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Autore: Bruno Dente

PA: TAGLIATORI DI TESTE CERCANSI

Dalla fase 2 del governo Monti è lecito aspettarsi il rilancio di un dibattito serio sulle riforme delle pubbliche amministrazioni. Perché a conclusione delle spending review si dovrà affrontare una serie molto ampia di ristrutturazioni aziendali in modo da ridurre i costi fissi e migliorare l’efficienza complessiva del sistema. Si presenterà allora il problema di che fare del personale in eccesso. E serviranno previsioni normative e contrattuali finora del tutto assenti. Ma non basta: dovrà trovare spazio anche nel pubblico impiego la figura del tagliatore di teste.

PASSAGGIO AL BUIO

Con la manovra finanziaria appena varata si dà alle università la possibilità di trasformarsi in fondazioni di diritto privato con una semplice delibera del senato accademico assunta a maggioranza assoluta. Si tratta di una riforma potenzialmente molto importante, che rompe l’insensata uniformità del nostro sistema universitario e consente il dispiegarsi di una maggiore autonomia. Ma servono chiarimenti su punti fondamentali come le condizioni minime per il passaggio, i più ampi gradi di libertà così garantiti e il mantenimento dei livelli di finanziamento.

ABOLIAMO I MINISTERI

La Finanziaria approvata dal Senato ripristina la legge Bassanini e riporta a dodici il numero dei dicasteri. Ma modificare la struttura dell’amministrazione ha un costo, soprattutto perché la costruzione di organizzazioni efficaci ed efficienti è un processo lungo e faticoso. Va perciò evitato il ripetersi di trasformazioni dettate da contingenze politiche. La soluzione migliore potrebbe essere l’abolizione dei ministeri come organi di amministrazione attiva, trasformandoli in piccole organizzazioni di supporto all’attività dei ministri.

Più pubblica o più privata?

Di pubblica amministrazione si è tornati a parlare. E questo è un bene, dal momento che gli ultimi cinque anni hanno visto un po’ l’eclissi del tema (ai Giannini, Cassese e Bassanini sono succeduti i Mazzella e i Baccini che certo non hanno lasciato tracce significative nell’opinione pubblica).
E tuttavia i modi in cui se ne è tornati a parlare sono deludenti, non solo per il merito delle proposte avanzate, quanto soprattutto per il fatto che sembrano ignorare, forse volutamente, il dibattito scientifico sviluppato a livello internazionale e tutto sommato anche l’esperienza italiana. Si può pensare tutto il male possibile del New Public Management e del dibattito sulla governance, per non parlare delle iniziative dell’Oecd. Ma, almeno, bisognerebbe tenere conto della direzione in cui sta andando la riflessione.

L’inefficienza non è generalizzata

Un primo esempio, ampliando le riflessioni già avanzate dal gruppo di lavoro Sisper, riguarda la questione dell’efficienza della Pa. Siamo sicuri che essa sia così bassa in modo generalizzato? Molti dati sembrano suggerire il contrario. L’esempio dell’indagine Pisa è da questo punto di vista eclatante: i livelli di apprendimento degli studenti italiani sono sì bassi, ma sono soprattutto estremamente differenziati tra un Centro e un Nord nei quali appaiono assolutamente in linea con le medie europee, e un Sud in cui sono molto al di sotto. Poiché il rapporto di lavoro degli insegnanti, il loro sistema di incentivi, le garanzie di cui godono, sono uniformi a livello nazionale sorge il sospetto che le strategie di riforma proposte da Pietro Ichino , e forse anche da Tito Boeri e Giuseppe Pisauro (ma qui il discorso sarebbe più lungo) siano inadeguate, proprio perché non tengono conto dei fattori che quei dislivelli generano. E lo stesso vale per l’università (si vedano i dati sulla valutazione studentesca o la analisi dell’employability fatta da Alma Laurea), per la sanità (dove la valutazione è sistematicamente più alta tra gli utenti che nella cittadinanza), per moltissimi servizi locali. E si potrebbe continuare con molti altri esempi.
Ciò non significa che non siano possibili recuperi di produttività, sarebbe demenziale affermarlo. E nemmeno che essi non potrebbero avere benefici effetti sulla spesa pubblica, ma le soluzioni proposte non sembrano in grado nemmeno di scalfire il problema.

La domanda da porsi

In realtà, la domanda che bisognerebbe porsi è la seguente: le pubbliche amministrazioni “non funzionano” perché a esse si applicano regole diverse da quelle con cui operano le organizzazioni private, oppure perché la sostanziale differenza delle missioni e dei contesti richiederebbe regole ancora più differenti? Come tutte le buone domande, non ha una risposta né semplice né ovvia, tanto è vero che grandissimi studiosi – per tutti: Sabino Cassese – hanno anche recentemente sostenuto che l’applicazione dei principi di totale flessibilità al rapporto di lavoro dei manager pubblici configge con l’imparzialità e il buon andamento previsti dalla Costituzione.
E tuttavia la strada seguita negli anni “di Bassanini” in Italia, e in buona parte dei paesi occidentali almeno a partire dal 1980, è andata nella direzione opposta, nel tentativo di uniformare le regole tra settore pubblico e settore privato, per quanto attiene al rapporto di lavoro e al funzionamento dell’organizzazione. Così ad esempio la non indipendenza degli organi di controllo interno, lamentata da Ichino e Paderni, non è una mancata attuazione del decreto 286/1999, ma costituisce un obiettivo esplicitamente perseguito, proprio per riportare l’attività di analisi della performance, il controllo di gestione e la valutazione dei dirigenti, al loro significato “normale” in tutte le organizzazioni “normali”: quello di essere strumenti nelle mani dei dirigenti per lo svolgimento delle loro normali attività. Il tutto basato sull’osservazione, abbastanza naturale dopo Tangentopoli, che più di cento anni di controlli esterni indipendenti non sembravano essere stati particolarmente efficaci né nell’impedire fenomeni degenerativi, né nell’assicurare un’efficienza media accettabile. E che, se il settore privato è più efficiente di quello pubblico, forse ciò avviene anche perché le regole sulla base delle quali esso funziona sono più adeguate.

Condizioni necessarie

Ovviamente questa scuola di pensiero, dominante in tutti i paesi sviluppati, ritiene che la rimozione dei vincoli (la contrattualizzazione dei dipendenti, l’omogeneizzazione dell’orario di lavoro, l’abolizione dei controlli esterni, l’uso generalizzato degli strumenti del diritto privato, la separazione organizzativa tra attività di indirizzo e attività di gestione, la piena assimilazione delle modalità di nomina dei vertici amministrativi a quelle dei top manager privati, eccetera) non è condizione sufficiente per il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia. Se politici, funzionari e clienti sono d’accordo nel non spingere in questa direzione, c’è ben poco che si possa fare per legge. Tuttavia, chi scrive riteneva allora e continua a ritenere, con il conforto di qualche osservazione empirica, che era ed è l’impostazione corretta, e che abbia consentito, nei molti luoghi delle pubbliche amministrazioni italiane dove c’erano la volontà e le risorse per farlo, di migliorare significativamente efficienza ed efficacia dei servizi, soprattutto attraverso la migliore trasparenza delle responsabilità per successi e fallimenti. In altre parole, si trattava di condizioni necessarie per consentire il dispiegamento delle potenzialità presenti nei sistemi.
Altro discorso ovviamente è se questo disegno sia stato perseguito con la necessaria coerenza, se siano state messe in campo le azioni necessarie per intervenire nei punti di crisi, se le persone preposte a tutti i livelli siano state all’altezza delle nuove responsabilità attribuite, eccetera.
Però in quegli anni abbiamo imparato due cose: che non esiste “la pubblica amministrazione”, ma tanti diversi servizi pubblici con diverse esigenze e condizioni di contesto, e che i principi prevalenti a livello internazionale sono applicabili anche in Italia. Dispiace un po’ che tali fondamentali insegnamenti corrano il rischio di andare perduti.

Costituzione, dove cambiarla

Le riforme utili e necessarie sono quelle che adeguano le istituzioni alle circostanze esterne, non quelle che cercano di forzare in una qualche direzione lo sviluppo della società politica e delle istituzioni. Il decentramento e il federalismo sono tendenze generalizzate in tutti i paesi occidentali. La trasformazione della pubblica amministrazione anche. L’Unione Europea pure. Ma con tutti questi temi, la riforma costituzionale non fa i conti. Come dimostrano le scelte pericolose e inefficaci su premierato e Senato federale.

Falsa partenza istituzionale

Un decreto legge approvato dal primo Consiglio dei ministri ha creato quattro nuovi ministeri e modificato sostanzialmente le competenze di altri. Sotto il profilo istituzionale non poteva esserci inizio peggiore. Governare non vuol dire solo fare leggi, ma assicurare continuità e coerenza a un insieme di attività svolte dallo Stato e da altri soggetti che contribuiscono ad affrontare e possibilmente risolvere un problema collettivo. Liberarsi delle regole non aumenta il margine di manovra di chi occupa posizioni di potere. Anzi, lo espone a ogni forma di pressione.

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