Lavoce.info

Autore: Valentino Larcinese

larcinese

Professore ordinario alla London School of Economics and Political Science. Ha avuto incarichi di insegnamento e ricerca presso varie istituzioni fra cui Bocconi, Tor Vergata, MIT, INSEAD, Sciences Po e Banca d’Italia. Laureato in Discipline Economiche e Sociali presso l'Università Bocconi, PhD in Economia presso la LSE. I suoi principali interessi di ricerca riguardano il rapporto fra istituzioni, processi di decisione collettiva e politiche pubbliche.

PER UN “FREEDOM OF INFORMATION ACT” ITALIANO

Parte in questi giorni una campagna per l’introduzione anche in Italia del “Freedom of Information Act”. Si tratta di una legge che garantisce a tutti i cittadini l’accesso agli atti e ai documenti prodotti dalla pubblica amministrazione. La sua approvazione segnerebbe una svolta fondamentale in un paese come il nostro, che soffre di una acuta mancanza di trasparenza. Certo, il solo varo della norma non  cambierebbe magicamente la pubblica amministrazione e dovremmo  aspettarci resistenze di tutti i tipi.

UN CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA

Oggi in Italia un comune cittadino può richiedere alla pubblica amministrazione solo informazioni che lo riguardano personalmente; al contrario, con il Foia lo stesso cittadino potrebbe richiedere qualsiasi informazione che non sia esplicitamente esclusa dalla legislazione, senza dover fornire giustificazioni sulla richiesta. In sostanza, passerebbe il principio che le informazioni detenute dalla pubblica amministrazione appartengono ai cittadini: dunque, come se si invertisse l’onere della prova, non sarebbe più il cittadino a dover giustificare la richiesta di informazioni, quanto piuttosto la pubblica amministrazione a dover giustificare la segretezza, ed elencare in quali casi specifici i documenti non sono pubblici.
Da questo cambio di prospettiva e da una pubblica amministrazione più trasparente possono derivare numerosi benefici: (1) i cittadini sono più informati sull’operato dei loro rappresentanti e quindi probabilmente capaci di sceglierli in maniera più oculata; (2) si instaura un rapporto di maggiore fiducia fra cittadini e pubblica amministrazione; (3) si creano buoni incentivi per chi gestisce la cosa pubblica, affinché operi nell’interesse collettivo, aumentando dunque l’efficienza del sistema e riducendo il grado di corruzione.

GRAN BRETAGNA MA NON SOLO

Leggi sulla trasparenza della pubblica amministrazione sono state adottate da circa 80 paesi. Il caso più famoso è il “Freedom of Information Act”americano del 1966 (cui i promotori del Foia si ispirano anche nel titolo), ma la prima norma di questo tipo fu introdotta più di duecento anni fa in Svezia. Un esempio emblematico della sua efficacia è la Gran Bretagna, dove il Foia è stato adottato nel 2000. C’è poco da dire: lo scandalo sui rimborsi spese dei parlamentari del 2009 è una conseguenza diretta di quella legge. I cittadini vennero a conoscenza di vari trucchetti usati per gonfiare le spese, alcuni giudicati di gravità tale da spedire i loro autori (sei parlamentari) in prigione. I cittadini ebbero anche modo di riflettere sull’abisso economico e sociale che li separava da alcuni di questi parlamentari, come l’onorevole Douglas Hogg, che si faceva rimborsare a spese del contribuente la pulizia del fossato del suo castelletto (mansion).

TORNANDO ALLE COSE ITALIANE

Pochi paesi fra quelli democratici soffrono l’assenza di trasparenza quanto il nostro, dove gli accordi politici e gli affari avvengono troppo spesso nel chiuso dei palazzi anziché alla luce del sole. Solo pochi giorni fa, Stefano Rodotà denunciava su La Repubblica come una fase di fatto costituente come quella attuale si svolga ancora una volta senza una piena partecipazione dei cittadini e addirittura senza che vi sia consapevolezza diffusa della sua importanza: le proposte di riforma costituzionale sono spesso solo segnali di fumo e merce di scambio fra addetti ai lavori, da parte peraltro di un parlamento che non gode della rappresentatività necessaria per mettere mano al lavoro dei padri fondatori della Repubblica.
Un esempio lampante dei mali della scarsa trasparenza sono le recentissime nomine all’ Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) e all’Autorità garante per la privacy, le quali nonostante l’appello pubblico ad inviare curricula- sono ancora una volta il frutto evidente di un cencelliano accordo preso dai partiti politici fuori dal parlamento.
Esistono comunque controindicazioni alla trasparenza, che vale la pena ricordare. Sicuramente non tutti gli atti della pubblica amministrazione possono essere resi pubblici. Ci sono ragioni di sicurezza nazionale, ad esempio, per le quali è nell’interesse stesso dei cittadini che alcune informazioni non vengano rese pubbliche. È una controindicazione ovvia e difatti tutti i paesi che hanno adottato il Foia hanno incluso la sicurezza nazionale tra i motivi per negare l’accesso a documenti.
Dal punto di vista dell’architettura complessiva dei diritti, naturalmente non ci sfugge il contrasto tra la vigente (e stringente) normativa sulla privacy e il principio di trasparenza e informazione che è implicito nel Foia. È pur vero che ogni norma deve mediare tra diritti e interessi in conflitto: pur non essendo giuristi, ci azzardiamo dunque a suggerire che nel caso dei rapporti tra cittadini e Stato prevalga la trasparenza del Foia, mentre nei rapporti orizzontali tra cittadini dovrebbe prevalere il principio della privacy.
Sarebbe utile peraltro se il Foia trovasse applicazione anche presso enti e associazioni senza fini di lucro, come i partiti politici, i sindacati e le chiese. Applicando un (notevole) sforzo di fantasia, la domanda che sorge spontanea è questa: in presenza di un diritto generale alle informazioni come quello implicito nel Foia, sarebbero mai potuti accadere scandali gravi come quello della gestione “impropria” dei finanziamenti pubblici da parte dei tesorieri Luigi Lusi e Francesco Belsito? E che dire della campagna di diffamazione contro l’ex direttore de L’Avvenire Dino Boffo, che – secondo il libro “Sua Santità” di Gianluigi Nuzzi – sarebbe stata avallata dal direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian? Se un cittadino ha un diritto generale alle informazioni, perché non anche un fedele?

UN PASSO NELLA DIREZIONE GIUSTA

Un’ultima considerazione riguarda l’attuazione del Foia. Occorre stabilire meccanismi precisi di responsabilità in caso di mancato adempimento. Una richiesta di informazioni in qualsiasi formato, compresa una semplice e-mail, deve essere evasa entro un termine dato (diciamo un massimo di venti-trenta giorni); inoltre occorre stabilire precise responsabilità e sanzioni in caso di ritardi, incompletezze, omissioni, eccetera.
Inutile farsi illusioni: il Foia non cambierà magicamente la pubblica amministrazione, mentre dovremo comunque aspettarci resistenze di tutti i tipi, oltretutto favorite dalla lentezza della macchina giudiziaria. Si tratta però di un passo nella giusta direzione che speriamo possa nel medio-lungo termine restringere gli spazi di quella cultura della segretezza che ancora prevale nella nostra società.

UN FINANZIAMENTO DA RIPENSARE

Gli scandali legati al finanziamenti dei partiti non ci sono solo in Italia. E d’altra parte anche un finanziamento solo privato comporta dei rischi, primo fra tutti la “cattura” del legislatore da parte di lobby potenti e danarose. E allora la soluzione migliore è pensare a un sistema fondato su un’Autorità indipendente dal mandato ampio, con meccanismi di controllo più rigidi di quelli attuali, che preveda il rimborso sul numero di voti effettivamente ottenuto da ciascun partito e incentivi le piccole donazioni private.

LA “SFIGA” DI AVERE MENO OPPORTUNITÀ

Il viceministro Martone è balzato agli onori della cronaca per aver definito “sfigati” gli studenti che si laureano a 28 anni. È vero che in Italia esiste il problema della lunga durata degli studi. Ma se si guardano le statistiche, si vede che il percorso verso la laurea si allunga in particolare per gli studenti-lavoratori, per chi proviene da famiglie meno istruite e per chi studia nelle università del Sud. Insomma, una distribuzione delle opportunità asimmetrica nella società e nel territorio del nostro paese. Dichiarazioni provocatorie e discredito delle istituzioni.

LA RIVOLTA NELL’ERA DELLO SHOPPING

Le cause profonde dei disordini nel Regno Unito non sono da individuare nella crisi della convivenza tra diverse etnie. Ma nelle disuguanze sociali, rese più drammatiche dalla crisi economica. È questo il malessere del paese. Che si esprime senza motivazioni politiche con forme di violenza giovanile, con il saccheggio di oggetti di marca. Una rivolta anche contro i furbetti del mondo della finanza che sfrecciano impuniti su auto di lusso.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo i lettori per gli stimolanti commenti e riflessioni. Alcuni hanno invocato la necessità di fare di più contro l’evasione fiscale e gli sprechi, altri hanno proposto di diminuire il cuneo fiscale sui redditi da lavoro oppure aumentare la tassazione dei capitali o dei dividendi degli azionisti e i bonus dei manager. Rispondiamo brevemente su alcuni punti.
Il nostro obiettivo non era quello di una discussione generale sul sistema fiscale, è ovvio che la lotta contro l’evasione fiscale e gli sprechi rimane lo strumento base di un sistema equo ed efficiente. Ci siamo limitati a commentare la proposta del Ministro Brunetta che proponeva di finanziare la misura anti “bamboccioni” attraverso un prelievo intergenerazionale. L’idea è buona e non si tratta di una misura assistenziale: non si può vivere a lungo con i 1700 euro di dotazione di cittadinanza da noi ipotizzati e neppure con i 10.000 che potrebbero risultare dall’investimento in un Child Trust Fund. Inoltre, sta al singolo individuo valorizzare e investire la somma. Che non dovrebbe limitarsi solo a finanziare gli studi. Ad esempio la possibilità di pagarsi un affitto per qualche mese in una nuova città mentre si cerca lavoro potrebbe aiutare diversi giovani a lasciare la casa dei genitori. E’ una dote proprio per valorizzare le “doti” del singolo e per questo non può risolversi con semplici detrazioni fiscali alla famiglia.
Abbiamo argomentato, inoltre, che se si vuol fare redistribuzione intergenerazionale come Brunetta ha sostenuto, la tassa di successione è più equa che un prelievo sulle già misere pensioni di anzianità. Non si tratta di portar via i frutti del lavoro dei genitori, ma semplicemente di renderne più equa la distribuzione. E’ più “giusto” pagare il 30-40% sui frutti del proprio lavoro e nulla (o il 4% oltre un milione di euro) sull’eredità lasciata dai propri genitori?
E’ stato sottolineato, giustamente, che non si danno soldi senza incentivi. Ma qui, per definizione, si tratta comunque di soldi che vengono dati senza incentivi: vale per l’eredità così come per la dote di cittadinanza, che solo sarebbe distribuita diversamente. In una delle frequenti letture assai poco rigorose abbiamo appreso che la figlia tredicenne della cantante Madonna riceverebbe come paghetta 11.000 dollari a settimana. Non sappiamo a quali incentivi la fanciulla sia sottoposta dalla mamma, per cui lasciamo cadere la cosa, ci sembrava comunque un dato simpatico da riportare.
I veri problemi non sono tanto gli incentivi in capo al ricevente quanto piuttosto i disincentivi al risparmio e la possibilità di elusione da parte di chi lascia. Sulla seconda abbiamo purtroppo poco da aggiungere, e sappiamo che non è un problema da poco. Sulla questione degli incentivi al risparmio, però, possiamo aggiungere questo: 
1) le teorie economiche non ci danno previsioni chiare sugli effetti dell’imposta di successione sul risparmio; per quel che ne sappiamo, in teoria, una tassa sull’eredità potrebbe anche incentivare il risparmio;
2) eventuali inefficienze dell’imposta di successione vanno comparate con modalità alternative: a parità di gettito la tassa di successione non è più distorsiva di una tassa sul reddito da lavoro o sulle attività finanziarie, probabilmente lo è di meno;  
3) l’evidenza empirica è altrettanto problematica, per chiari problemi di identificazione: al momento, le stime più attendibili ci dicono che un effetto dell’aliquota marginale sul risparmio probabilmente c’è ma non é molto grande. Resta il fatto che l’imposta di successione gode di scarsa popolarità, o meglio, sembra essere più impopolare delle altre.

UNA DOTE DA PRENDERE SUL SERIO

I 500 euro proposti da Brunetta per combattere il fenomeno dei bamboccioni erano probabilmente solo una provocazione. Però non è sbagliata l’idea di offrire una dote ai neo-maggiorenni. Per pagare gli studi all’università o correggere le imperfezioni del mercato del credito per iniziare un’attività o comprare una casa. Altri paesi già prevedono misure simili. Per importarli anche in Italia occorre però trovare i finanziamenti necessari. Che si potrebbero ricavare agendo sulla tassa di successione sulle eredità più sostanziose.

LE TASSE E QUEL REDDITO SEMPRE PIU’ DISEGUALE

La Cgil ha proposto un’imposta di solidarietà: un aumento di aliquota dal 43 al 48 per cento sui redditi superiori ai 150mila euro. L’extra-gettito servirebbe a finanziare interventi in favore di disoccupati e precari. Misure simili sono già state adottate nel Regno Unito e Stati Uniti. Tuttavia, nel nostro paese non è probabilmente la risposta più appropriata alla crescita delle disuguaglianze perché toccherebbe di fatto solo il lavoro dipendente, senza incidere sull’evasione fiscale. Ma è ora che il problema della distribuzione del reddito torni in primo piano.

L’imposta di successione per un fondo-giovani

Nel 2001 è stata abolita in Italia l’imposta di successione. Portava nelle casse dello Stato circa un miliardo di euro all’anno. Esistono buone ragioni per reintrodurla, vincolandone i proventi all’accrescimento delle opportunità di autodeterminazione dei giovani italiani. Si potrebbe, ad esempio, introdurre un fondo di cittadinanza sul modello del Child Trust Fund britannico. Si tratterebbe di un diritto individuale, che prescinde dalle condizioni economiche della famiglia. Dunque, renderebbe i ragazzi più indipendenti e, forse, più responsabili

L’elettore incanalato

Quale influenza hanno le televisioni sulle scelte di voto? Gli studi in proposito non danno risultati univoci. Ma se il telespettatore medio della Bbc corrisponde alle caratteristiche dell’elettore medio, i dati italiani mostrano invece una correlazione molto robusta fra scelte televisive e scelte di voto. E ciascuna fonte di notizie appare poco credibile a una parte non trascurabile dell’elettorato, che perciò non si espone a opinioni contrastanti. Al di là delle implicazioni elettorali, l’anomalia mediatica italiana sembra impoverire il confronto democratico.

Pagina 2 di 2

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén