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Gli occupati risalgono, le ore lavorate no

Qual è la situazione del mercato del lavoro? La grave crisi economica l’ha colpito, ma ora il numero degli occupati è tornato a salire. Per valutare l’effettivo apporto produttivo del lavoro bisogna però considerare un altro dato: le ore lavorate totali. 

Più disoccupati ma meno scoraggiati

Dopo il 2008 l’economia italiana ha vissuto una grave crisi che ha investito pesantemente il mercato del lavoro. Ma dalla seconda metà del 2013 le cose hanno gradualmente cominciato a migliorare.

In clima elettorale, le parti politiche assumono diverse posizioni sulla questione: da una parte, si rivendicano i risultati raggiunti, misurabili soprattutto nel recupero dei posti di lavoro persi con la crisi; dall’altra, invece si denuncia una crescente precarizzazione e una diminuzione delle ore lavorate. È opportuno quindi cercare di fare chiarezza su quali siano le condizioni del mercato del lavoro oggi, sia rispetto all’inizio della crisi, gennaio 2008 (nei grafici rappresentato dalla linea verde), sia al suo momento di maggior gravità, che approssimiamo a settembre 2013 (linea viola).

Come si vede dalla figura 1, negli anni 2008-2013 si sono persi 955 mila posti di lavoro. Il calo si è interrotto solo nel settembre 2013, quando il numero degli occupati è tornato a crescere e ha raggiunto, nel settembre 2017, i valori del maggio 2008.

Negli ultimi quattro anni si sono quindi recuperati i posti di lavoro che si erano persi con la crisi.

E allora perché il tasso di disoccupazione, sebbene si stia gradualmente riducendo, è ancora quasi il doppio del 2008 (11,1 per cento contro il 6,6 per cento)? Perché è vero che si è raggiunto il numero di occupati del 2008, ma nel frattempo sono raddoppiati i disoccupati. È cresciuta cioè la forza lavoro, che comprende sia gli occupati che i disoccupati. Questo significa che il tasso di partecipazione – ossia il rapporto tra la forza lavoro e la popolazione di 15 anni o più – non solo è rimasto elevato per tutta la durata della crisi, ma è anche cresciuto dalla primavera 2011. Segno che le persone non si sono scoraggiate per le condizioni economiche negative, ma hanno continuato a ricercare un’occupazione, probabilmente anche a causa delle crescenti situazioni di bisogno.

La dinamica è stata ancora più accentuata dal considerevole aumento della partecipazione al lavoro della popolazione femminile, passata da 51,7 per cento di gennaio 2008 al 56 di settembre 2017.

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Figura 1 – Occupati e disoccupati (dati destagionalizzati, in migliaia di unità) e tasso di disoccupazione e partecipazione (%)

Fonte: Istat, Occupati e disoccupati (mensili), 31 ottobre 2017

La tendenza è confermata dalla dinamica degli inattivi (figura 2). Già a fine 2013, dopo un periodo di aumento, si era tornati ai livelli di inizio 2008. E il calo prosegue ininterrotto: oggi gli inattivi sono circa un milione in meno.

Figura 2 – Inattivi (dati destagionalizzati, in migliaia di unità)

Fonte: Istat, Occupati e disoccupati (mensili), 31 ottobre 2017

La quantità del lavoro

Il dato sul numero degli occupati però è insufficiente a valutare l’effettivo apporto produttivo del lavoro, che è invece misurato dalle ore lavorate complessivamente.

Nelle statistiche Istat viene considerato occupato anche chi ha svolto una sola ora di lavoro nella settimana di riferimento della rilevazione. Tuttavia, in termini di contributo alla produzione, fa differenza se si creano posizioni lavorative a tempo pieno o a orario ridotto. Dalla figura 3 si può facilmente vedere che, sebbene un accenno di ripresa sia avvenuto a partire dal 2015, il totale delle ore lavorate è ancora molto lontano dal livello pre-crisi. Nel secondo trimestre 2017, erano ancora inferiori per ben 680 milioni, il 5,9 per cento per cento del totale rispetto ai dati di inizio 2008. Risultato comunque migliore rispetto al quarto trimestre 2013, quando erano più di un miliardo in meno.

Figura 3 – Totale ore lavorate (dati trimestrali, in miliardi)

Fonte: Istat, Conti e aggregati economici nazionali trimestrali

Questo può significare che i nuovi posti di lavoro siano perlopiù part-time. I dati disaggregati dell’Istat scompongono il numero di occupati tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo parziale: nel 2016 i lavoratori standard a tempo pieno sono diminuiti di più di un milione di unità rispetto al 2008, mentre quelli a tempo parziale sono cresciuti di 789 mila.

È vero quindi che la quantità di lavoratori è tornata ai livelli pre-crisi, ma è cambiata la composizione dei contratti, con un aumento di quelli part-time e un calo di quelli full-time. E anche se il numero dei contratti a tempo pieno ha ricominciato ad aumentare nel 2015, i contratti part-time continuano a crescere più di quelli full-time, rappresentando una quota sempre maggiore sul totale dei contratti standard.

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In più, molti part-time sono involontari. Si tratta di lavoratori che vorrebbero lavorare di più ma che si devono accontentare di un contratto a tempo parziale. I dati aggiornati al secondo trimestre 2017 ci dicono che, includendo anche i contratti a termine, i lavoratori a tempo parziale involontario sono 2,6 milioni, in lieve diminuzione dal 2016, ma equivalenti ancora a circa il 60 per cento di tutti i contratti part-time (più del doppio della media Ue).

Le differenze di orario tra part-time e full-time rendono difficile comparare le variazioni annuali degli occupati. L’Istat fornisce quindi una misura omogenea della quantità di lavoro, ossia le unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (Ula). Il parametro consiste nella somma delle posizioni lavorative a tempo pieno e di quelle a tempo parziale. Le seconde però non vengono considerate per intero, ma sono moltiplicate per un coefficiente minore di uno che le riduce. Il calcolo dell’Ula è cioè basato sull’ipotesi che ogni contratto part-time possa essere reso equivalente a una frazione di unità di lavoro. Indicativamente, se il contratto full-time di un dato settore implica 8 ore lavorative al giorno, due contratti part-time da 4 ore giornaliere equivalgono a un’Ula.

La figura 4 mostra come questo valore sia ben al di sotto dei livelli pre-crisi, anche se in crescita del 3,4 per cento rispetto all’ultimo trimestre 2013. Dal 2008 infatti abbiamo perso oltre 1,2 milioni di unità di lavoro equivalenti, ed è questo, e non il numero degli occupati, il dato da considerare per quantificare l’apporto effettivo alla produzione del fattore lavoro.

Figura 4 – Unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (in migliaia)

Fonte: Istat, Conti e aggregati economici nazionali trimestrali

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  1. ettore falconieri

    Le statistische Istat sul lavoro sono di molto perfettibili, primo perchè l’Istat è un ente come altri simili che avrebbe bisogno di una rigirata “manageriale”, secondo perchè hanno una componente stimata e non tutti i dati disponibili rispecchiano la realtà

  2. jazy quill

    Veramente risalgono anche le ore lavorate e le unità di lavoro equivalente e lo fanno con una certa continuità proprio dal 2013 (solo che non sono ancora stati raggiunti i livelli del 2008): fare della statica comparata non ha molto senso a mio avviso, se si guarda la dinamica il MdL sta invece attraversando un trend molto positivo. Tanto è vero che il tasso di partecipazione non è solo rimasto alto, ma è addirittura aumentato e proprio dal 2013: a dimostrazione che la percezione delle dinamiche positive del MdL ha indotto molte persone a fare il loro ingresso su tale mercato (per lo più donne, verosimilmente).
    Quanto alla precarietà lo strumento del contratto a tutele crescenti unito alla decontribuzione ha dimostrato che è uno strumento valido, basterebbe tararlo opportunamente per favorire alcune categorie di lavoratori/tipologie contrattuali

    • Gabriele Guzzi

      Ciao! Infatti noi compariamo anche il trend crescente a cui stiamo assistendo dal 2013. Abbiamo infatti diviso l’intervallo temporale in 2 passaggi (2008-2013 e 2013-2017) proprio per distinguere la fase di crisi (2008-2013) da quella di graduale recupero. un saluto!

  3. Salvatore

    Risulta chiaro che le statistiche vengono rigirate secondo le necessità politiche, ma è vero che si mangia con le ore lavorate (magari a 5 euro/ora) per cui sono le ore lavorate che contano. Vorrei però evidenziare un fatti che mi lascia molto perplesso e cioè la modalità di ricerca del lavoro (che mi spiega anche perchè c’è un abbandono della ricerca): è mai possibile che un giovane debba girare per innumerevoli agenzie a lasciare il curriculum per poi ricevere via internet sempre le stesse cose tutti i giorni? A mio avviso ci dovrebbe essere una banca dati UNICA e CENTRALIZZATA delle persone in cerca di lavoro dove magari le agenzie facciano da filtro o aiuto ai candidati. Naturalmente per le fasce medio-basse.

  4. Vincenzo

    Sarebbe interessante capire quanto di questo aumento del part time sia riconducibile al fatto che i servizi (dove immagino siano più frequenti queste posizioni) sono andati meglio dell’industria durante la crisi

  5. Flaviano

    “E allora perché il tasso di disoccupazione, sebbene si stia gradualmente riducendo, è ancora quasi il doppio del 2008”

    Non è che magari banalmente sono aumentate le persone che cercano lavoro perché sono cambiate le regole per andare in pensione?
    Se nel 2008 si andava in pensione a 60 anni e nel 2017 a 67, a spanne ci sono 7 anni da mezzo milione di cittadini (sempre a spanne, su un numero medio di nascite per anno negli anni del boom) in più tra gli “attivi” rispetto a prima?
    I miei sono solo i “conti della serva”. Sarebbero necessari numeri reali per poter studiare il fenomeno, ma non credo che la riforma Fornero abbia inciso poco su questi numeri.

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