gli studenti che non abbiano compiuto, rispettivamente, 28 anni e 30 anni, sebbene in Germania sia in discussione l’’innalzamento del limite di età a 35 anni.
Anche questo dovrebbe essere un argomento da prendere in esame in sede di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
In merito al commento che giustificherebbe le differenziazioni regionali in ragione sia della competenza regionale in materia di diritto allo studio sia dei differenti costi di vita, il discorso è più articolato e difficile da sintetizzare in poche righe. In primo luogo, il “riformato” Titolo V della Costituzione stabilisce che l’’autonomia legislativa delle Regioni è limitata dalla competenza esclusiva del legislatore statale, cui spetta definire i livelli essenziali delle prestazioni per garantire nel paese l’’uniformità delle condizioni di vita. In attesa che avvenga tale definizione vige la normativa attuale, che da talune Regioni non viene rispettata quando fissano degli importi di borsa inferiori al livello minimo previsto, e che presenta il limite di non specificare quali costi la borsa intenda coprire.
Ne consegue che gli importi differiscono da regione a regione senza che vi sia un fondamento oggettivo a tali differenze. Un esempio su tutti: l’’importo massimo di borsa dello studente in sede è pari a 2.430 euro in Puglia, a 2.510 euro in Lombardia, a 2.083 euro in Piemonte ed a 1.000 euro in Toscana: è evidente che questi non riflettono i diversi costi di mantenimento. L’’importo massimo è poi ridotto in base a differenti criteri, così come è diverso l’’importo detratto dalla borsa dello studente fuori sede beneficiario di posto letto, da 1.500 euro a 2.200 euro, e quello detratto per il servizio ristorativo. La difformità non poggia su motivi fondati.
Sarebbe necessario che lo Stato nel riformare la materia del diritto allo studio esplicitasse quali costi di mantenimento la borsa di studio debba sostenere, e conseguentemente il metodo di calcolo dell’’importo di borsa che dovrebbe essere lo stesso per tutti gli studenti, come accade nella federale Germania. Regole certe, chiare e uguali per tutti su tutto il territorio nazionale probabilmente favorirebbero anche la diffusione di informazione sulla possibilità di sostegno: le analisi condotte in Piemonte dimostrano che vi è circa un 40% di studenti iscritti al primo anno che non presenta domanda di borsa pur avendone diritto.

L’università dell’incertezza

La riforma dell’università , contestata da studenti, ricercatori e opposizioni, sembra ormai l’ultima bandiera di un governo in difficoltà. Ma richiede decine di decreti attuativi e tempi lunghi per la sua applicazione. E dunque, se approvata, finirà per aggiungere un’ulteriore dose di incertezza nel mondo universitario. Intanto, sui finanziamenti per l’anno in corso e per il futuro regna la confusione, i concorsi sono bloccati e la valutazione della ricerca è ferma al 2001-2003.

 

Nebbia in comune sull’autonomia tributaria

Lo schema di decreto legislativo sul federalismo fiscale municipale andrà a regime solo nel 2014. Nella fase transitoria (2011-2013) la devoluzione dei tributi erariali immobiliari viene controbilanciata dalla eliminazione di gran parte dei trasferimenti statali ai Comuni in una misura che però non è stata ancora concordata. Sarebbe bene avere presto un quadro più preciso dei numeri in gioco e delle regole da seguire per garantire più certezze per le politiche di bilancio dei Comuni.

 

Mi manda papà

La mobilità sociale in Italia è tra le più basse in Europa. I risultati dei figli per reddito, livello di istruzione o tipo di lavoro riflettono spesso quelli ottenuti dai padri. Certo, le scelte individuali dipendono delle risorse economiche della famiglia o dal tipo di sistema sociale. Ma influiscono in maniera cruciale anche le preferenze. Per esempio, avere genitori occupati nel settore pubblico o genitori imprenditori ha effetti diversi sull’avversione al rischio. Il ruolo delle preferenze nelle politiche per favorire l’integrazione fra gruppi sociali.

 

La mobilità accademica nella proposta di riforma

In un articolo apparso su lavoce.info Giovanni Abramo sogna di creare nuove università riservate a bravi scienziati. Certamente il nostro paese ha forte bisogno di tali istituzioni, ma allo stato attuale delle cose non è pensabile che si riescano a trovare risorse ex-novo per un simile progetto. Inoltre, non è detto che trovare risorse sia sufficiente a garantire il risultato auspicato, come insegna la storia recente di alcune istituzioni di ricerca nate per essere trasparenti ed eccellenti, ma che veleggiano in direzione completamente diversa.
Molto probabilmente un sistema di migrazione spontaneo del corpo docente potrebbe essere il sistema più efficiente per la formazione di poli di eccellenza, ma in Italia la mobilità accademica è rara. Giusto per avere un’idea, esaminando i 15.232 concorsi universitari, svolti tra marzo 1999 e luglio 2002, si scopre che di tutti i docenti immessi in ruolo solo 202 non provenivano dalla stessa università.
Il fatto che un sistema universitario aperto e capace di mescolarsi sia un vantaggio è cosa acclarata e lo stesso Miur ha già dichiarato di credere in questo valore in quanto nella valutazione dei risultati dell’attuazione dei programmi delle Università (D.M. 18 ottobre 2007, n. 506) l’indicatore E2 premia la proporzione dei punti organico utilizzati per assunzioni di professori ordinari e associati precedentemente non appartenenti all’Ateneo. Purtroppo questo e la legge Zecchino per la mobilità non sembrano, dati alla mano, bastare, e bisogna fare qualcosa di nuovo.

LA PROPOSTA

L’azione che auspichiamo è semplicissima: i singoli docenti universitari devono essere i comodatari del proprio budget. Quindi i concorsi a trasferimento diventano a costo zero. In caso di trasferimento di un docente viene contestualmente anche trasferita la risorsa retributiva. Quando un docente si pensiona (o cessa il servizio) il suo budget viene assegnato d’ufficio all’ateneo dove in quel momento egli prestava servizio.
Tecnicamente basta modificare di poco il punto del Ddl oggi in discussione dove si parla di federazione e fusione di atenei e razionalizzazione dell’offerta formativa, autorizzando gli Atenei, soggetti a valutazione positiva da parte dell’Anvur, a coprire posti di ruolo tramite trasferimento di professori e ricercatori da altro Ateneo con contestuale trasferimento della risorsa retributiva.
Naturalmente è necessario che gli Atenei che bandiscono i posti siano incentivati ad aumentare la propria qualità dal punto di vista della didattica e della ricerca. Questo pone un limite al numero dei concorsi a trasferimento e garantisce che l’Ateneo opererà una selezione all’ingresso. Si può anche pensare ad un meccanismo che permetta solo trasferimenti vincolati su base di progetti di alto livello scientifico confermati dalle valutazioni Anvur.
Facciamo presente che nel collegato alla Finanziaria 2010 l’articolo12 già prevede: “in caso di trasferimento di un docente dalla Scuola Superiore di Economia e Finanze ad Università Statale viene anche trasferita la risorsa retributiva”.

IMPLICAZIONI DELLA PROPOSTA

A livello diretto per i docenti questa norma non può che essere vantaggiosa in quanto  non coercitiva. Anche per gli atenei riceventi si hanno solo vantaggi. Supponiamo che in un ateneo virtuoso un docente si pensioni. Il Ministero toglie il 50 per cento del budget del pensionato. Se viene bandito un posto a trasferimento e l’ateneo possiede capacità attrattive non ci sono grossi problemi. Infatti, non solo si riesce a mantenere invariata la proposta didattica grazie al trasferimento, ma il 50 per cento del pensionamento diventa una risorsa aggiuntiva. Certo per l’ateneo di provenienza del trasferito si ha una perdita secca del 100 per cento e maggiori problemi.
Questa norma ha naturalmente molte altre conseguenze. Per esempio, essa permette un auto-riordino delle sedi decentrate. Siccome, oggi, la coperta corta i vari trasferimenti permetterebbero di mettere a nudo le sedi che si reggono sul nulla, dove magari i docenti sono quasi esclusivamente pendolari. Inoltre la norma permette all’autonomia universitaria di diventare più democratica: ogni docente diventa attore di un piccolo pezzo di autonomia, un qualcosa che adesso troppo spesso è in mano a gruppi di potere piuttosto che ai docenti più seri. Quindi un docente potrebbe trasferirsi perché in disaccordo con la politica del proprio ateneo, oppure perché stufo del provincialismo del proprio dipartimento dove un settore scientifico-disciplinare comanda tutto e bandisce posti solo per i notabili della zona.
Soprattutto questa norma darebbe la possibilità di costituire gruppi di ricerca più efficienti ed efficaci per esempio dove ci sono interessanti facilities sperimentali ed in generale dove esiste più attenzione per la ricerca. Infatti, chiaro che solo i docenti attivi e di buona qualità hanno un vero interesse verso la mobilità. Questo sarebbe un primo passo verso l’idea di Giovanni Abramo. Certo, Abramo sogna molto di più ma questa norma a costo zero e ha il vantaggio di non basarsi su difficili ed improbabili esercizi legislativi.

CONCLUSIONI

Non bisogna nascondere che questa norma possa essere anche fastidiosa. Gli equilibri di potere nelle università potrebbero diventare più mutevoli e sappiamo che questo è un problema per chi vive nei corridoi dei rettorati o per chi vuole sistemare dei protetti. Per questo motivo la nostra proposta, avanzata già in altre sedi di discussione tra docenti universitari, ha sollevato molte reazioni negative. Purtroppo il nostro sistema universitario ha paura di qualunque cambiamento. Paura che i trasferimenti alterino gli equilibri di potere. Paura che arrivi uno bravo sul serio a perturbare la quiete del fannullone. Paura che l’ateneo marginale scompaia nel nulla. Paura che l’Università in Italia diventi una cosa seria.

La risposta ai commenti

Nel ringraziare i lettori che hanno commentato il mio articolo, vorrei fornire qualche doveroso chiarimento.

Innanzi tutto per completezza di informazione (in un breve articolo non si può dire tutto e quello pubblicato l’’ho dovuto accorciare di più della metà per farlo entrare nelle dimensioni standard de La Voce) gli otto ranking da me presi in considerazione e sintetizzati nella figura 1, sono: (1) Higher Education Evaluation & Accreditation Council of Taiwan; (2) Academic Ranking of World Universities, Shanghai Jiao Tong University (Cina); (3) Times Higher Education World University Ranking; (4) Webometrics Ranking of World Universities, Cybernetics Lab del Consejo Superior de Investigaciones Científicas (CSIC), Spagna; (5) Quacquarelli Symonds World University Rankings; (6) International Professional Classification of Higher Education Institutions – École des Mines, ParisTech; (7) Centre for Science and Technology Studies, Leiden University; (8) Global Universities Rankings della Rating of Educational Resources, Russia. Non ho invece tenuto conto dello Scimago Institutions Ranking, Granada University (Spain), perché in esso è fatto solo sul numero delle pubblicazioni, senza pesare i vari criteri e quindi senza pervenire ad un indice unitario, con inevitabili distorsioni (gli enti più grossi, come i vari enti di ricerca nazionali con staff di migliaia di persone, sono chiaramente avvantaggiati).
Il ranking citato da più lettori (in cui non vi sono università italiane tra le prime 200, che è verosimilmente anche quello presentato dal Corriere della Sera) e che ha fatto recentemente scalpore nei mass media è quello del Times Higher Education che, –come chiarifico in un altro mio articolo, – ha la caratteristica di non essere basato solo sulla qualità della produzione scientifica calcolata in base a criteri bibliometrici (impat factor ecc.), ma su tanti altri parametri. La qualità della produzione scientifica incide solo per il 35%. Invece quello da me citato (HEEACT) fa una classificazione interamente basata sui criteri bibliometrici (come anche qualche altro tra gli otto citati). Per cui non è corretto sospettare che qualcuno mente e qualche altro dice il vero: semplicemente i parametri presi in considerazione dai diversi ranking sono diversi. Se, ad es, si prende in considerazione anche il rapporto tra le università e le industrie come criterio di valutazione (come fa il Times Higher Education), allora è evidente che le università italiane risultano svantaggiate rispetto a quelle degli USA. Purtroppo, spesso, di queste differenze non si tiene conto nei discorsi che si fanno.
Nonostante le diversità tra i vari ranking, tuttavia, ho voluto mettere in evidenza come vi sia una convergenza degli otto esaminati nell’’indicare un certo numero di università italiane come quelle che sono piazzate tra le prime 500; alcune per un motivo, altre per un altro, ma in ogni caso presenti. Che qualche lettore veda certe anomalie rispetto alle convinzioni possedute o alla reputazione generale, dipende dal fatto che sono avvantaggiate le università che presentano il range maggiore di discipline, mentre sono sfavorite quelle specializzate (come i politecnici e la Bocconi). E questo è un importante fattore che deve essere preso in considerazione, insieme ad altri, invece di prendere le classifiche così come vengono proposte senza interro­garsi su come sono fatte. Ecco perché che il confronto tra gli otto ranking abbia almeno in parte ovviato alla parzialità che può provenire dal prenderne solo uno di essi e leggerlo come il Vangelo. Purtroppo per un lettore, non ci sono ranking sloveni; ma qualora ci fossero, basterebbe andare a vedere la metodologia che ne sta alla base e qualora essa fosse corretta non vedrei nulla di male a prenderlo in considerazione. Nel mio articolo non si vuole difendere l’’indifendibile, ma semplicemente far vedere come la situazione offerta da una valutazione comparativa dei diversi ranking (se li dobbiamo prendere sul serio) non è così semplice come ci si vorrebbe far sembrare dal prenderne in considerazione solo uno, a seconda della tesi che si vuole dimostrare.
In merito alla mia proposta sulla mobilità dei ricercatori (sganciando il loro budget dai singoli atenei), non so quante università al mondo la pratichino, ma di certo in Italia ci si lamenta della loro scarsa mobilità: ci si laurea in una università, vi si fa il dottorato e vi si diventa docenti, sino al pensionamento. E allora a mali estremi, un rimedio radicale. È ovvio che esso deve essere accompagnato da altre misure, altrimenti si potrebbero verificare le patologie lamentate da un lettore: innanzi tutto l’’università dove ci si vuole trasferire deve essere disposta ad accogliere il nuovo ricercatore, il suo corpo docente deve essere commisurato in qualche modo agli studenti e così via. Infine deve esserci una valutazione della produzione scientifica dei dipartimenti, per evitare di accogliere i ricercatori che si trasferiscono solo per motivi di comodo. Insomma la mia è una proposta che deve essere ulteriormente articolata e contestualizzata; ma mi sembra che sia comunque un forte elemento di rimescolamento e di dinamismo nella sclerotizzata realtà italiana. E poi, non si vuole arrivare alla formazione di un certo numero di università di eccellenza, con una sufficiente massa critica di ricercatori? Si cominci allora da questa innovazione.

Se finisce tutto a tarallucci e acqua

Con il regolamento attuativo della riforma dei servizi pubblici locali si passa da una norma che bollava come inefficienti tutte le gestioni in house a una disciplina che consentirà a buona parte di quelle stesse gestioni di autoproclamare la propria efficienza e ottenere la deroga. Le società in house così salvaguardate dovranno però rispettare il Patto di stabilità interno. Ovvero non potranno operare. Una proposta per garantire alle imprese, anche pubbliche, maggiori margini di autonomia strategica e di bilancio. Ma con criteri più seri per mantenere l’affidamento.

 

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