Lavoce.info

Autore: Francesco Daveri Pagina 21 di 28

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È stato Professor of Macroeconomic Practice alla School of Management dell'Università Bocconi, dove insegnava Macroeconomics, Global Scenarios ed è stato direttore del Full-Time MBA. Ha insegnato in varie università come l’Università Cattolica (sede di Piacenza), Parma, Brescia, Monaco e Lugano. Ha svolto attività di consulenza presso il Ministero dell’Economia, la World Bank, la Commissione Europea e il Parlamento Europeo. Le sue ricerche si sono concentrate sulla relazione tra le riforme economiche, l’adozione delle nuove tecnologie e l’andamento della produttività aziendale e settoriale in Italia, Europa e Stati Uniti. Ha collaborato con il Corriere della Sera e ha fatto parte del comitato di redazione de lavoce.info, di cui è stato Managing editor dal 2014 al 2020. Scomparso il 29 dicembre 2021.

La risposta ai commenti

Ringraziamo tutti i lettori per i loro commenti.
L’’idea che ha ci ha spinto a scrivere l’’articolo era quella di spostare il dibattito dal potere d’acquisto dei salari alla causa principale dei bassi salari e del loro potere d’acquisto: la produttività del lavoro. Lo spunto ci è stato fornito dallo studio pubblicato da Ires-Cgil lo scorso 27 settembre. Non era, e non è, nostra intenzione quella di attaccare la Cgil per partito preso (come ipotizzato da qualche lettore), ma piuttosto volevamo mostrare che, utilizzando i dati Istat cioè quegli stessi dati utilizzati dall’’Ires prima della loro correzione per i lavoratori irregolari, viene fuori un risultato diverso da quello dell’’Ires, cioè che il salario dei lavoratori italiani era aumentato (e non diminuito) in termini reali tra il 2000 e il 2009.
L’’Ires, nei suoi complessi calcoli, tiene in considerazione la componente irregolare di lavoro nel calcolare i salari. Noi non lo facciamo. In questo modo possiamo coerentemente parlare dei dati sulla produttività (che allo stesso modo escludono la componente irregolare) e soprattutto perché l’’Istat non fornisce più la serie aggiornata dei dati corretti per la componente irregolare. Nei suoi calcoli, inoltre, l’’Ires calcola il drenaggio fiscale (noi non lo abbiamo fatto). Può valer la pena di ricordare che il drenaggio fiscale non misura l’’aumento delle imposte in generale, ma solo quell’’aumento delle tasse che deriva dall’’inflazione in un sistema di tassazione progressiva. L’’inflazione infatti “gonfia” i nostri redditi in euro (non abbastanza secondo alcuni dei nostri lettori, ma lo fa), il che ci fa scattare automaticamente su uno scaglione di reddito più alto senza che siamo diventati davvero più ricchi. L’’aumento delle entrate fiscali derivante da queste effetto “palloncino” è il drenaggio fiscale.
La produttività del lavoro in aggregato si calcola, in modo inevitabilmente un po’’ impreciso, dividendo un indicatore di prodotto in termini monetari (come il valore aggiunto, cioè la somma dei redditi da lavoro e di quelli da capitale d’’impresa) per un indicatore di impiego del lavoro, che può essere il numero delle ore lavorate, il numero degli addetti o il numero delle ULA. L’’utilizzo delle ULA (Unità di Lavorativa equivalente a tempo pieno) permette di prendere in considerazione una misura di lavoro standard depurandola per le componenti di lavoro atipico standardizzando il numero di ore lavorate. Si tratta quindi di un “addetto medio” che prende in considerazione la creazione di posti di lavoro precari negli ultimi anni uniformando lavoratori a tempo indeterminato a tempo pieno, part-time e atipici.
Molti lettori hanno criticato l’’utilizzo dell’’indice dei prezzi al consumo Istat per calcolare il salario reale. Qualche anno fa uno di noi (FD, in un commento su questo sito intitolato “Io sto con le casalinghe”) dichiarava di condividere la percezione dei lavoratori dipendenti medi e delle loro famiglie che, in corrispondenza dell’’avvento dell’’euro, si erano sentiti più poveri. Ora siamo un po’’ più cauti. E’ probabile e legittimo che molte delle famiglie – quando vanno al ristorante e a fare la spesa al supermercato – abbiano in questi anni percepito un aumento dei prezzi maggiore di quello rilevato dall’’Istat. Ma è anche vero che i consumi su cui viene fatto questo ragionamento riguardano gli acquisti che l’’Istat chiama “ad alta frequenza”. Ci sono però anche tanti beni che compriamo meno spesso (ad esempio, i prodotti dell’’elettronica di consumo) i cui prezzi sono diminuiti notevolmente in questi anni e che l’’Istat contabilizza correttamente nell’’indice dei prezzi del consumo. Quando pensiamo all’’inflazione dovremmo guardare all’’intero paniere di beni, non solo a quelli che siamo più abituati a comprare. Il paniere Istat coglie questo fenomeno: rileva il prezzo di molte migliaia di beni, rivede frequentemente la composizione del paniere – anzi dei vari panieri – che usa per misurare le variazioni del costo della vita. E’ vero: fa fatica, come tutti gli uffici statistici di tutto il mondo, a stare dietro ai mutamenti di qualità dei beni e all’’introduzione di nuovi beni e servizi; in più misura il costo delle abitazioni in termini di affitti e non di prezzi delle case. Ma tutto considerato il suo indice è una buona rappresentazione della spesa media degli Italiani.
Condividiamo le preoccupazioni di chi, replicando i nostri calcoli, vede la propria pensione in termini reali pressoché costante e di chi denuncia l’’importanza del fiscal drag e l’’incidenza delle imposte locali. Nel nostro articolo non ci siamo dedicati a questi argomenti nello specifico, ma spesso su queste pagine si discute dei modi per ovviare a queste storture.

Si guadagna poco, ma non è colpa dell’inflazione

Secondo l’Ires-Cgil negli ultimi dieci anni i lavoratori italiani hanno perso 5.500 euro per colpa dell’inflazione. Nostri calcoli dicono che non è andata così. Anzi, il potere d’acquisto dei lavoratori è oggi leggermente aumentato rispetto a quello di dieci anni fa. Questo non cancella il fatto che in Italia esista una questione salariale. Ma i bassi salari non sono colpa dell’inflazione, bensì della bassa produttività. Ed è questo il problema che si dovrebbe pensare a risolvere.

la crisi: numeri, previsione e media

In allegato la presentazione tenutasi, il 15 settembre 2010, al convegno a porte chiuse per i sostenitori de lavoce.info

Ma quando comincia la lotta all’evasione?

Nei mesi scorsi avevamo capito che fosse in cantiere un cambiamento epocale di finanza pubblica. Il governo ha dichiarato che avrebbe finalmente fatto la faccia dura contro l’’evasione. Ha poi fatto seguire i fatti alle parole e ha approvato provvedimenti che in futuro dovrebbero portarci a migliorare i risultati su questo fronte. Siamo qui in trepida attesa. Intanto mese dopo mese, si accumulano i dati sulle entrate dello Stato che –(come minimo)– segnalano la necessità che questa svolta diventi operativa presto. Dal Bollettino della Banca d’Italia di metà settembre si legge: “Le entrate tributarie nei primi sette mesi dell’anno sono state pari a 210,374 miliardi di euro, 7,411 miliardi in meno rispetto al periodo gennaio-luglio del 2009, quando sono arrivate a 217,785 miliardi. In termini percentuali, la riduzione è del 3,4 per cento”. Se si guarda solo alle entrate tributarie, –la voce più facilmente misurabile e che risente meno di minori o maggiori voci straordinarie che sono invece contabilizzate nella voce “”Altre entrate””,– le cose vanno anche peggio. Facendo le somme, viene fuori che sono stati persi 11,3 miliardi di euro di entrate nei primi sette mesi del 2010 rispetto agli stessi mesi del 2009. Dato che le entrate tributarie del periodo gennaio-luglio 2009 erano 210 miliardi, vuol dire che le entrate tributarie sono scese di 5.4 punti percentuali. Nel frattempo nello stesso periodo il Pil a prezzi correnti aumentava di circa 2.5 punti percentuali (+1 per cento circa il Pil reale e +1.5 per cento l’’inflazione). Aumenta il Pil, scendono le entrate tributarie. Ah è vero, sarà perché il governo ha tagliato le tasse come aveva promesso. Beh, veramente no, tagli e riforme fiscali sono argomenti per le chiacchiere estive, mica li si fanno veramente. Verrebbe da dire che se il ministro dell’’Economia occupasse una parte più consistente del suo tempo a far arrivare i soldi nelle casse dello Stato anziché andare per sagre di partito a discettare della sicurezza sul lavoro, darebbe un bel contributo a –- come dice lui – “mettere i conti in sicurezza”.

Oltre il meno zero virgola tre

Nuove stime dell’Ocse indicano una crescita zero per l’Italia nel secondo semestre 2010. Le previsioni possono anche essere sbagliate, ma rimane il fatto che durante la crisi il Prodotto interno lordo trimestrale del nostro paese è sceso da 323 a 301 miliardi di euro, per poi risalire a 304 dopo un anno di “ripresa”. Di questo passo, ci vorranno cinque anni per ritornare ai livelli precedenti alla crisi.

Come va l’economia: notizie sparse di inizio Agosto

Capire cosa succede all’’economia di un paese è complicato. Ma di certo non si può affermare, come hanno fatto di nuovo i media nei giorni scorsi, che la produzione industriale e il Prodotto interno lordo sono ai massimi quando i dati dicono che siamo ancora lontani dai livelli pre-crisi. E non si può guardare al superindice Ocse solo quando dà buone notizie.

G20: o la botte piena o la moglie ubriaca

I Grandi ci raccontano che al G20 di Toronto hanno messo le basi per il ritorno ad una crescita economica più rapida e meno rischiosa. Non è così. Bisognerà scegliere: se vogliamo un ritorno più rapido alla crescita, dobbiamo accettare la finanza non regolata e quindi convivere con il rischio di nuove crisi. Se non ci piacciono le crisi, dobbiamo regolare o tassare la finanza e accettare la minore crescita media che l’aumentato costo del credito comporterà.

Chi vince e chi perde con l’euro debole

La grave instabilità all’interno dell’Unione Europea si è tradotta in un drastico indebolimento della moneta unica. Mentre l’eccessivo indebitamento degli Stati rischia di riportarci indietro a Lehman Brothers. Ma, se l’Unione si salva, un euro deprezzato finirà per aiutare la ripresa e rinforzare la competitività dell’azienda Italia nei settori con maggiore intensità di lavoro. Una buona notizia non solo per i bilanci delle aziende, ma anche per i nostri due milioni di disoccupati.

La strada stretta dei tagli di bilancio in Europa

La febbre dei tagli di bilancio si sta diffondendo rapidamente in tutti i paesi europei. E’ un esperimento politico-sociale senza precedenti: l’Europa nel suo complesso riduce la spesa pubblica anche a fini sociali. Ma se i tagli di oggi non si traducono in riforme strutturali avranno solo effetti temporanei sulla spesa. Se invece diventano riforme strutturali, potrebbero essere meno recessivi di quanto temuto.

La favola del Pil dopato dei tedeschi

Per giustificare la debole crescita italiana si ricorre addirittura all’ipotesi che l’Istat tedesca abbia tenuto bassi i dati dell’inflazione per dopare il Pil tedesco. E’ un evento molto improbabile. In un mondo ancora poco globale non è così strano che i prezzi siano aumentati di più in Italia che in Germania per un lungo periodo di tempo. Rassegniamoci all’idea che cambiare il metodo di misurazione non è una soluzione al problema della crescita.

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