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Autore: Alessandro Rosina Pagina 5 di 6

rosina Alessandro Rosina è professore è ordinario di Demografia e Statistica sociale alla Facoltà di Economia dell'Università Cattolica di Milano, dove dirige il "Center for Applied Statistics in Business and Economics". E’, inoltre, Consigliere esperto del CNEL, coordinatore scientifico dell’”Osservatorio giovani” dell’Istituto Toniolo, co-coordinatore di Alleanza per l'Infanzia, membro del comitato di direzione di Osservatorio senior e di Futura Network (ASviS).

I GIOVANI E LA LEZIONE AMERICANA*

Le elezioni americane hanno premiato la forza e il coraggio del cambiamento, due qualità che scarseggiano nel nostro Paese. Le spinte maggiori verso il cambiamento arrivano dalle nuove generazioni. Non per nulla Walter Benjamin definì la gioventù, per la sua naturale tensione innovatrice, come il “centro in cui nasce il nuovo”. Il giovane non ha interessi costituiti che lo vincolano a seguire una direzione piuttosto che un’altra e può dunque più facilmente orientare la propria sensibilità verso i nuovi problemi della comunità. Quando, in particolare, nasce l’esigenza di cambiare, il maggior sostegno proviene generalmente proprio dalle nuove generazioni.
Non può quindi meravigliare il fatto che due giovani americani su tre abbiano votato per Obama, come risulta dai dati degli exit pool riportati con ampia evidenza sui giornali d’oltreoceano. La preferenza nei suoi confronti diventa ancor più forte al diminuire dell’età, fino a superare il 70% tra chi ha votato per la prima volta. Una bella spinta quella data dalle nuove generazioni per il successo del candidato democratico nato negli anni sessanta, anche perché negli States i giovani hanno un peso consistente. Gli americani sotto la soglia dei 35 anni costituiscono il 47% della popolazione, mentre sono appena il 38% in Italia. Secondo le previsioni dell’U.S. Census Bureau da qui al 2020 tale quota rimarrà sostanzialmente stabile negli USA, mentre scenderà a poco più di uno su tre nel nostro Paese (immigrati compresi). Il peso degli under 35 sul totale dell’elettorato è di oltre il 30% negli States mentre arriva a malapena al 25% in Italia ed è destinato ulteriormente a scendere al 21,5% (www.demo.istat.it).
Questi dati non significano certo che "we can’t change", suggeriscono però che da noi il cambiamento è destinato ad avere vita più dura, data la minor consistenza demografica delle forze che per propria natura sono più aperte al nuovo. La forza (nei numeri) più ridotta richiederebbe allora d’essere compensata da un maggior coraggio. Meno difesa delle posizioni raggiunte da parte delle vecchie generazioni, meno cooptazione, più disponibilità a confrontarsi e ad essere messi in discussione. Ma richiede più coraggio anche da parte delle nuove generazioni nel guadagnare il proprio spazio. Obama è arrivato dal nulla e ha scalato i vertici della politica americana metro dopo metro, senza timori reverenziali verso nessuno. I Clinton e i Bush, le caste che hanno gestito il potere dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, alla fine hanno dovuto farsi da parte.
La vittoria di Obama insegna che nulla è impossibile in America. In Italia, invece, tutto è più difficile. Certo, aiuterebbe togliere del tutto gli assurdi limiti anagrafici di accesso al Parlamento. Abbassare l’età del voto a 16 anni, quantomeno per le amministrative, sarebbe poi un segnale importante, che consentirebbe di contenere l’ulteriore perdita di peso delle nuove generazioni nei prossimi anni. L’effervescenza di questo ultimo mese nei Licei e nelle Università smentisce, del resto, chi considerava i giovani italiani apatici, poco interessati alla politica e al loro futuro. Aiutiamoli a contare di più, diamo qualche speranza in più al cambiamento anche da questa parte dell’Oceano.

(*) L’articolo è presente anche su www.neodemos.it

L’ITALIA NELLA SPIRALE DEL “DEGIOVANIMENTO”*

Siamo uno dei paesi più squilibrati nei rapporti tra le generazioni. Rispetto ai coetanei europei, i giovani italiani contano meno non solo dal punto di vista demografico, ma anche da quello sociale, economico e politico. Se alla riduzione quantitativa delle nuove generazioni non si risponde con un aumento qualitativo, nessuna barriera protezionistica sarà sufficiente per proteggerci dal declino.

ANCORA AL VOTO CON LE QUOTE GRIGIE

Le attuali norme elettorali prevedono i vincoli costituzionali di 25 e 40 anni per poter essere eletti rispettivamente alla Camera e al Senato, e di 25 anni per poter votare al Senato. Grazie alle dinamiche demografiche e all’inerzia nel riadattare e rivedere le regole del gioco della partecipazione democratica, i giovani italiani sono tra quelli con minor peso politico nel mondo occidentale. Tutto ciò ha evidentemente ricadute penalizzanti sia in termini di politiche destinate alle giovani generazioni che di loro presenza nelle posizioni di prestigio e potere.

EPPURE L’INVERSIONE DI TENDENZA C’È

Ringraziamo Gianpiero Dalla Zuanna (che -è bene sottolinearlo- è consulente del ministro delle Politiche per la Famiglia), per l’attenzione dedicata al nostro pezzo. Le sue obiezioni a quanto da noi scritto si possono riassumere nei due punti seguenti:

a) Non avremmo tenuto nella giusta considerazione le misure effettivamente messe in atto.
b) Non sarebbe vero che in Italia si osserva un’inversione di tendenza del legame negativo fra lavoro della donna e fecondità.

Misure "timide" e lavoro femminile

Noi però non possiamo che ribadire quanto abbiamo scritto. Ovvero:

a) A noi sembra di aver ben riconosciuto, nel nostro pezzo, che la Finanziaria 2007 ha avviato un piano straordinario di asili nidi, il primo intervento complessivo dopo un lungo periodo di stasi. Tuttavia, come lo stesso Dalla Zuanna ammette, lo stanziamento non è sufficientea coprire la domanda potenziale. Diamo atto al ministro Bindi di possedere una grande sensibilità su questi temi, e concordiamo con la sua insoddisfazione sulla parte dedicata dalla Finanziaria 2008 alla famiglia, anche se secondo Dalla Zuanna l’insoddisfazione sarebbe solo da imputare alla mancata implementazione dell’assegno unico universale per i figli.
L’accusa che ci si rivolge è di aver definito "timide" le misure per la famiglia contenute sulla Finanziaria 2008, in particolare sulla conciliazione. Era lecito avere aspettative più alte? Secondo noi sì. Non solo relativamente agli asili nido (secondo noi cruciali e che meritano ogni sforzo utile per potenziarne copertura e qualità), ma anche perché, come è stato dimostrato da vari studi recenti le politiche per la conciliazione hanno effetto soprattutto in sinergia. Sarebbe stato auspicabile allora una riforma dei congedi parentali , nonché sgravi fiscali per chi lavora e svolge lavoro di cura che incentivano sia lavoro che fecondità. Il fatto poi che su questi punti la Finanziaria possa essere legittimamente considerata timida è ulteriormente confermato dalla recente notizia di possibili emendamenti che vanno proprio nella direzione di potenziare le misure di conciliazione. (1)

b) Appare poi inconsistente la critica di Dalla Zuanna sull’inversione del legame tra lavoro femminile e fecondità Non dobbiamo essere noia ricordare a Dalla Zuanna quanto la letteratura scientifica, e vari rapporti Ocse, abbiano molto insistito negli ultimi anni sul cambiamento di segno della correlazione cross-country tra occupazione femminile e fecondità nei paesi occidentali. Non si tratta quindi di una nostra balzana invenzione: stiamo parlando di due indicatori e di una relazione tra di essi che viene costantemente presa a riferimento in ambito scientifico. Fino a qualche anno fa, però, non vi era alcuna evidenza di cambiamento di segno all’interno del territorio italiano. Ora qualcosa in tale direzione appare, come abbiamo messo in evidenza, soprattutto se guardiamo al recupero di fecondità dal 1995 in poi. Quello che si ottiene è che il recupero (comunque lo si guardi e al netto del contributo degli stranieri) è stato maggiore nelle regioni nelle quali l’occupazione femminile è più alta. Si dovrà convenire che ciò quantomeno significa che l’occupazione femminile non ha ostacolato il recupero.

Livello macro e livello micro

Contestare poi, come fa Dalla Zuanna, la relazione macro con il fatto che a livello individuale il legame rimane invece negativo, è un argomento completamente fuori bersaglio. Primo perché il legame negativo a livello micro era già chiaro dalla nostra relazione, dove si dice infatti che: "Risulta inoltre più ridotto, nel Nord Italia, il divario nei tassi di occupazione delle donne in funzione della loro condizione familiare. Ciò significa che lavorare deprime meno la fecondità nel Nord che nel Sud. In particolare, secondo i dati forniti dall’Istat, nel Nord Italia tra le donne single di 35-45 anni le occupate sono l’87 per cento, e si scende al 67 per cento tra le donne in coppia con figli. Nel meridione i valori sono rispettivamente il 68 per cento e il 35 per cento". Appare molto chiaro da tale frase che ha più figli chi non lavora, ma anche che nel Nord (dove gli strumenti di conciliazione sono più diffusi) "lavorare deprime meno la fecondità".

Ma il secondo motivo per cui l’obiezione di Dalla Zuanna proprio non ci torna, è che una relazione negativa a livello individuale di per sé non smentisce per nulla la sostanza della nostra argomentazione. Lo spieghiamo con un esempio molto semplice. Supponiamo che nella regione A ci siano quattro donne: due lavorano e hanno un figlio e due non lavorano ed hanno tre figli. Il numero medio di figli regionale risulta pari a 2. Supponiamo poi invece che nella regione B sia maggiore l’occupazione e sia più conciliabile con la possibilità di avere figli. Per le quattro donne della regione B la situazione sia allora la seguente: tre lavorano e hanno due figli, mentre una non lavora e ha tre figli. La media in questo caso risulta pari a 2,25.
Risulta chiaro allora, da questo semplice esempio, come il numero medio di figli dove c’è maggiore occupazione e conciliazione possa risultare più elevato, anche se a livello micro fanno più figli le donne non occupate.

(1) Un esempio è la proposta di cui è relatore Giovanni Legnini, Ulivo.

L’EFFIMERO BOOM DELLE NASCITE

Proprio perché si iniziano a intravedere anche in Italia possibili segnali di una relazione positiva tra occupazione femminile e fecondità, bisognerebbe investire di più per alimentare e consolidare tale processo, e avvicinarci quindi ai livelli medi europei. La crescita dei due indicatori ha per lo sviluppo del nostro paese un’importanza cruciale. Perciò il continuo potenziamento delle misure di conciliazione dovrebbe diventare una priorità. Invece la Finanziaria 2008 sembra dimostrare, ancora una volta, che così non è.

L’ALIBI DEL MERITO

Quando si parla di ricambio generazionale inceppato in Italia, alcuni sostengono la tesi che la variabile età di per sé non conti e che l’unico criterio da adottare sia quello del merito. C’è però il rischio che questo argomento sia un pretesto per lasciare irrisolta la questione generazionale. Almeno per quattro motivi. Eppure, se non si affronta seriamente il problema, saremo destinati ad accentuare la nostra naturale propensione a difendere il benessere acquisito anziché investire sul futuro.

Sedici anni, l’età per votare*

Se ci sono buoni motivi per ringiovanire l’elettorato nel mondo occidentale, questi sono ancor più accentuati nel nostro paese. Alla maggiore età media delle più importanti cariche di governo e istituzionali si associa anche una più scarsa attenzione politica verso i giovani. Per esempio, la spesa sociale italiana è tra le più sbilanciate in Europa a favore delle generazioni più anziane. Abbassare l’età del diritto di voto a sedici anni servirebbe a riequilibrare il peso elettorale e presumibilmente politico dei giovani. Le deboli ragioni di chi si oppone.

Il peso elettorale dei sedicenni*

L’Austria sarà la prima in Europa ad abbassare il voto ai 16 anni. I motivi che hanno spinto il governo austriaco al “rivoluzionario” cambiamento valgono ancor di più per l’Italia. Ma le trasformazioni demografiche in atto sono tali che anche un allargamento così significativo dell’elettorato giovanile avrebbe di fatto solo un valore simbolico. Costituirebbe però un primo passo importante verso la valorizzazione delle nuove generazioni in un paese che finora investito poco sui giovani e, quindi, sul proprio futuro.

Vivere più a lungo, lavorare più a lungo?

Si riaccende, con l’avvicinarsi della finanziaria, il dibattito sull’innalzamento dell’età pensionabile. Vari studi mettono in evidenza come una risposta alle conseguenze dell’allungamento della durata di vita sulla spesa previdenziale debba passare soprattutto attraverso un aumento dell’occupazione dopo i 50 anni. Un recente rapporto OCSE, ripreso da molti studiosi, propone la formula: “live longer, work longer”. Ma “work longer” significa, soprattutto per l’Italia, anche un accesso meno tardivo al primo impiego.

Com’è difficile essere giovani in Italia

Disoccupazione, sottoccupazione, bassi redditi e precarietà del posto di lavoro sono un freno che spinge i giovani italiani a rimandare ben oltre i trent’anni l’uscita dalla famiglia di origine. Che resta l’unico vero ammortizzatore sociale, spesso anche quando si è conquistata l’autonomia. Ma la combinazione tra solidarietà familiare forte e welfare pubblico debole è iniqua. E comprime il dinamismo sociale. Lo stesso sistema politico sembra lo specchio di una società poco mobile e caratterizzata da scarsa valorizzazione delle risorse giovanili.

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