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Sud da problema a risorsa*

Anche se non esiste più un solo Sud, è rimasto elevato il divario di sviluppo con le regioni del Centro-Nord. Però, c’è stata di recente una nuova assunzione di responsabilità da parte dello stato, con misure che hanno permesso una inversione di tendenza.

Il ruolo dello stato per lo sviluppo del Sud

C’è una domanda che è propedeutica a qualsiasi ragionamento: esiste ancora una “questione meridionale”? Il Mezzogiorno stesso ha ancora caratteristiche unitarie?

L’esistenza di diversi Sud è certificata dalla diversità degli indicatori economici e sociali. Tuttavia permane, e anzi è tornato ad allargarsi dagli anni Ottanta e fino al 2014, il divario economico e sociale dell’insieme delle otto regioni del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord. Si tratta di una specificità storica che rende unica la questione meridionale in Europa: lo sviluppo del Mezzogiorno è ancora la nostra grande questione nazionale. Solo quando è stata affrontata come tale – gli anni dell’intervento straordinario – il divario con il resto del paese si è ridotto.

Dobbiamo prendere atto che una modalità di intervento, un preciso modello di intervento pubblico, teorizzato e realizzato, è fallito: un modello fondato sulla delega alle regioni da parte dello stato, relegato a mera funzione di finanziatore/arbitro. Oltre a non aver generato i risultati sperati in termini di sviluppo economico, e di crescita delle capacità amministrative e politiche del Mezzogiorno, ha creato una esasperazione crescente al Centro-Nord, fondata sulla convinzione che la spesa pubblica per lo sviluppo fosse di fatto clientelare. Oggi la rottura degli equilibri di spesa improduttiva passa per una nuova assunzione di responsabilità da parte dello stato: interazione forte con regioni ed enti locali per definire gli interventi sul territorio, evitandone la frammentazione e la mera logica spartitoria; e poi lo Stato si fa carico di assicurare la realizzazione degli impegni reciproci con gli enti territoriali, in un quotidiano corpo a corpo. E si fa carico di programmare e realizzare gli interventi di connessione tra le regioni del Sud e tra queste e il Centro-Nord. È questa l’ispirazione che ha guidato la costruzione dei Patti per il Sud e il Masterplan per il Mezzogiorno.

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Misure per l’imprenditoria

Una funzione importante spetta però anche agli interventi che innescano o sollecitano l’iniziativa imprenditoriale privata. Molte delle nostre iniziative, dal credito d’imposta per investimenti nel Mezzogiorno, alla misura di autoimprenditorialità giovanile “Resto al Sud”, al fondo per la crescita delle Pmi meridionali, chiamano in causa energie e strumenti finanziari privati: strumenti automatici che hanno il pregio di minimizzare i costi di gestione, di accelerare la spinta agli investimenti e di eliminare l’intermediazione politica e amministrativa non necessaria.

Naturalmente, un capitolo chiave di una politica che miri a far crescere la produttività è quello dell’innovazione. Ma noi dobbiamo partire dalla consapevolezza del rischio che gli incentivi all’innovazione nel Mezzogiorno funzionino meno: la struttura dimensionale delle imprese è meno adeguata a recepire il tipo di misura di Industria 4.0 e minore la diffusione della cultura imprenditoriale. Il passo decisivo è allora quello di ampliare il tessuto produttivo e di far crescere le imprese. A questo scopo, il primo obiettivo è quello di rafforzare un tessuto di imprese sane, in grado di crescere. È questo il senso non solo del fondo (senza sussidi) per la crescita dimensionale delle imprese nel Mezzogiorno, ma anche del credito d’imposta Sud: una misura selettiva nel senso che la possono utilizzare solo imprese sane, che attraverso l’investimento possono crescere.

È stato anche posto il tema della capacità delle imprese di inserirsi nelle catene globali. Si tratta di funzioni – come la capacità di esplorare mercati, stabilire partnership o innovare – che possono essere svolte principalmente da imprese sopra soglia. Anche da questo punto di vista la questione dimensionale è centrale. Vorrei a questo proposito menzionare un provvedimento che mira esplicitamente a inserire l’Italia nelle catene globali: le zone economiche speciali (Zes). Nel decreto Mezzogiorno abbiamo inserito la possibilità che le regioni del Sud istituiscano Zes nelle aree portuali, retroportuali o industriali, purché funzionalmente collegate. Le Zes saranno aree con una struttura di governo agile, una normativa semplificata e poche incentivazioni fiscali. Il progetto è quello di attrarre operatori, considerando i flussi di merci che attraversano il Mediterraneo a causa dell’ampliamento del canale di Suez e dell’apertura della nuova Via della Seta. Attorno a questi investimenti potranno svilupparsi Pmi meridionali che entreranno naturalmente nella catena globale.

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Dal 2008 al 2014 il Mezzogiorno d’Italia ha perso più di 13 punti di Pil, quasi il doppio del resto del paese. Negli ultimi due anni il Mezzogiorno è ripartito a tassi maggiori del Centro-Nord, seppur di poco: nel biennio 2015-16 è cresciuto del 2,1 per cento cumulato, il Centro-Nord dell’1,5 per cento. Si tratta di una inversione di tendenza chiara, ancora insufficiente a configurare uno stabile recupero del divario e tuttavia significativa e attesa da tanto tempo. Alla prossima legislatura rafforzarla e consolidarla.

* Ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno

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  1. Massimo Saraz

    interessante e molto l’articolo. Come sociologo su lavoro e migrazioni, l’Autore dovrebbe ricordare che il PIL e i consumi nel Mezzogiorno sono dovuti anche e in specie dalle rimesse dei tanti giovani e non solo smigranti italiani qualificati nel mondo, migranti spesso citati da “La Voce . Grazie Prof. Massimo Saraz

  2. Salvatore

    Questo signor ministro ha capito o no che il problema del mezzogiorno è la corruzione e la criminalità organizzata (che ne fa largo uso)?
    Il resto sono chiacchere…

  3. Massimo Calise

    Trovo l’articolo generico. Come spesso accade, nessuna riflessione su quelle iniziative avviate e non efficacemente sostenute e che, inevitabilmente, non danno i risultati attesi. Un approccio “istituzionale” serio che punti ad un assetto amministrativo più efficiente sarebbe utile al Mezzogiorno e all’intero Paese. La “Fusione dei comuni” (art. 15 TUEL) è una concreta opportunità che è stata colta soprattutto dai comuni del centro nord; il numero dei comuni italiani è diminuito con benefici per l’intero “sistema paese”. Gli ultimi governi hanno aumentato la misura dei finanziamenti decennali previsti per i Comuni unici ottenuti dalle fusioni. Ma non basta, delle 74 fusioni realizzate nel quadriennio 2014-2017 (180 i Comuni interessati) solo una è avvenuta al sud. Occorre trovare altre misure, oltre a quelle finanziarie, per ridurre la frammentazione del nostro Paese. Bisogna evitare provvedimenti contradittori, da una parte si incentivano (debolmente) le fusioni, dall’altra, come avvenuto di recente, si erogano fondi per i comuni con meno di 5.000 abitanti; come dire: rimanete piccoli!

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