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Autore: Massimo Bordignon Pagina 16 di 23

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Si è laureato in Filosofia a Firenze e ha svolto studi di economia nel Regno Unito (MA, Essex; PhD, Warwick). Si occupa prevalentemente di temi di economia pubblica. Ha insegnato nelle Università di Birmingham, Bergamo, Brescia, Venezia e come visiting professor negli USA, in Svezia, Germania e Cina. Attualmente è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l'università Cattolica di Milano, dove ha diretto anche il Dipartimento di Economia e Finanza e la Doctoral School in Public Economics. Ha svolto e svolge tuttora attività di consulenza per enti pubblici nazionali e internazionali ed è stato membro di numerose commissioni governative, compresa la Commissione sulla Finanza Pubblica presso il Ministero del Tesoro nel 2007-8. È attualmente membro dell'European Fiscal Board, un comitato di consulenza del Presidente della Commissione Europea e Vicepresidente esecutivo dell'Osservatorio sui conti pubblici dell'Università Cattolica.

UNA PENITENZA PER CHI MANDA LA SANITÀ IN ROSSO

Oggi sono sostanzialmente i cittadini a pagare quando una Regione viene commissariata per il suo deficit sanitario, attraverso l’incremento automatico dei tributi e delle tariffe regionali. Mentre al governatore vengono addirittura attribuiti poteri speciali. Per incentivare i partiti a scegliere meglio i loro candidati si dovrebbe invece prevedere in questi casi l’interruzione del finanziamento pubblico dei partiti di maggioranza e la sospensione degli emolumenti per il governatore e i componenti della giunta regionale per tutto il periodo del commissariamento.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo tutti i lettori per i loro commenti. Rispondiamo collettivamente. Intanto, un aggiornamento. La settimana scorsa la Grecia ha emesso titoli quinquennali per 8 miliardi di euro; la domanda è stata di 25 miliardi; il rendimento offerto è elevato (6,2%) ma non drammatico (l’Argentina paga il doppio). La capacità del governo greco di emettere agevolmente debito – pur pagando un adeguato premio al rischio – dimostra che i mercati finanziari stanno scommettendo sul fatto che il paese, se necessario, verrà aiutato dagli altri (bail out). Sembra quindi prevalere l’idea che questa sia la scelta più conveniente per gli altri paesi europei, come suggerito nel nostro articolo.
Peraltro, concordiamo con i numerosi lettori (lo dicevamo in conclusione dell’articolo..) che sottolineano la contraddizione tra l’unione monetaria e l’assenza di coordinamento tra le politiche fiscali e macroeconomiche dei paesi membri. In assenza della possibilità di svalutare, occorrerebbe un accentramento delle decisioni in materia di politica fiscale e macroeconomica, per evitare l’accumularsi di forti divergenze tra un paese e l’altro. Per quanto estremamente difficile sul piano politico, questa dovrebbe essere la direzione in cui muoversi nel futuro, se si vuole evitare che problemi simili si ripetano.
Un’altra osservazione giusta è che l’Italia – insieme ad altri paesi quali Spagna e Portogallo – non è messa molto meglio della Grecia, quanto a debito pubblico. Ma è messa meglio in termini di capacità di esportare, il che significa che l’apparato industriale del paese, almeno in parte, ha saputo aggiustarsi ai nuovi vincoli indotti dalla moneta unica. Questo rende più sostenibile il nostro debito pubblico nel lungo periodo. Inoltre, in questa fase i mercati finanziari penalizzando in modo particolare la Grecia, probabilmente per la inaffidabilità dei suoi conti: avere rivisto in modo repentino e vistoso i saldi di finanza pubblica genera incertezza sulla vera entità del risanamento necessario.
Infine, molti lettori osservano, giustamente, che per rimanere nell’area euro la Grecia – così come altri paesi mediterranei – sarà costretta ad attuare politiche assai impopolari. Vero. Ma è anche vero che l’uscita dall’euro spingerebbe quei paesi verso uno “scenario argentino”, fatto di insolvenza, svalutazione, inflazione, tassi d’interesse elevati, ecc. Qual è il male minore?

Perché la Grecia non può fallire

Occhi ancora puntati sulla Grecia, soprattutto per gli effetti che la gestione del caso potrebbe avere sul destino futuro e la governance della moneta unica europea. Un intervento di sostegno al paese potrebbe avere effetti negativi sulla credibilità dell’unione monetaria. Ma i costi del non intervento sarebbero ancora più alti. Resta il problema di come evitare che simili eventi si ripetano in futuro. Più in generale è sostenibile un’unione monetaria in cui i paesi membri continuano a essere sostanzialmente sovrani sul piano fiscale?

CHE PAGELLA, MINISTRO BONDI!

Il ministro per i beni e le attività culturali, l’onorevole Sandro Bondi, nella puntata di Porta a Porta del 11.1.2010, ha sostenuto che la riforma fiscale proposta dal governo, tesa a spostare il carico fiscale dalle imposte dirette a quelle indirette, dai redditi ai consumi, è una misura di equità sociale, perché "significa imporre maggiori tasse sulle classi sociali più elevate, più ricche, che consumano di più". Ma ministro, avrebbe replicato qualunque prof delle medie, ciò significa confondere una variazione assoluta con una relativa, è un errore da quattro in pagella! I ricchi possono ben consumare di più dei poveri, ma se si sposta il carico fiscale da un’imposta progressiva ad una proporzionale la cui aliquota media è inferiore a quella che ora pagano i ricchi, l’effetto è regressivo, non progressivo. E’ per l’appunto il caso nostro, visto che l’aliquota più elevata Irpef è al 43 per cento (dopo i 75.000 euro di imponibile) mentre l’aliquota dell’Iva è al massimo e per la maggior parte dei beni al 20 per cento. Non solo, ma se i ricchi risparmiano più dei poveri, i risparmi non sono tassati o sono tassati meno dei consumi (di nuovo il caso nostro) allora un’imposta su consumi ad aliquota uniforme è per forza regressiva. Esempio. Prendiamo un tizio A che guadagna 1000 euro al mese; verosimilmente spenderà tutto il suo reddito, e se l’aliquota media sui consumi è al 20 per cento, pagherà dunque 200 euro al mese di imposte. Prendiamone ora un altro B che ne guadagna 5000, e supponiamo che ne spenda 4000 e ne risparmi 1000. Questo pagherà dunque di imposte 800 euro al mese. Ma se i risparmi non sono tassati, l’aliquota media sul reddito del primo è del 20 per cento mentre quella del secondo è del 16 per cento; l’imposta è regressiva, l’aliquota media decresce al crescere del reddito. Certo, questo non è necessario, dipende anche da cosa consumano ricchi e poveri e da come sono tassati i diversi panieri di consumo. Per dire, se i 1000 euro di A vanno tutti in beni alimentari, mentre i 4000 di B vanno per 1500 in beni alimentari e per 2500 in beni di lusso, potremmo ottenere un’imposta progressiva tassando, per esempio, al 6 per cento i beni alimentari e al 34 per cento i beni di lusso; il gettito per lo stato sarebbe lo stesso che con un’aliquota uniforme del 20 per cento, ma il povero avrebbe un’aliquota media sul reddito del 6 per cento e il ricco del 19 per cento. Occorre però ricordare che l’Iva ha dei vincoli comunitari: vi è un’aliquota normale (in Italia il 20 per cento), una o due aliquote ridotte (in Italia 4 per cento e 10 per cento) su un paniere definito e non modificabile di beni primari, non vi sono aliquote maggiorate sui beni di lusso. Dunque, tralasciando altre considerazioni, inclusi i problemi di evasione e incentivo, un passaggio dall’Irpef all’Iva per forza ridurrebbe la progressività del sistema tributario.

LA GRANDE ATTESA PER LA GRANDE RIFORMA FISCALE

Il ministro del Tesoro ha annunciato tra gli obiettivi del prossimo anno il rilancio di una grande riforma fiscale che superi la logica dei “rattoppi” degli ultimi anni. Benissimo. Non c’è dubbio che il sistema tributario italiano avrebbe bisogno di una seria e ponderata revisione. Non solo incombe una riforma in senso federale che deve essere ben meditata anche per evitare ulteriori incrementi nella pressione tributaria. Ma questa, oltre che già elevata, è soprattutto mal distribuita. Il prelievo si concentra infatti quasi esclusivamente su pochi cespiti e pochi contribuenti. Tartassiamo i fattori produttivi, lavoro e capitale, e tassiamo troppo poco patrimoni e rendite. L’opposto di quello che dovrebbe fare un paese che ha seri problemi di crescita e ancor più seri problemi di equità. Sempre di più, l’Italia è un paese dove chi nasce ricco resta ricco, mentre chi vuole legittimamente e legalmente arricchirsi con i frutti del proprio impegno e del proprio lavoro non ha la possibilità di farlo. Ma è importante che il ministro si ricordi che la principale riforma necessaria in Italia è la lotta all’evasione e a tutte le forme presenti nel nostro sistema fiscale di elusione e erosione. Non è possibile immaginare che si possa costruire un sistema fiscale più giusto e efficiente finché tra il 50 e il 75%, a secondo delle stime, dei redditi da lavoro autonomo, piccola impresa e liberi professionisti risulta nascosto al fisco. Non è possibile continuare a tollerare che il 50% delle imprese italiane risulti permanentemente in perdita o che il numero dei contribuenti che dichiarano più di 100.000 euro all’anno sia minore del numero delle automobili immatricolate che costano più di quella cifra. Lo stesso sbandierato successo dello scudo (capitali rientrati a consuntivo pari a quasi il 10% del PIL) da un’idea dell’enormità del fenomeno in Italia. Va anche sottolineato che finora i provvedimenti del governo in campo tributario, tra condoni, riduzione dei controlli sui redditi da lavoro autonomo e abolizione dell’Ici, non sono particolarmente incoraggianti. Ma aspettiamo le nuove proposte per discuterne.

EVASORI, ARRIVA BABBO NATALE!

Come era da attendersi, il governo ha deciso la proroga dello scudo fiscale. Chi non ha ancora provveduto a rimpatriare i capitali detenuti illegalmente all’estero potrà ora farlo, con un modico sovrapprezzo, il 6%, invece del 5%, se ci si adeguerà entro febbraio, e il 7%, se lo farà entro marzo. Ed  è facile ipotizzare che se ce ne sarà ancora bisogno per perseguire la strategia del governo, lo scudo verrà prorogato ancora, magari con qualche altro ritocco. Il ministro Tremonti ha presentato i risultati della prima tranche dello scudo come uno straordinario successo, circa 80 miliardi rientrati, per un gettito addizionale di 4 miliardi. In che senso sia stato un successo però non si capisce. Che i capitali siano rientrati davvero e che vadano a finanziare le imprese italiane è tutto da dimostrare, visto che il rientro vero era previsto solo per i capitali detenuti presso i paradisi fiscali. Che viceversa sia stato uno straordinario regalo per gli evasori, oltretutto protetti dall’anonimato è indubbio, come è indubbio il fatto che le maggiori entrate attuali vanno a detrimento di quelle future, visto che per i redditi scudati il fisco non potrà procedere con la normale attività di accertamento, che avrebbe potuto condurre domani a entrate ben maggiori. Di più, i condoni sono in genere pericolosi perché generano aspettative di futuri condoni, aumentando la propensione ad evadere al presente. Figuriamoci un condono a fisarmonica come questo, dove prima si pone un limite improrogabile, e poi lo si sposta a piacimento, oltretutto facendo intendere che se ci sarà bisogno lo si sposterà ancora. E’ un fisco che tratta con i guanti bianchi gli evasori. E che incredibilmente, con buona pace dell’equità fiscale,  fa invece la faccia feroce con quei contribuenti che avendo dichiarato l’imponibile, usano il ravvedimento operoso per spostare in avanti il pagamento delle imposte, in una situazione di crisi economica e carenza di liquidità. Ma qual è il senso di questa politica tributaria?

FUORI DAL PANTANO DELL’IRAP

L’Irap è un’imposta sostanzialmente corretta sotto il profilo economico, ma profondamente odiata dai contribuenti. Va dunque migliorata. E forse in parte sostituita. Se possibile all’interno di una più vasta riforma del sistema tributario italiano. Ma certo senza abbandonarsi a improvvisazioni e studiando seriamente gli effetti dei diversi possibili provvedimenti. Se l’obiettivo è invece sostenere l’economia, sono possibili altri interventi congiunturali di maggiore efficacia.

LA SANITÀ DI SACCONI

Da mesi le Regioni si rifiutano di partecipare alle varie Conferenze Stato-Regioni e cercano affannosamente, e finora senza successo, un incontro risolutore con il Presidente del Consiglio. Il principale tema del contendere è il finanziamento della sanità per il prossimo biennio, che le Regioni considerano del tutto insufficiente. E infatti gli studiosi si aspettano che tutte le Regioni, e non solo quelle più inefficienti, finiranno con i conti in rosso il prossimo anno. Si osservi inoltre che a causa del blocco delle addizionali Irpef e Irap decretato dal governo, le Regioni non possono più contare su strumenti tributari propri per far fronte alle emergenze, nonostante i continui annunci di federalismo fiscale. Eppure, il Ministro Sacconi ha detto pubblicamente, alla trasmissione Ballarò di martedì scorso, che la posizione delle Regioni è sbagliata perché il governo ha invece aumentato il finanziamento della sanità di ben 3,5 miliardi nel biennio, sfidando anche il pubblico a controllare le cifre. Che succede allora? Di che si lamentano i Presidenti delle Regioni? La tabella aiuta a fare chiarezza. Sacconi non mente sulle cifre del sistema sanitario, ma cita solo i dati che gli convengono, dimenticandone altri che viceversa sono più importanti. Come si osserva dalla tabella, è vero che il finanziamento di "base" – escludendo cioè manovre e ulteriori finanziamenti – cresce di 3,5 miliardi nel biennio; ma quello "effettivo", cioè quello che davvero importa per i bilanci delle regioni, cresce solo di 0,471 miliardi nel 2010 e di 2,1 miliardi nel 2011. La ragione è che nel 2010 vengono meno i 434 milioni destinati alla seconda tranche di finanziamento per l’abolizione dei ticket (ticket che formalmente rientrano nella sovranità delle Regioni, ma che l’ultimo governo di centro sinistra ha abolito, compensando in misura insufficiente le regioni, e che il governo di centro destra ha deciso di non compensare affatto) e gli 800 milioni di risparmi sulla spesa farmaceutica (il risultato di un’azione fortemente voluta dalle Regioni, le quali contavano di destinare le economie ai nuovi farmaci, in particolare oncologici) che verranno invece trattenuti e utilizzati dallo Stato. Difficile dunque dare ragione a Sacconi.

L’IMBIANCHINO DI SACCONI

Nel suo recente intervento alla riunione dei giovani industriali, il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, ha invitato i giovani ad accettare anche i lavori più umili, come l’imbianchino, piuttosto che inseguire una formazione fatiscente, come le lauree in scienze della formazione. Se l’obiettivo fosse solo quello di riconoscere dignità anche all’imbianchino, o ai lavori manuali in generale, nulla da dire. Ma l’intervento racchiude anche un sottile messaggio ideologico, che ben si inserisce nell’offensiva culturale più generale portata avanti dall’attuale governo. È un’offensiva che tende a riproporre il “buon tempo antico” come la soluzione dei problemi italiani odierni, crisi globale inclusa, e che trova orecchie interessate in una parte della società italiana, come gli industriali. Che difatti, dicono i resoconti della stampa, si sono spellati le mani per applaudire il ministro.
Il messaggio è semplice. Basta con questi giovani che vogliono lavorare nella finanza o nell’industria culturale. Torniamo invece alla fabbrica e al duro lavoro nella manifattura, e tutto andrà come prima, come al tempo del mitico miracolo italiano. Insomma, come recitava una canzone, anch’essa dei bei tempi andati, il problema italiano è oggi più che mai che “anche l’operaio vuole il figlio dottore”. Facesse l’operaio, invece, saremmo a posto.
Ahimé, nulla di più falso. Intanto, la scuola e l’università italiana ripresentano imperterrite le disuguaglianze sociali pre-esistenti, invece di correggerle come dovrebbero. Il numero dei diplomati e laureati italiani poi è ancora nettamente inferiore alla media europea; e il divario di competenze degli studenti italiani rispetto alla media dei paesi sviluppati è, soprattutto in alcune zone del Paese, abissale. La bassa qualità del capitale umano italiano è al contempo causa ed effetto del circuito perverso di bassa produttività e bassi salari in cui l’Italia pare si sia adagiata negli ultimi anni. La terza media è probabilmente sufficiente se si tratta di operare un tornio o far girare una macchina. Non lo è se si devono produrre quei servizi a sostegno della moderna industria che ne rappresentano buona parte del valore aggiunto. A Sacconi e a chi l’applaude andrebbe ricordato che grazie ad alcune circostanze favorevoli si può diventare ricchi anche essendo ignoranti. È difficile però che si resti ricchi, se si rimane ignoranti, quando quelle condizioni mutano.

COSA CI SARÀ DOPO LA CRISI

E’ la peggiore crisi dagli anni Trenta. Ma è utile guardare più lontano nel tempo, per capire le possibilità del nostro paese, che oltretutto ha beneficiato meno della crescita precedente. Aumenteranno disavanzi e debiti pubblici, in particolare nei paesi avanzati. Si ridurrà la domanda Usa ed è illusorio contare sulla Cina per riavviare un modello fondato sulle esportazioni. Servirebbero una politica fiscale sempre più europea e riforme strutturali. Difficili da realizzare. Ma l’alternativa è una progressiva emarginazione dell’Europa. E dell’Italia.

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