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Le primavere arabe due anni dopo


A quasi due anni dall’esplosione delle primavere arabe, solo l’Egitto, la Libia e soprattutto la Tunisia hanno realizzato significativi progressi in termini di libertà politiche e civili. Miglioramenti più marginali si sono avuti in Giordania e Marocco. Tutti gli altri paesi del Golfo, eccetto Oman e Kuwait, hanno visto ridursi le libertà. I regimi monarchici sono più stabili delle repubbliche e negli Stati ricchi di materie prime non agricole l’evoluzione democratica è quasi nulla. Scarso rispetto dei diritti politici e civili nelle democrazie uscite da guerre civili cruente.

L’America dei prossimi quattro anni

Siamo all’elezione del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Ma un altro risultato elettorale sembra già definito. Stando ai sondaggi, ci sarà un sostanziale pareggio tra Repubblicani e Democratici, con i primi che manterranno il controllo della Camera e i secondi quello del Senato. Ma ciò determinerà uno stallo nelle decisioni su questioni fondamentali. E in particolare impedirà di arrivare a un nuovo patto sociale che produca una politica di bilancio sostenibile.

Il Web nel futuro della politica

Il web è uno strumento attraverso cui semplificare la vita delle famiglie e delle imprese riducendo i costi connessi con la burocrazia. Ma per la digitalizzazione della vita politica e sociale nel nostro paese c’è ancora molto da fare. La bassa diffusione della partecipazione politica attraverso Internet fa ipotizzare che il successo del M5S non sia da attribuire solo agli elettori che tendono a informarsi e interagire tramite web. In prospettiva, ci sono possibilità di crescita per le formazioni che utilizzeranno la rete come primario canale di relazione con l’elettorato.

Guarire la crisi con il debito? Forse, ma non qui

Si può guarire, in alcuni casi, da una crisi di debito accumulando altro debito, suggerisce il Nobel Paul Krugman. Che invoca una politica fiscale espansiva come unico strumento possibile per creare domanda e generare occupazione quando il settore privato ha un indebitamento eccessivo. Il costo si scaricherà sui contribuenti e se la spesa pubblica verrà utilizzata in modo produttivo, le generazioni future avranno più debito, ma anche più asset. In Italia, però, la ricetta non può funzionare. Ecco perché.

Mettere la parola fine alla crisi

Nel suo ultimo libro, Paul Krugman spiega perché né gli Stati Uniti né l’Europa sono riusciti a uscire dalla crisi, con costi umani e sociali troppo alti. È tempo di governare i problemi in un quadro istituzionale e politico internazionale cooperativo, per far sì che alle carenze di domanda privata sopperisca la spesa pubblica. Uno strumento che i Piigs europei, per esempio, non possono utilizzare unilateralmente. E dunque la ricetta per l’Europa dell’euroscettico premio Nobel muove da un elemento comune alle tesi di chi chiede più integrazione nell’Unione: la Bce deve garantire la stabilità finanziaria, com’è dovere di una banca centrale.

STORIE DI DEBITO NELLA TERRA DEI CANGURI

L’Australia è una federazione che ha dovuto affrontare il problema dei debiti pubblici dei singoli stati. La soluzione fu trovata nel Loan Council, un organismo che ha coordinato la politica fiscale australiana fino al 1985. E in un emendamento alla costituzione che dava al governo centrale un potere eccezionale per contrastare i comportamenti scorretti degli stati. Il tutto con il sostegno incondizionato dell’opinione pubblica. Insomma, un quadro istituzionale molto diverso da quello dell’Eurozona. Eppure, non è bastato: alla fine la responsabilità fiscale è tornata ai singoli stati.

UNA NUOVA ORGANIZZAZIONE PER LA SALUTE GLOBALE

Il ruolo dell’Oms è stato messo a dura prova negli ultimi anni dal rapido modificarsi dello scenario globale, con nuove priorità sanitarie e con l’emergere di nuove forme di collaborazione pubblico-privato, con annessi conflitti di interesse. Una riforma è dunque necessaria, ma non tutti sembrano volerla. Eppure il suo ruolo guida è insostituibile. Passa però da provvedimenti per la qualità della gestione e la stabilità finanziaria dell’organizzazione, dal recupero di sostegno e fiducia degli Stati membri, dalla drastica riduzione della dipendenza dal settore privato.

DOVE GLI IMMIGRATI FANNO BENE ALL’ECONOMIA

L’immigrazione è un tema caldo nella campagna elettorale delle presidenziali francesi. Ma se si guardano i dati, la Francia con i suoi 200mila ingressi l’anno è uno dei più chiusi tra i paesi avanzati. Eppure, non sono pochi i francesi che imputano le difficoltà a trovare lavoro proprio agli stranieri. Secondo gli economisti, invece, l’immigrazione non ha evidenti effetti negativi né sull’occupazione, né sul livello dei salari. E non sarà certo l’irrigidimento della politica migratoria che permetterà di risolvere i problemi di deficit di bilancio o di previdenza del paese.

PREVEDERE LE PRESIDENZIALI USA. E VEDERE L’EFFETTO CHE FA

Dopo il ritiro di Rick Santorum, lo sfidante di gran lunga più credibile, è ormai certo che Mitt Romney sarà il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Adesso l’attenzione si sposta sulla scelta dei ticket presidente-vicepresidente e sulle elezioni di novembre. Ma chi sarà il vincitore? Lo indicano i mercati predittivi. Che aiutano anche a rispondere a due domande: che effetti ha l’andamento dell’economia sul risultato elettorale? E che dire degli effetti del risultato elettorale sulle prospettive economiche future?

EFFETTO PRESIDENTE SULL’ECONOMIA

Il legame tra economia e risultati elettorali funziona anche in senso inverso: l’’esito delle elezioni ha con ogni probabilità un effetto sull’’andamento futuro delle variabili macroeconomiche come la crescita, la disoccupazione e l’’inflazione. Dal punto di vista teorico ciò è tanto più vero quanto più sono distanti le piattaforme programmatiche dei candidati, sia sulla carta che, soprattutto, nei fatti.

DALLA POLITICA ALL’ECONOMIA

Sempre focalizzandoci sul caso degli Stati Uniti, secondo il modello tradizionale del ciclo economico-politico, quando il presidente in carica è un democratico l’’inflazione è in media più elevata e la disoccupazione è più bassa che sotto un presidente repubblicano; dal punto di vista empirico tale conclusione si basa sull’’analisi diretta dei dati storici relativi al secondo dopoguerra. Il problema di questa metodologia è che non si riesce a isolare l’’effetto opposto, che va dalle variabili economiche all’’esito elettorale.
Sotto questo profilo, i mercati predittivi inerenti a una certa gara elettorale sono uno strumento utile per valutare in maniera rigorosa l’’effetto della probabilità di vittoria di un candidato o dell’’altro sull’’andamento di variabili macroeconomiche e finanziarie rilevanti. L’’idea consiste nell’’analizzare la correlazione tra quotazione sui mercati predittivi dopo che i seggi elettorali sono stati chiusi e l’’andamento contemporaneo di alcune variabili finanziarie rilevanti: la bontà di questo approccio sta nel fatto che, per definizione, l’’andamento del mercato predittivo non è più influenzato dall’’andamento delle variabili economiche, in quanto i cittadini si sono già espressi tramite il voto.
A questo proposito, Eirik Snowberg, Justin Wolfers ed Eric Zitzewitz sfruttano l’’andamento oscillante dei mercati predittivi dopo la chiusura delle urne nel 2004, quando inizialmente gli exit poll davano la vittoria a John Kerry, per poi essere sonoramente smentiti dalla riconferma di George W. Bush. (1) Ebbene, l’’effetto della vittoria di Bush consiste in un apprezzamento tra l’’1,5 e il 2 per cento dei mercati azionari, molto probabilmente a motivo della minor tassazione sulle plusvalenze (capital gain) prevista da Bush, e in un aumento dei tassi di interesse nominali, che è verosimilmente dovuto a un aumento del tasso di interesse reale sottostante, e non dell’’inflazione attesa. Secondo gli autori, l’aumento dei tassi di interesse reali potrebbe essere ricollegato alla maggiore propensione degli ultimi presidenti repubblicani a creare un deficit del bilancio federale.
L’’appartenenza politica del presidente potrebbe avere un effetto anche sulle prospettive specifiche dei diversi settori dell’’economia. Brian Knight ha studiato la questione analizzando l’’effetto della contesa elettorale tra Bush e Al Gore nel 2000, ancora una volta sfruttando l’’andamento dei mercati predittivi. (2) Knight mostra come una maggiore probabilità di vittoria per Bush abbia avuto effetti positivi sul settore del tabacco, mentre ha sortito effetti negativi sulle imprese concorrenti di Microsoft, e sui produttori di energia tramite tecnologie alternative. E si noti come questi risultati sono rinforzati dal fatto che le imprese che l’’analisi indica come favorite da Bush sono proprio quelle che hanno sostenuto in maniera sistematicamente più generosa la sua campagna elettorale rispetto a quella di Gore, e viceversa per le imprese che appaiono come sfavorite.
È facile pensare ai mercati finanziari solo in termini speculativi, mentre si dimentica spesso la dimensione assicurativa, che è altrettanto fondamentale. Ciò vale anche in questo caso, nella fattispecie rispetto al rischio politico: cittadini abbienti che verosimilmente avrebbero pagato imposte più elevate sotto Gore che sotto Bush avrebbero potuto assicurarsi contro questo rischio fiscale acquistando prima delle elezioni quei titoli che sarebbero saliti di più nel caso avesse vinto il primo (ed eventualmente vendendo allo scoperto i titoli favoriti dal secondo).
E in Italia? Se nel 2013 ci sarà ancora una forma di bipolarismo politico, Mediaset è l’’azienda giusta per fare arbitraggi tra variabili politiche ed economiche: chi è avverso al rischio e teme di essere svantaggiato da una vittoria del centrodestra dovrebbe acquistare azioni Mediaset. E viceversa dovrebbe venderle allo scoperto chi si aspetta svantaggi dal centrosinistra.

(1) Erik Snowberg, Justin Wolfers e Eric Zitzewitz [2007]. “Partisan Impacts on the Economy: Evidence from Prediction Markets and Close Elections” Quarterly Journal of Economics, May 2007, 122(2) 807-829. Disponibile qui.
(2) Brian Knight [2007] “Are policy platforms capitalized into equity prices? Evidence from the Bush/Gore 2000 Presidential Election.” Journal of Public Economics 91(1-2): 389-409. Disponibile qui. Per l’idea di mercati azionari collegati alle elezioni a fini assicurativi, si veda David Musto and Bilge Yilmaz [2003]. “Trading and voting.” Journal of Political Economy, 111. Disponibile qui nella versione working paper.

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