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Autore: Alberto Zanardi Pagina 4 di 6

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Professore ordinario di Scienza delle finanze nell'Università di Bologna. Attualmente è componente del -Comitato scientifico per le attività inerenti alla revisione della spesa pubblica istituito presso il MEF. Durante il 2022 è stato presidente della Commissione tecnica per i fabbisogni standard presso il MEF e tra il 2014 e il 2022 componente del Consiglio direttivo dell’Ufficio parlamentare di bilancio. Nel passato ho fatto parte della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale e della Commissione tecnica per la finanza pubblica presso il MEF.

PROVE DI RIFORMA FISCALE

La riforma fiscale che il governo ha in mente punta, tra l’altro, a spostare il prelievo dalle imposte dirette a quelle indirette. Uno studio mostra però che gli aumenti di accise, Iva, Imu e Irpef non sono distribuiti in maniera uniforme, incidono di più sulle famiglie nei primi decili di reddito. Ulteriori interventi devono perciò essere compensati con riduzioni delle imposte sui redditi più bassi. E non solo per ragioni di equità. Ma perché si corre il rischio di ostacolare la ripresa della domanda e della crescita.

PREGI E DIFETTI DELL’IMU

Un terzo della manovra del governo si fonda sull’imposizione immobiliare, attraverso l’introduzione dell’Imu. Il provvedimento ha diversi pregi: torna la tassazione sulla prima casa, aumenta il gettito con una tassa che non incide sulla crescita e ridà ai comuni una potente leva di fiscalità. Più discutibili la compartecipazione dello Stato a un tributo locale, l’inasprimento sulle locazioni e la mancata soluzione delle iniquità del sistema delle rendite catastali. E in generale, si va forse verso un nuovo modello di federalismo fiscale con più autonomia e meno solidarietà?

COME SARÀ LA NUOVA ICI?

Uno dei tasselli principali della manovra del governo sarà la revisione della fiscalità sugli immobili. Ma le ipotesi sono molte, spesso con finalità diverse. Il problema principale è che la legge delega sul federalismo fiscale vieta di tassare la prima casa. Un ostacolo che il governo Berlusconi ha cercato di aggirare con l’introduzione all’ultimo istante della Res-servizi, destinata a gravare non solo sui proprietari, ma anche sugli inquilini. Tutto sommato però funziona peggio della vecchia Ici. E allora perché non tornare semplicemente indietro?

UNA BOMBA SUL FEDERALISMO FISCALE

Il percorso di attuazione del federalismo fiscale sbatte contro il muro del centralismo, vale a dire dei modi in cui è stata decisa la manovra di aggiustamento dei conti pubblici varata dal Governo. Nessun coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali. E, invece, un’imposizione di tagli di spesa che costringe le autonomie a una stretta finanziaria molto penosa.

LA RISPOSTA DEGLI AUTORI A ” MA TRIESTE NON È BOLZANO

Il nostro intervento “Quelle Regioni ancora più speciali” ha suscitato non poche reazioni da parte dei lettori de lavoce.info, a conferma che il tema è attuale e rilevante, anche se non sempre riceve la dovuta attenzione da parte della politica e dei mass media.

Oltre a ringraziare per i molti commenti postivi, tentiamo di rispondere alle poche (ma autorevoli) critiche che abbiamo ricevuto.
Nella conclusione del loro intervento “Ma Trieste non è Bolzano”, Clara Busana e Antonio Salera affermano testualmente che “L’atteggiamento conservatore della Regione Fvg nei confronti della riforma del federalismo fiscale ci sembra quindi motivato (anche se probabilmente non giustificato) non tanto dal timore di vedersi valutare, quanto di vedersi “trascinare” in un sistema complessivamente meno efficace ed efficiente”.
Siamo perfettamente d’accordo. La nostra tesi è appunto che la riforma del federalismo fiscale avrebbe potuto essere l’occasione per rendere quel “sistema” più efficace ed efficiente, così da poterlo estendere progressivamente anche alle RSS in modo tale da eliminare (o almeno attenuare) situazioni di “privilegio” dai più considerate come anacronistiche e che ingenerano veri e propri fenomeni di concorrenza sleale a danno delle RSO (da questo punto di vista, i tentativi, finora in gran parte falliti, di migrazione di Comuni da queste ultime alle Rss sono emblematici).
Non condivisibile ci pare invece l’affermazione secondo cui “la bilateralità degli accordi è di per sé uno strumento corretto proprio perché le Rss sono tra di loro molto diverse sia nel grado di autonomia fiscale originariamente concesso, sia ovviamente nella loro traiettoria di sviluppo”.

In generale, procedere mediante accordi one to one rischia di segmentare ulteriormente la platea degli enti sub-statali, senza sostanziali guadagni in termini di efficacia ed efficienza per il “sistema” nel suo complesso. Nel nostro intervento non ci sono affatto “specifiche attribuzioni di responsabilità attribuite alla Regione Friuli Venezia Giulia”, ma è un fatto (confermato dalle stesse fonti citate da Busana e Salieri) che il FVG sia più ricco della media nazionale e soprattutto delle Rss del Sud, che è esattamente quanto noi abbiamo affermato.
Nello specifico, parlare di “autonomia fiscale” con riferimento a regimi che si reggono su meccanismi di compartecipazione ci pare improprio.
Non crediamo, pertanto che la soluzione corretta sia quella (suggerita da Magotti e ripresa da altri lettori) di parificare le Rso alle Rss, perché le attuali regole di finanziamento di queste ultime non sono del tutto coerenti con quel principio di responsabilizzazione nell’utilizzo delle risorse pubbliche che dovrebbe ispirare qualsiasi modello federale in ossequio al principio no taxation without representation.
Del resto, è universalmente riconosciuto che la generalizzazione del modello finanziario delle Rss sarebbe finanziariamente insostenibile per lo Stato centrale, che perderebbe il controllo di gran parte delle proprie attuali entrate tributarie. In un simile scenario, come minimo, si dovrebbe aprire una discussione su come ripartire fra i diversi territori lo stock di debito pubblico attualmente in capo allo Stato.
Forse è vero che “attribuire alle Rss forme di egoismo à la Scrooge non aiuta ad individuare un percorso di convergenza” con le RSO, ma è un fatto che il disegno federalista è stato costruito a compartimenti stagni anche su pressione dei rappresentanti della lobby delle autonomie speciali.

Per questo non possiamo che concordare con Busana e Salera sul fatto che “lasciar fuori le Rss dalla riforma sia una pessima idea” ed “un grave segnale di debolezza da parte del governo”.
In questi giorni si stanno valutando interventi correttivi ai provvedimenti attuativi della legge n. 42/2009. Sarebbe una bella notizia apprendere che fra i punti all’ordine del giorno vi sia anche quello di una maggiore, progressiva armonizzazione fra Rss e Rso.
Ciò gioverebbe anche alle stesse Rss, che potrebbe contribuire alla razionalizzazione di un “sistema” (giuridico ed economico) di cui, volenti o nolenti, fanno e continueranno a fare parte.

QUELLE REGIONI ANCORA PIÙ SPECIALI

La riforma del federalismo fiscale avrebbe potuto essere l’occasione per intervenire sull’ordinamento finanziario delle Regioni a statuto speciale, eliminando alcuni privilegi ormai anacronistici, per accettare la sfida di una maggiore trasparenza sui costi e di una spinta verso l’efficienza ed efficacia dei servizi pubblici. Invece, l’attuazione della riforma allarga ancora il solco con le Regioni a statuto ordinario. E si delinea una segmentazione anche del regime delle singole Regioni autonome, a tutto svantaggio di quelle del Sud.

IL FEDERALISMO FISCALE VISTO DA WASHINGTON

La nota ufficiale seguita alla missione dell’Fmi in Italia si occupa, tra l’altro, di federalismo fiscale. Il Fondo sembra guardare alla fase di ulteriore decentramento con un misto di apprensione e speranza. E perché la seconda prevalga, individua alcuni punti: la reintroduzione di qualche forma di tassazione sulle prime case in termini patrimoniali e reddituali; lo snellimento del sistema delle province; l’opportunità di introdurre anche nel nostro paese forme di federalismo a velocità variabile. Suggerimenti utili alla discussione. L’auspicio è che siano ascoltati.

PEREQUAZIONE: CHI L’HA VISTA?

La riforma del federalismo fiscale è arrivata finalmente alle questioni di peso con l’approvazione del decreto sulla finanza regionale, dopo quello sulla finanza comunale. Colpisce quello che i due decreti mancano di affrontare. Il nodo centrale ancora aperto riguarda la perequazione: come redistribuire tra regioni ricche e regioni povere, e tra enti locali ricchi e poveri, le risorse fiscali loro attribuite mediante le imposte decentrate. Le decisioni su elementi solo apparentemente tecnici sono ancora rimandate a interventi successivi.

LO PSICODRAMMA DELLE IMPOSTE COMUNALI

Il decreto sul federalismo municipale ha rischiato di mettere fine alla legislatura ed è ora al centro di una forte tensione istituzionale. Ma rappresenta davvero il passaggio cruciale per la costruzione del federalismo nel nostro paese? Il provvedimento è tutto sommato assai modesto. Manca comunque una regolamentazione adeguata del sistema perequativo dei comuni. Mentre l’ossessione per il vincolo di invarianza della pressione fiscale rischia di snaturare il federalismo, il cui principale obiettivo è rendere i sindaci responsabili davanti ai propri cittadini.

È ANCORA LUNGA LA STRADA DELL’ITALIA FEDERALE

Non è vero che il federalismo fiscale è fatto. E non solo perché ovviamente alla concreta attuazione della riforma del sistema di finanziamento di Regioni ed enti locali manca un’infinita sequenza di atti amministrativi e un periodo di transizione di cinque anni. Ma anche perché la fase della formulazione e approvazione dei decreti legislativi è ben lontana dall’essere conclusa. Nel mosaico della riforma disegnato da questi provvedimenti ci sono ancora molte lacune, totali o parziali, rispetto a quanto previsto dalla legge delega.

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