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Autore: Vito Tanzi Pagina 1 di 2

Vito Tanzi ha ottenuto il PhD presso la Harvard University. E' stato Sottosegretario all’Economia e alla Finanza del Governo Italiano fino a inizio giugno 2003. Ha insegnato negli Stati Uniti presso la George Washington University e la American University. E’ stato direttore del Dipartimento di Finanza Pubblica del Fondo Monetario Internazionale dal 1981 al 2000. E’ stato consulente della Banca Mondiale, delle Nazioni Unite, dello Stanford Research Institute. Ha pubblicato numerosi articoli e libri. I suoi interessi vertono principalmente nel campo della Finanza pubblica, della Tassazione e della Crescita economica.

Se l’America non è un buon esempio di federalismo

Gli Stati Uniti sono un esempio da imitare per la Ue del futuro? In realtà, l’integrazione tra gli stati Usa è scarsa. D’altra parte, è molto difficile che si possa arrivare a un bilancio europeo con sistemi di welfare così diversi da paese a paese.

L’Italia e i costi dell’unità

Sotto il profilo economico l’unificazione d’Italia è stata vantaggiosa per tutti i cittadini dei sette Stati che componevano la penisola a quel tempo? Questioni che si riflettono anche sull’Italia di oggi, analizzate da Vito Tanzi nel suo Italica: Costi e Conseguenze dell’unificazione d’Italia. L’autore stesso presenta qui i contenuti del libro.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Sono davvero molto grato ai lettori per i vari commenti al mio articolo sull’ipotesi di creazione di un Fondo monetario europeo (Fme). Nel rispondere comincerò dal commento di Daniel Gros che, con Thomas Mayer, ha proposto in un recente articolo, la creazione di un Fme che costituerebbe “uno strumento utile per aumentare la disciplina (fiscale) e per rafforzare la presenza europea nel Fmi”. Ovviamente questo non eè il luogo ideale per commentare con precisione la proposta, abbastanza corposa, di Gros e Mayer. Piuttosto la presente discussione dovrebbe essere cosa fare con la Grecia e con altri paesi in difficoltà ora; non come risolvere i possibili problemi finanziari dei paesi europei tra dieci o venti anni, quando il Fme, come proposto da Gross e Mayer, avrebbe accumulato le risorse finanziarie necessarie (con i contributi annuali al Fme dei paesi membri) per aiutarli. Un’altra difficoltà è che i paesi membri, che già hanno grossi problemi finanziari in questo momento e li avranno negli anni futuri, si addosserebbero ora il peso addizionale di dover contribuire le loro quote annuali al Fme. Queste quote, secondo la proposta, sarebbero più pesanti specialmente per i paesi con debiti pubblici ed indebitamenti netti più alti. Cioè esattamente per i paesi con più difficoltà a contribuire al Fme.
Domenico Taddeo propone un Fme di garanzia dei debiti pubblici dei paesi membri. Sarebbe gestito dalla Bce che riceverebbe da ogni paese un premio di garanzia commisurato all’entità del debito e del deficit dei paesi. Il rischio d’insolvenza e la responsabilità di misurare il rischio per paese per determinare il premio di garanzia passerebbero alla Bce. Per un paese, almeno in teoria, il costo del credito sarebbe lo stesso perchè il pagamento alla Bce, per trasferire il rischio, dovrebbe essere lo stesso che il costo più alto del debito ottenuto senza la garanzia della Bce. La Germania non acetterebbe mai questo trasferimento di rischio alla Bce; e neppure la Bce si metterebbe mai in quelle condizioni. È facile immaginare le pressioni politiche che questa proposta creerebbe per la Bce.
Paolo Todeschini discute la possibilità di una rappresentanza unica europea nel Fondo monetario internazionale (Fmi). L’idea è molto discussa. Ci sono ovviamente enormi problemi da risolvere. Per esempio quale paese rappresenterebbe l’Europa nel consiglio esecutivo del Fmi? Lo farebbe imparzialmente senza pressioni dal governo del suo paese? Che pericolo c’è che nel cambio dalla situazione attuale alla rappresentanza unica l’Europa perderebbe parte del suo potere di voto? È proprio vero che il cambio darebbe più potere al’Europa? Avendo trascorso 27 anni nel Fmi, sempre in posizioni abbastanza alte, non ne sono convinto.
L’idea di Mario Savioli di usare l’oro delle riserve della Banca d’Italia per pagare parte del debito pubblico è una vecchia e credo cattiva idea. La Banca d’Italia ha accumulato l’oro in parte creando debiti contro se stessa. E l’oro rappresenta una garanzia importante. Recentemente il governatore della Banca centrale dell’Argentina si è dimesso proprio per questa politica da parte del governo argentino. La Bce non lo permetterebbe. I calcoli presentati da Mario Savioli non mi sembrano coretti. Il valore totale dell’oro della Banca d’Italia è molto meno del debito pubblico italiano.
Sul commento di Claudio Bellavita è sufficiente ricordare i problemi che i Cds hanno creato negli ultimi anni al sistema finanziario. Non creamone degli altri.
Sono d’accordo con il commento di Paolo Gelain ma vorrei ripetere quanto già scritto nel mio articolo, che i problemi dei conti pubblici dei paesi dell’Unione Europea non derivano da oneste politiche anticicliche ma da cicli elettorali e da finanza facile.

DIFFICOLTÀ E RISCHI SULLA STRADA DEL FONDO MONETARIO EUROPEO

Il Fondo monetario europeo non è solo un’idea molto difficile da realizzare. Per i paesi dell’Unione monetaria rappresenterebbe un’alternativa al Fondo monetario internazionale. E anche chi non ha i conti pubblici in ordine potrebbe così sentirsi autorizzato a seguire con disinvoltura politiche fiscali anticicliche, sicuro di avere comunque una rete di protezione. Mentre invece è necessario rafforzare il controllo europeo sulla disciplina di bilancio dei paesi membri. La perdita di influenza all’interno dell’Fmi.

L’ULTIMO G8

Gli otto grandi del mondo si incontrano tra pochi giorni in Italia, a L’Aquila. Ma ha ancora senso una riunione dei G8, quando ne sono esclusi paesi come Brasile, Cina o India? Tanto più che le decisioni prese dal G8 non saranno certo accolte con entusiasmo da paesi che non hanno avuto nessuna voce in capitolo. Forse è giunto il momento di sciogliere il G8 e sostituirlo col G20. E cominciare a pensare seriamente alla creazione di meccanismi permanenti che possano proporre soluzioni concrete ai problemi del mondo.

COMMENTO A “UNA POLITICA FISCALE CONTRO LA CRISI”

L’interessante nota del Fondo Monetario Internazionale (Link), sull’uso della politica fiscale per combattere la crisi finanziaria, spinge ad alcune riflessioni e a domande che possono aiutare i lettori a meglio comprendere il merito della politica fiscale che il Fondo sta proponendo.
La prima domanda è: C’è qualche esperienza convincente che dimostra che una politica fiscale del tipo proposto abbia dato i risultati che il Fondo spera di ottenere? Se c’è, sarebbe utile per i lettori conoscerla.
La seconda è una riflessione che riguarda un’osservazione della nota: siccome è difficile identificare precisamente la medicina di cui ha bisogno il malato (cioè l’economia), è meglio utilizzare tutte le medicine a disposizione sperando che ce ne sia qualcuna che dia l’effetto desiderato. Bisogna riconoscere che in certi casi ci possono essere effetti negativi nell’uso di medicine sbagliate.
Una terza osservazione su cui sarebbe interessante soffermarsi è quella secondo cui i pacchetti di stimolo dovrebbero includere più che in passato aumenti della spesa pubblica in beni e servizi. L’acquisto di beni e sevizi, nella maggior parte dei paesi, consiste principalmente in tre categorie: salari per gli impiegati pubblici, investimenti pubblici e spese militari; ciò vuol dire che il Fondo Monetario sta proponendo aumenti salariali, più investimenti e spese militari. Allo stesso tempo la nota afferma che l’aumento di spesa non dovrebbe ”comportare un aumento permanente del deficit (e del debito?) pubblico”. Alcune domande: è una buona idea aumentare gli stipendi pubblici e le spese militari? L’aumento di stipendi non è equivalente nel suo effetto ad una diminuzione di imposte che la nota respinge? Sarà possibile ridurre in futuro gli aumenti di stipendi per non far peggiorare permanentemente la situazione dei conti pubblici? E’ possibile aumentare immediatamente la spesa per gli investimenti senza causare sprechi? Cosa possiamo imparare dall’esperienza giapponese degli anni novanta a riguardo?
Sarebbe utile avere risposte precise a queste domande per meglio conoscere il merito della proposta del Fondo Monetario ed eliminare qualche dubbio.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Sono molto grato ai lettori che hanno avuto la bontà di inviare commenti al mio articolo. Condivido il bisogno per l’Italia di razionalizzare e ristrutturare la spesa pubblica rendendola più efficiente e più equa. Condivido anche la necessità di ridurre l’evasione fiscale ed anche il peso delle imposte, ancora troppo alte per coloro che le pagano onestamente. Durante molti hanni ho scritto vari articoli sulla necessità di fare queste riforme. Condivido anche il bisogno di introdurre ammortizzatori sociali efficienti e capaci di proteggere gli sfortunati e specialmente i più colpiti da crisi economiche.
Ma queste sono riforme che si discutono da sempre. E’ improbabile che saranno fatte proprio ora, nel mezzo della bufera economica e finanziaria che si è abbattuta sul mondo.

Il mio articolo si riferiva esclusivamente alla crisi economica ed a pericoli più immediati. Il dilemma per il governo italiano in questo momento è come affrontare la crisi. Molti vorrebbero spengerlo verso un forte aumento di spesa pubblica ed altri verso una riduzione di imposte senza darsi conto delle possibili conseguenze macroeconomiche. Il mio articolo aveva il modesto obbiettivo di avvertire che politiche keynesiane possono avere conseguenze non desiderabili, o persino pericolose, almeno per l’Italia. Il problema è che il governo italiano ha ereditato un debito pubblico molto alto e relativamente più costoso di altri paesi. Il debito ha anche una maturità non molto lunga, un aspetto che condivide con altri paesi. Le politiche del passato hanno ridotto il margine di manovra macroeconomico che ha il governo in questo momento. Il “rischio paese” è aumentato parecchio nell’ultimo anno. Tale rischio è come un termometro che indica quanta febbre ha un malato. Una febbre alta ed in aumento è dannosa per un malato. Un rischio paese alto ed in aumento è dannoso per l’economia di un paese. Un rischio paese in aumento è un avvertimento da non ignorare. Per me non c’è dubbio che una manovra di stampo keynesiano potrebbe spingere l’Italia su un cammino molto pericoloso. Naturalmente il mio commento non impedirebbe al governo di ridurre spese non necessarie, o l’evasione fiscale, per aiutare i più colpiti dalla crisi. Ma queste riforme dovrebbero rispettare i parametri macroeconomici. La pressione sul governo di fare qualcosa dovrebbe tener conto del famoso giuramento Hippocratico: la prima regola per un medico prima di agire è di essere sicuro di non causare danno.
La stessa regola vale per i ministri.

DILEMMI ITALIANI

Per l’Italia sarebbe imprudente e molto rischioso tentare una espansione keynesiana o aumentare la spesa pubblica per proteggere i più colpiti dalla crisi. I dati sui tassi di interesse dimostrano che il rischio paese è già salito rispetto allo scorso anno e una politica fiscale espansiva potrebbe farlo aumentare in modo incontrollabile. Oltretutto, misure di questo tipo potrebbero anche non essere efficaci perché quella italiana è una economia molto aperta e il suo andamento dipende in larga misura da ciò che accade nel resto del mondo. Sostenere che il debito totale (incluso il debito privato) è basso ha poco significato. Conta il debito pubblico.

IL RITORNO A COLBERT

Il recente articolo di Salvatore Rossi ha sollevato l’importante questione: chi ha fallito, lo stato o il mercato?Chi è stato a causare la crisi finanziaria ed economica che stiamo attraversando? Per alcuni osservatori la risposta è ovvia. Il fallimento è avvenuto nel mercato. Siccome molti esponenti politici di alto rango condividono questo punto di vista, ci troviamo di fronte alla possibilità di un ritorno a Colbert ed alle nazionalizzazioni delle imprese, ai dazi doganali, alle banche di sviluppo con crediti agevolati, ai sussidi alle imprese, e così via. Tanto, se il mercato non funziona, perché non lo sostituiamo con le decisioni dei politici che non farebbero gli errori del mercato e che potrebbero introdurre più etica nelle relazioni economiche? Ciò vorrebbe dire abbandonare le lezioni che abbiamo appreso da tanti esperimenti falliti nel secolo scorso.

Come sosteneva Rossi nel suo articolo, ci troviamo di fronte ad una situazione in cui il mercato ha fallito perché lo stato o meglio quelli che lo rappresentano non hanno fatto quello che era loro responsabilità fare. Cosa avrebbero dovuto fare? I lettori mi scuseranno se per rispondere a quella domanda riferirò ad alcuni miei articoli scritti anni prima della crisi che stiamo attraversando. Come esponente senza apologie del pensiero liberale – che crede che il mercato libero sia lo strumento più efficiente per migliorare il tenore di vita dei popoli (dando allo stesso tempo maggiore libertà) – non ho mai creduto al fondamentalismo di mercato, ossia all’idea o alla religione che il mercato ha sempre ragione. Questo è il pensiero di una setta religiosa e non di molti economisti liberali di cui Einaudi era l’esponente più importante in Italia.

Il Cato Journal, uno dei più autorevoli rappresentanti del pensiero liberale attuale, nel 2005 (autunno) mi fece l’onore di pubblicare un mio articolo su quella che dovrebbe essere la funzione economica dello stato.A pagina 631 l’articolo riportava che:

“Nei mercati finanziari….c’è bisogno che il governo eserciti una funzione di vigilanza e di regolamentazione. Questa funzione non si può e non si dovrebbe lasciare al settore privato….Dovrebbe essere una delle attivita’ fondamentali dello stato.” In una “Special Invited Lecture” all’Università Cattolica di Milano (14 giugno 2005), pubblicata dalla Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze (fascicolo 3-2005) avevo ripetuto che “In una economia di mercato la funzione più essenziale o più fondamentale dello Stato dovrebbe essere quella di far funzionare il mercato nel modo più efficiente possibile. Conseguentemente una funzione regolatoria efficiente dello stato, verso il funzionamento dell’economia, dovrebbe essere considerate assolutamente fondamentale”.
Quest’ultima frase era addirittura in corsivo.

E’ ovvio da questi riferimenti, e potrei darn altri, che far parte del pensiero liberale non vuol dire essere contro le regole. Alcuni osservatori confondono i “fondamentalisti di mercato” con i liberisti che credono in uno stato efficiente ma ridimensionato insieme ad un mercato con regole precise imposte da politici intelligenti. Sicuramente Luigi Einaudi non era un fondamentalista di mercato. Speriamo che ci sIano ancora politici intelligenti capaci di capire la loro funzione in una economia di mercato.

UN G-20 CON TROPPE RACCOMANDAZIONI

Una rilettura a mente fredda della dichiarazione finale del G-20 fa emergere molti dubbi. Il problema principale del documento è non separare in modo sufficientemente netto ciò che i paesi devono realizzare immediatamente da quello che dovrebbero fare in seguito. E mancano dettagli importanti, quelli su cui è più probabile che si manifestino i disaccordi fra governi. Preoccupanti anche le omissioni su questioni fondamentali come i disequilibri macroeconomici. Diverse invece le banalità, in particolare sul ruolo del Fondo monetario internazionale.

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