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Che cos’è il minimo vitale abbinato alla flat tax

Nella proposta dell’Istituto Bruno Leoni non c’è solo la flat tax, c’è anche la sostituzione di tutti i trasferimenti assistenziali con un unico “minimo vitale”. Può facilmente diventare una trappola della povertà, senza rendere più equo il sistema.

Dai trasferimenti al minimo vitale

La proposta dell’Istituto Bruno Leoni di “rivoltare come un calzino” le politiche redistributive di prelievo e di spesa è stata prevalentemente dibattuta con riferimento al tema della flat-rate tax. Scarsa attenzione – con l’eccezione di Franco Gallo – ha ricevuto la proposta di fare tabula rasa delle politiche assistenziali in denaro e di introdurre, al loro posto, una misura di contrasto della povertà denominata “minimo vitale”. Poiché le due cose “sono fatte per stare insieme e completarsi a vicenda” – si legge nella ricerca IBL -, non è possibile dare una valutazione complessiva della proposta senza considerare il lato della spesa.

Ricapitoliamo: la riforma comporterebbe l’abolizione di tutti i trasferimenti assistenziali erogati a livello nazionale (per un valore complessivo di circa 60 miliardi) e l’introduzione del minimo vitale, un sussidio universale su base familiare, condizionato all’osservanza dell’obbligo scolastico, differenziato geograficamente e di importo medio mensile pari a circa 500 euro per i single (per famiglie di numerosità superiore a uno si applica la scala di equivalenza Isee), erogato dai comuni tramite l’accreditamento di un bancomat prepagato, sulla falsariga della nuova carta acquisti.

Il minimo vitale non richiede la disponibilità a lavorare ma avrebbe una durata limitata (tre anni) e già a partire dal secondo anno verrebbe erogato in proporzione decrescente in contanti e in proporzione crescente sotto forma di voucher (contributivo o fiscale), così da incentivare la creazione di nuova occupazione. Tecnicamente il minimo vitale assume la forma di una “deduzione base” dall’imposta flat-rate, fissata in 7mila euro annui per una famiglia di un solo componente residente al Nord. Per i redditi familiari superiori a cinque volte la deduzione base, il complesso delle deduzioni si riduce gradualmente, in proporzione alla distanza tra reddito familiare e deduzione base, fino ad azzerarsi.

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In pratica, le politiche redistributive sarebbero in capo a un unico istituto tax-benefit che: 1) integra al minimo vitale i redditi inferiori a esso, 2) restituisce ai redditi familiari superiori alla deduzione base, ma inferiori al complesso delle deduzioni applicabili, il 25 per cento della differenza tra queste ultime e il reddito familiare (i redditi da lavoro dipendente e da pensione, infatti, potrebbero contare, rispettivamente, su deduzioni aggiuntive per oneri di produzione del reddito e maggiore morbilità), 3) preleva il 25 per cento della differenza tra il reddito familiare e il complesso delle deduzioni se la differenza è positiva. Qualcosa di simile all’imposta negativa di Milton Friedman, il modello teorico a cui si ispirano gli estensori della proposta.

Il mito dell’universalismo

Come valutare un progetto che, all’insegna di un modello mai attuato al mondo (nemmeno nei paesi ex-socialisti), vuole coniugare l’universalismo e l’equità dello stato sociale con la semplicità e la trasparenza dell’imposizione ad aliquota unica? La riproposizione dell’universalismo nella lotta alla povertà si infrange contro alcuni scogli, sia di natura politico-finanziaria sia riferibili alla coerenza interna del progetto. Non mi soffermo sui primi, su cui sono intervenuti anche altri, e mi concentro sui secondi.

Come si può pensare di fare piazza pulita delle prestazioni assistenziali vigenti (assegni familiari, integrazioni al minimo delle pensioni, pensioni sociali, indennità di accompagnamento, solo per citare i maggiori) e di rimpiazzarle con un’unica misura, stante l’eterogeneità dei criteri di eleggibilità delle prime e la conseguente opportunità di riconoscere, anche a parità di reddito, indennità economiche aggiuntive a chi si trova in condizioni specifiche di bisogno? Lungi da me difendere il sistema attuale, ma se si vuole ridurre l’eccessiva categorialità del welfare italiano e migliorarne l’efficacia redistributiva, è preferibile omogeneizzare i criteri legati alla prova dei mezzi, estendendo l’Isee alla totalità dei trattamenti, e accelerare la messa a regime del neonato reddito di inclusione.

La proposta Ibl è discutibile anche sul piano dell’efficienza poiché, prevedendo per i redditi inferiori alla deduzione base la totale integrazione della differenza tra la deduzione stessa e il reddito familiare, genera una “trappola della povertà” del 100 per cento, ovvero un disincentivo formidabile a cercare un’occupazione per chi ha redditi bassi. Difficile pensare che lo stratagemma del voucher possa fare il miracolo. Più che “scommettere che per i lavoratori ne deriverebbero risultati largamente superiori a quelli offerti dall’attuale sistema di formazione”, sarebbe stato opportuno simulare entità e segno delle possibili reazioni comportamentali dei beneficiari del minimo vitale.

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Nel rincorrere il mito dell’universalismo senza selettività nella spesa sociale, la proposta addossa sulle spalle dell’Irpef, ancorché rinnovata, tutto l’onere di individuare chi guadagna e chi perde dalle politiche redistributive. In questo scenario, non vi è spazio per sistemi di prova dei mezzi come l’Isee, basati su reddito e patrimonio, sebbene siano in grado di selezionare i beneficiari del welfare molto meglio di quanto faccia il solo reddito a fini fiscali.

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Il Fiscal compact in Italia: tanta spesa, poca resa

  1. Savino

    Questi strumenti, a cominciare dal reddito di cittadinanza grillino, rischiano di diventare armi di distrazione di massa per sconcentrarci dal vero problema macroeconomico che rimane il raggiungimento di una soglia più vicina possibile alla piena occupazione o che, quantomeno, intraveda tale obiettivo. E’ pura follia e contro ogni etica avere milioni di donne e uomini esclusivamente col ruolo di consumatori insito nella cittadinanza e senza la dignità di lavoratori. Premesso questo, il sistema di welfare va ricostruito dalle fondamenta, individuando in maniera ottimale i beneficiari e stanando il fenomeno dei falsi poveri. Staremmo freschi se, per i prossimi decenni dovessimo ancora sovvenzionare, con un nuovo welfare, i furbetti dell’Isee dei decenni passati, i tanti falsi invalidi, i furbi proprietari di ampi patrimoni che avevano ed hanno redditi alti effettivi mai dichiarati e non hanno mai pagato una mensa scolastica o una tassa universitaria. La platea va ben selezonata, vanno riviste le fasce d’età, perchè la povertà oggi è soprattutto dei giovani e di quanti fanno lavori precari e vanno riviste le incompatibilità ed i doppioni: in certe aree del sud non puoi fare l’operaio forestale (magari, dopo aver fatto il piromane) d’estate ed avere il sussidio di disoccupazione d’inverno.

    • bob

      “certe aree del sud non puoi fare l’operaio forestale (magari, dopo aver fatto il piromane) d’estate ed avere il sussidio di disoccupazione d’inverno.”. Ha perfettamente ragione la stessa cosa dei 18 mila dipendenti del Trentino che affittano B&B (secondo lavoro) pagandogli pure 1000 euro l’anno per i gerani che mettono sul balcone. A mio avviso prima ancora di parlare di tassa unica e di sussidio, sarebbe vitale di semplificare una burocrazia ridicola e inutile che è più costosa della tassazione stessa e invece del sussidio ricreare quella cultura del lavoro. Ma per fare questo ci vuole un sistema-Paese come lo è stato l’ Italia dal dopoguerra agli inizi anni ’60 anche con tutte le storture. Progetti politici lungimiranti seguiti da progetti industriali altro che compro-oro e slot machine

  2. Henri Schmit

    L’universalismo dei trasferimenti assistenziali è un altro indizio del carattere dottrinario della proposta IBL. Ha ragione l’autore, ha ragione Franco Gallo nell’articolo citato. Il paradosso (o l’indecenza) della provocazione IBL è che viene avanzata 1. non in una fase espansiva del ciclo economico, ma a termine della peggior recessione del dopoguerra, 2. in una fase seconda dell’era digitiale che ha prodotto differenze di reddito e di ricchezza mai viste prima (diciamo dai tempi feudali – e qualche somiglianza con quel periodo c’è e si sta accentuando) e 3. in un paese in coda a tutte le classifiche di mobilità sociale e di differenziale fra benestanti e poveri.

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