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L’Istat ora vuole eliminare le classi sociali

Nel Rapporto annuale 2017 l’Istat sostiene che le classi sociali sono ormai scomparse dalla società italiana e le sostituisce con nove gruppi. Ma la nuova classificazione è un passo indietro perché debole sotto il profilo concettuale e metodologico.

Nove gruppi al posto delle classi sociali

Nel Rapporto annuale 2017 l’Istat sostiene che le classi sociali sono ormai scomparse dalla società italiana, che è venuto meno il “senso di appartenenza” a esse, e presenta una nuova classificazione a nove gruppi.

L’affermazione secondo cui le attuali disparità sociali avrebbero frammentato e travolto le vecchie classi sociali non è nuova. Né è nuova l’affermazione secondo cui le persone non si identificano più nelle classi. Ma proprio nelle due negazioni sta la prima contraddizione del Rapporto: si dichiara la scomparsa delle classi sociali, ma si afferma, per altro senza alcuna evidenza empirica, che i nove raggruppamenti identificati dall’Istat su base statistica sarebbero “strutturali” e fornirebbero “forme di appartenenza e identificazione”, ovvero avrebbero la caratteristica tradizionalmente associata alle classi.

La debolezza concettuale dell’esercizio diventa metodologica con l’inversione del rapporto tra causa ed effetto. Laddove le classi sono state sempre intese come fattori generativi di disuguaglianza – e non come il suo risultato -, l’Istat procede in direzione contraria. Guarda alle diseguaglianze di reddito, di istruzione, di esposizione ai rischi di disoccupazione e di povertà non come effetti dell’appartenenza a un gruppo sociale, bensì come elementi costitutivi di quel gruppo. Considera sì la posizione occupazionale come la prima discriminante, ma in modo concettualmente troppo confuso per essere utile. Infatti, i primi due grandi gruppi in cui viene suddivisa la popolazione di famiglie, che poi vengono successivamente articolati in base a una struttura analitica “ad albero”, sono da una parte quelle in cui la persona di riferimento (paradossalmente chiamata “principale percettore di reddito”, anche quando non ne percepisce affatto) è “inattiva o disoccupata oppure lavora ma si colloca nella fascia bassa delle retribuzioni (lavoratore atipico, cioè dipendente con contratto a termine o collaboratore, operaio o assimilato)”, dall’altra tutte le altre. Date le premesse, tutti i nove gruppi dell’Istat appaiono scarsamente plausibili sotto il profilo empirico e poco comprensibili sotto quello sostanziale, essendo aggregati eterogenei di soggetti in posizioni sociali e in condizioni di vita assai difformi tra loro.

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Cosa sono le “famiglie tradizionali della provincia”? Forse le famiglie tradizionali non esistono anche in contesti metropolitani? Come fanno i “giovani blu collar” ad avere un’età media di ben 45 anni? E cosa hanno in comune “le anziane sole e i giovani disoccupati” che quasi sempre vivono con i loro genitori? Difficile capirlo. Appare invece chiaro che con questa classificazione non sarebbe più possibile studiare la mobilità sociale. L’Istat ci ha presentato in passato ottimi dati sulle probabilità che ha il figlio di un operaio di entrare nella borghesia. Ora non potrà certo chiedersi se chi viene dal gruppo “anziane sole e giovani disoccupati” può passare alle “famiglie tradizionali di provincia” e da qui ai “giovani blu collar”.

Disuguaglianze all’interno dei gruppi

Il Rapporto evidenzia poi che gran parte delle diseguaglianze osservate fra gli appartenenti ai nove gruppi è spiegata da disuguaglianze interne ai gruppi invece che tra gruppi. Tuttavia, non prende il dato come prova della debolezza concettuale e metodologica del proprio esercizio, ma lo utilizza come base della propria tesi della frammentazione sociale e della sparizione delle classi.

L’analisi dell’Istat avrebbe potuto portare all’identificazione di un insieme discreto di livelli complessivi di benessere (o malessere) socio-economico. A quel punto, però, sarebbe stato necessario stabilire come questi livelli si distribuiscono entro le varie classi sociali o entro le varie categorie occupazionali. Se le classi fossero risultate internamente molto disomogenee, allora Istat avrebbe avuto un buon argomento per affermare che sono scomparse e non costituiscono più la base della stratificazione sociale. Ma così come stanno le cose, l’Istat finisce solo per contraddirsi una seconda volta.

Negli ultimi venti anni, gli istituti di ricerca privati hanno inondato i giornali di nuove, curiose tipologie sulla società italiana, durate lo spazio di un mattino. Ci auguriamo che l’Istat, un istituto pubblico con una lunga storia di serietà e di rigore, non voglia seguire la stessa strada. Nella comunità scientifica europea, per analizzare la stratificazione sociale e i suoi effetti, viene da tempo usato lo schema proposto dal sociologo inglese John Goldthorpe, assai simile agli schemi che l’Istat ha seguito in passato. Non sappiamo se ora l’Istituto intenda sostituirlo con il nuovo schema a nove gruppi che ci ha presentato. Se lo facesse sarebbe un passo indietro, che renderebbe impossibile rigorose analisi comparate.

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14 commenti

  1. Marco

    L’appiattimento verso il basso del 99% globalmente rende in effetti per l’ISTAT plausibili eventuali cambiamenti. Magari tentativi di cambiamento, pur rischiando di perdere parte dell’informativa e comparabilità verso il passato. Nulla mi leva ad ora dalla testa la banalizzazione per cui fino a che i sistemi capitalisti avevano come antagonista il secondo mondo che, con proposte sbagliate, cercava di rispondere alla diseguaglianza allora la diseguaglianza era anche nei primi quanto più contenuta. Anche rispetto ad altri valori, come quelli meritocratici. Oggi che quel contrappeso non c’è più e le conseguenze per le classi sociali non elitarie si vedono tutte, rinasce, sempre con proposte sbagliate, con i movimenti (partiti) antisistema (classicamente 5S in Ita), da questo punto di vista positivi. Non come proposta sensata o positiva, ma come contrappeso con fine di ridistribuzione dei redditi e inclusione sociale capace di mettere pressione al cosiddetto establishment affinché tenga in considerazione anche le lamentele delle classi più umili. In qualsiasi tassonomia ricadano.

  2. Alessandro

    Però rispondendo al questionario ho scoperto che per l’ISTAT sono al 100% Classe Dirigente.
    Dall’alto dei miei €. 26.000 lordi annui.

  3. Marco Di Marco

    L’ISTAT METTE LA CLASSE OPERAIA IN SOFFITTA? NON ESAGERIAMO
    Sinceramente, mi sembra un allarme ingiustificato. O, meglio, parzialmente giustificato dalla scelta dei “nomi” attribuiti ai 9 gruppi sociali, forse troppo eccentrica rispetto alla tradizione. A pagina 74 dell’ultimo Rapporto Annuale dell’Istat c’è una tavola in cui la nuova classificazione sperimentale viene incrociata con quella più tradizionale. Si scopre così che la cara vecchia classe operaia è riclassificata nei 3 gruppi “Famiglie a basso reddito con stranieri”, “Famiglie a basso reddito di soli italiani” e “Blue collar” (l’aggettivo giovani è per distinguerli dagli operai in pensione) e che il 90% della borghesia è finita nei gruppi benestanti delle “Pensioni d’argento” e della “Classe dirigente”. I dati Istat sono a disposizione di tutti, basta scaricarli da Internet: nulla impedisce a chiunque lo voglia di classificare e studiare la società italiana con criteri diversi da quelli scelti quest’anno dai ricercatori dell’Istat, che non hanno ovviamente la pretesa di cancellare il passato. Non condivido quindi il tono allarmistico delle critiche. Non siamo infatti di fronte ad un sacrilegio, ma ad un tentativo (discutibile) di innovare in una materia dove per troppo tempo hanno dominato la conservazione e l’ortodossia di chiara ispirazione ideologica.

  4. Mario

    Buongiorno, desidero porre una domanda: è vero che l’Istat da qualche anno è passato sotto il controllo del Governo?
    In caso affermativo, questo cambiamento potrebbe aver influito sul “cambio di rotta” rispetto alle tecniche di analisi utilizzate in passato? Grazie

  5. Savino

    Dal 2008 si è potuto notare che, quando piove, c’è chi ha più ombrelli e c’è chi non ne ha nemmeno uno.
    Questa è bipolarizzazione e sintesi delle classi sociali, nonchè segno delle disuguaglianze.
    Se continuiamo a togliere l’IMU ai castelli e alle ville, ad aumentare l’IVA sui beni di primo consumo, ad indicizzare solo le pensioni d’oro e d’argento di chi arriva a ricorrere fino alla Corte Costituzionale, a garantire sacche di privilegi di alcune categorie pubbliche e a chiudere occhi su ogni forma di evasione, a fare storie sugli 80 euro di chi si trova al limite della no tax area, a privare le giovani coppie della gioia di far crescere dignitosamente i propri figli, le disuguaglianze non potranno che aumentare.

  6. Alessandro Cavalli

    Concordo pienamente con e critiche soprattutto perché il nuovo schema non consente confronti intertemporali e comparazione inter-societarie. Ben vengano poi proposte di nuove concettualizzazioni e metodologie per cogliere i cambiamenti nelle disuguaglianze sociali, purché non siano fantasie estemporanee che durano una sola stagione.

  7. Giovanni Martino Rollier

    Interessante,pur fuori dal settore mi sembra razionale e di buon senso. Troppo tardi per combattere e ottenere intelligenti cambiamenti ?

  8. Maria Cristina Migliore

    Oltre ai limiti segnalati dagli autori e autrice, mi pare di individuare un altro altrettanto importante limite nel fatto di aver scelto di usare la famiglia come unità di analisi. La proposta dell’Istat di una ridefinizione teorico-metodologica dei gruppi sociali nasce dal proposito di analizzare le crescenti diseguaglianze sociali, ma aver utilizzato come unità di analisi la famiglia conduce a nascondere la diseguaglianza tra i sessi, o a esaminarla a valle della classificazione, con l’effetto di depotenziare la visibilità di questo fenomeno.

  9. MARCO ESPOSITO

    Condivido al 100%. Aggiungo il tema delle ripartizioni territoriali. Per molti fenomeni economici e sociali è importante conoscere il peso sui territori e in particolare nel Mezzogiorno, penso che la ripartizione in nove fasce fa finire sullo sfondo.

  10. Motta Enrico

    Non ho letto il Rapporto ISTAT, ma dai giornali mi è giunta la notizia che gli operai (o la classe operaia?) sono “scomparsi”. Ho capito male? O i giornali hanno riferito male quel che ha scritto l’ISTAT? Il numero di operai, nel secondo paese più industrializzato d’Europa, penso che sia di alcuni milioni. Mi piacerebbe conoscere la cifra, se possibile. Poi, se uno non vede entità di queste dimensioni, significa che ha qualche problema metodologico, la diciamo così.

  11. Henri Schmit

    Tema importante ed estremamente interessante che ricorda a tutti gli esperti di statistiche, econometrie e algoritmi quanto sia cruciale e NON NEUTRO il lavoro concettuale a monte. Evidente nella ricerca sociologica, vale anche altrove. Bombardati (e impressionati) da formule perdiamo di vista (lo studio de)i concetti.

  12. alberto ferrari

    Ho l’impressione che anche l’Istata sta cercando il proprio “storytelling” per impedirci di ragionare seriamente sulle trasformazioni, pericolose, in atto nel nostro paese. Un tempo si chiamava “fuffa”. Oggi si chiama appunto “storytelling”. Così più nulla risulterà comparabile e non spremo più ne chi siamo ne dove andiamo. Cui prodest?

  13. Marco Spampinato

    Forse il titolo devìa dal punto di metodo. La forza di categorie scientifiche è riuscire a rappresentare un tipo di omogeneità interna esclusiva, che predìca condotte diverse. Ad esempio, la categoria “oggetti animati con le ali” autorizza la previsione che chi ne faccia parte possa volare. Nell’analisi ISTAT – “concepts free” – il procedimento statistico individua gruppi usando il reddito come var. dipendente e sette var. esplicative: demografiche + titolo di studio + situazione professionale. La procedura è tipica delle segmentazioni della clientela di un supermarket: opera per step, con logica binaria, testando legami associativi deboli. E’ una classificazione flat, piatta. La pratica può essere interpretata come manifestazione di un habitus (Bourdieu) del (gruppo di) ricerca stesso? Statistici ed aziendalisti, con esperienza di ricerca per supermercati, distinguono i consumatori per reddito ed usano il resto per “qualificare” sottogruppi, prevedendone i consumi. E’ casuale la convergenza di pratica tra manager di supermarket e ricercatori ISTAT? O è frutto di un habitus comune? Sul risultato: es. x un “individuo con PHD”. Condizione e assegnazione: se (a) studia per una borsa di ricerca, è inattivo come un’anziana sola; ma se (b) convive con straniera, è fam. a basso reddito con stranieri; e se (c) ha una co.co.pro, è un blue collar; se (d) accetta un contratto di lavoro, è impiegato; infine, se (e) lavora a partita iva, è classe dirigente.

  14. Personalmente, trovo molto interessante che l’Istat, anziché imporre alla realtà categorie predefinite, faccia quello che ormai fanno anche le aziende, ossia adotti una clusterizzazione “data driven”.
    Chiaro che l’anno prossimo potrà essere diversa, ma appunto queste differenze potranno dare informazioni che altrimenti perderemmo. La critica mi pare insomma mal diretta: avrebbe più senso prendersela con la società che non segue le indicazioni dei sociologi…

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