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FEDERALISMO REGIONALE: LA RIVOLUZIONE PUÒ ATTENDERE

Il federalismo regionale segna un passo avanti nel percorso di attuazione della legge delega. Ma resta incompiuto negli aspetti più delicati: sanità a parte, non è stata risolta la questione delle spese essenziali. Né quella della perequazione. La norma dimostra anche che l’elevata solidarietà giustamente imposta dalla Costituzione non consente rivoluzioni rapide e forti nei rapporti Nord-Sud. Il cambiamento sarà lento e non vistoso. Attenti quindi alle delusioni dei leghisti.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

L’articolo si concentra sulla gravità della (reiterata) mancanza di un’analisi seria dietro decisioni che fissano sussidi, in presenza di obiettivi quantitativi già condivisi a livello politico (politica comunitaria 2020). Prima di preoccuparsi del sussidio infatti occorre fissare le modalità e le azioni con cui si vuole conseguire l’obiettivo. Un percorso che deve essere delineato dal legislatore: in quanto correlato alla strategia energetica e ambientale complessiva (se ce ne fosse una!) e al fine di rappresentare gli interessi di tutti (in quanto collettività e non nella somma di interessi). Quindi un’analisi che necessariamente richiede una valutazione analitica dell’efficienza, dell’efficacia e degli effetti redistributivi delle misure di incentivazione. Solo a valle di questa valutazione è possibile selezionare gli strumenti migliori sotto il profilo pubblico.
Ribadisco che nella valutazione è necessario analizzare tutte le produzioni (solare, eolico, bioenergie, geotermia, idro) ma soprattutto tutte le applicazioni con l’obiettivo di promuovere l’efficienza energetica delle produzioni e degli usi e quindi il risparmio di energia primaria e secondaria (gamba fondamentale del tavolo della politica energetica).
In merito al sussidio, cioè l’extracosto rispetto al prezzo dell’energia all’ingrosso, l’articolo vuole mettere in luce la schizofrenia dell’impostazione legislativa in materia di promozione alle rinnovabili elettriche, non solo per i numerosi cambiamenti delle regole del gioco, ma anche per la limitata attenzione ai costi delle tecnologie e ai meccanismi di formazione del sussidio. Il sussidio al solare fotovoltaico e il prezzo di ritiro dei CV in eccedenza sono esempi di come questa scarsa attenzione caratterizzi ancora una volta la legislazione nazionale.
Rispondo, infine, ai commenti sul dato relativo al prezzo di ritiro dei CV in eccedenza su cui probabilmente l’articolo è stato poco chiaro. Per effetto del decreto Romani, il prezzo di ritiro sarà nel periodo 2012-2015 pari al 78% della differenza tra 180 e il prezzo di vendita dell’energia rinnovabile e co-generativa fissato annualmente dall’Aeeg ex art. 13 D.lgs. 387/03. Questa differenza rappresenta anche il prezzo di vendita dei CV nella titolarità di GSE, quindi il prezzo massimo di offerta dei CV o prezzo di riferimento. Prezzo pari nel triennio 2009-2011 a 88,66; 112,82 e 113,1 €/MWh (il 78% di questo prezzo di riferimento è indicato in tabella).
Il prezzo di ritiro fino al 2011, con le regole in vigore prima del decreto Romani è pari al prezzo medio ponderato risultante dagli scambi dei CV nel mercato nel triennio precedente. Prezzo pari nel triennio 2009-2011 ai valori in tabella. La legge 122/10, anche ai fini del contenimento del costo del sussidio, prevedeva il passaggio (dal 2011) al 70% del valore attuale, quindi a valori – riferiti al triennio 2009-2011 indicati in tabella.
Ancora una volta regole che si modificano ma anche meccanismi di formazione dei prezzi che  cambiano senza un approccio analitico e con una visione di breve termine (i periodi transitori).

Tabella: prezzo di ritiro CV nelle diverse fasi legislative

prezzo di ritiro CV con regole ex legge 244/07

(€/MWh)

2009 98,00  
2010 88,91
2011 87,38

prezzo di ritiro CV con regole ex legge 122/10

(€/MWh)

2009 68,60  
2010 62,23
2011 61,16

prezzo di ritiro CV con regole decreto Romani

(€/MWh)

2009 69,16  
2010 87,99
2011 88,22

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Grazie dei commenti, tutti molto pessimisti nel descrivere la situazione dell’economia italiana. Solo due dei lettori (Dario Q. e Lugi Zoppoli) ricordano che ci sono perdenti anche dalle non riforme. Gli altri, con accenti diversi, sono concordi nel sottolineare i costi delle riforme. Antonio Ferrara e Luciano Galbiati sono i più nichilisti nei confronti degli esiti delle riforme.
Bob, Angelo e Pasquale Bolli suggeriscono implicitamente la scarsa efficacia delle riforme liberali nel tirarci fuori dai pasticci e argomentano che il vero problema italiano sia l’iniqua distribuzione del reddito e della ricchezza. Come si fa a non essere d’accordo? Il punto però è: come si rende la ricchezza e il reddito più equamente distribuiti? Io credo che in un paese come il nostro in cui i diritti individuali sono così poco rispettati in favore dei diritti che derivano dall’appartenenza (ad un gruppo o gruppetto dotato di qualche potere di ricatto) o dalla “conoscenza” (del fornitore del servizio di turno), le riforme liberali sono un primo passo irrinunciabile per ottenere una maggiore uguaglianza di opportunità. Non credo viceversa ad altri interventi statali per aumentare l’uguaglianza ex-post (patrimoniali & c.).
L’introduzione delle riforme liberali causa perdenti perchè sottrae rendite a chi fino a ieri beneficiava dell’assenza di concorrenza (lavoratori garantiti, tassisti, professionisti con tariffe minime). Come osserva Mario Brandi, ricompensare i perdenti sarebbe in definitiva un costo modesto rispetto al beneficio delle maggiori libertà economiche da ottenere con le riforme. Ma il dibattito pubblico mi pare che oscilli tra il colbertismo di Tremonti che finisce per negare i benefici delle riforme liberali e l’illusione delle riforme a costo zero diffuso da noi economisti (anche su questo sito). Sarebbe meglio dire che le riforme producono benefici, ma non sono a costo zero, per poi quantificare con precisione i costi delle varie riforme e presentare il costo di ognuna delle riforme o del “pacchetto” in modo che si sviluppi un dibattito pubblico informato sull’argomento.
Maurizio Sbrana sceglie tra le varie riforme quella fiscale come quella più appropriata per rilanciare i consumi. Riferendosi all’articolo 53 della costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Credo che la sua idea sia quella di una riforma fiscale che riduca l’evasione, riducendo le aliquote e semplificando il sistema fiscale. E’ quello che – per l’ennesima volta – ha annunciato anche il ministro dell’Economia: vuole una riforma che renda il sistema fiscale “progressivo, competitivo e semplice”. “Competitivo” per me vuol dire che, data la mobilità del capitale finanziario, non si possono fare le patrimoniali nè alzare le aliquote sui redditi da capitale. La tassazione del consumo è solitamente regressiva ma semplice. Quella sul reddito è di solito progressiva – ma solo in un paese dove tutti pagano le tasse – e spesso più complicata. In ogni caso, la riforma fiscale, per non spaventare i consumatori e i mercati, deve evitare di causare voragini di debito. E quindi anche una riforma fiscale che riduca l’onere della tassazione non è a costo zero, ma implica che si tagli la spesa pubblica più di quanto sia stato fatto finora.

DEMOCRAZIE D’ARABIA

Le recenti proteste popolari hanno risvegliato il mondo arabo da un pluriennale torpore. Ma quali sono le prospettive della democrazia in Nord Africa e Medio Oriente? L’evidenza storica suggerisce che i paesi meno dipendenti dalle risorse naturali e caratterizzati da una distribuzione della ricchezza più eguale hanno maggiori possibilità di cambiare sistema politico in maniera poco violenta e di arrivare a democrazie caratterizzate da una più ampia tutela delle libertà individuali. E ciò non fa ben sperare per i paesi arabi oggi coinvolti nei conflitti più violenti.

ISTRUZIONE E STIPENDI DEI PARLAMENTARI

 

SENZA UN’INTESA NIENTE ITALIANITÀ

Sono entrambe aziende quotate alla Borsa di Milano. Sono entrambe possibili bersagli di un’acquisizione da parte di gruppi stranieri. Ma in un caso si mobilitano il governo e una banca per dire che non deve passare lo straniero. Nell’altro caso lo straniero non solo non viene contestato, ma se ne va in giro per la capitale osannato dalla metà dei romani. Stiamo parlando di Parmalat e AS Roma ovviamente, il cui controllo potrebbe essere acquisito nelle prossime settimane rispettivamente dal gruppo francese Lactalis e da una cordata di investitori americani capitanata da Thomas R. Di Benedetto. La differenza di trattamento riservata ai due casi, anche sui media, è piuttosto curiosa. Certo, Lactalis non pubblica un bilancio da tanti anni, come ama ricordarci il Corriere della Sera. Ma non è che si sappia molto di più di Di Benedetto. Proprio ieri  il Sole 24 ore scriveva che “mancano indicazioni sulla solidità patrimoniale e finanziaria di Di Benedetto”. Aggiungendo “Tom è sconosciuto nella sua città (Boston) e negli Stati Uniti. Possibile che abbia le credenziali per comprare la 18esima squadra di calcio d’Europa per fatturato?”. La differenza pare sia un’altra: Parmalat è un’azienda “strategica” mentre la Roma no. Certo,  Parmalat è più grande di AS Roma e ha anche un indotto più significativo. E poi volete mettere l’importanza del latte con quella del calcio? Tutto chiaro, allora? Non proprio. Telecom Italia è più grande di Parmalat e le telecomunicazioni non sono certo meno “strategiche” del comparto alimentare (che, in ogni caso, nella famigerata lista dei settori strategici per la Francia non c’è). Ma Telecom è controllata da Telco, il cui azionista principale è Telefonica, azienda spagnola. Il quadro degli interventi ispirati al patriottismo economico sembra proprio un guazzabuglio senza coerenza. Ma ricordiamo che, con Telefonica, in Telco c’è una banca. La stessa che adesso difende l’italianità di Parmalat, dopo avere salvaguardato quella di Alitalia. Ecco, forse abbiamo finalmente trovato un punto d’Intesa su cosa sia veramente strategico in Italia.

IL PASTICCIO DI BRUXELLES

Da giugno 2013 il ruolo ora coperto dall’Efsf e dall’Efsm sarà assunto da un nuovo fondo, l’Esm, European Stability Mechanism. Avrà il compito di fornire assistenza finanziaria ai paesi dell’euro. Ma le decisioni prese a Bruxelles a fine marzo potrebbero addirittura aggravare l’instabilità dell’area. Perché la nuova architettura finanziaria non sembra in grado reggere l’onda d’urto di una crisi finanziaria seria, che coinvolga Portogallo e Spagna. Rischia di propagare la crisi ai paesi ad alto debito. E di lasciare l’Europa in balia di paralizzanti veti incrociati.

RINNOVABILI SENZA SUSSIDI AD OGNI COSTO

La riforma dei meccanismi di sostegno alle energie rinnovabili regge sul presupposto di rendere il sistema di incentivi più efficiente e meno costoso per famiglie e imprese. Ma così non sembra, almeno nella transizione. La strada per ridurre i costi del sussidio è un vero riordino delle politiche di promozione della crescita. Che consideri la relazione tra energia primaria e applicazioni d’uso e la relazione tra energia rinnovabile prodotta e consumata. Oltre a rendere evidente il costo del sussidio.

IL CAPITALISMO DI DON RODRIGO

Se il modello è la legge francese sugli investimenti esteri nei settori strategici, quella che Tremonti si accinge a proporre non servirà a fermare la scalata di Lactalis a Parmalat. E d’altra parte talvolta non c’è neanche bisogno di una legge. Se ogni impresa ha bisogno giornalmente di autorizzazioni complesse, date in modo non sempre trasparente, e se le commesse pubbliche sono una fonte importante di ricavi, allora lo Stato di fatto può ricattare le aziende.

SE È AUTOMATICO NON È EFFICACE

Lo scorso mese, il Consiglio dei ministri ha discusso il decreto legislativo per la riforma degli incentivi alle imprese. Il massiccio ricorso a provvedimenti automatici, in un contesto di risorse scarse quale quello italiano, desta notevoli perplessità. Meglio sarebbe puntare su strumenti selettivi che, se ben gestiti, segnalano a investitori privati la bontà dei progetti delle imprese finanziate. Recenti studi svolti presso il Politecnico di Milano sulle giovani imprese italiane operanti nei settori ad alta tecnologia confermano questa tesi.

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