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Su Google vince il fisco, perde il diritto

Google paga al fisco italiano 306 milioni di euro per chiudere il contenzioso. Oggi non è semplice far emergere la base imponibile di una multinazionale in un singolo paese. Ma è l’obiettivo da raggiungere. A partire da una proposta di direttiva europea.

Multinazionali e fisco

I fatti: Google ha definito la contestazione in corso col fisco italiano pagando 306 milioni; Apple ne ha pagati l’anno scorso 318.
Considerato che la definizione avviene attraverso un cosiddetto “accertamento con adesione”, che comporta il pagamento di sanzioni pari a un terzo dell’imposta e che si applicano ordinari interessi di mora per quanto a suo tempo non pagato, si può sommariamente concludere che quella effettiva (Ires+Irap) risulta dell’ordine di 200 milioni cui corrisponde una base imponibile di circa 645. Importi riferiti, peraltro, più annualità (almeno due per Google; quattro per Apple). Sono valori credibili? Impossibile affermarlo con certezza: ma il senso comune dice che non lo sono. Perché allora dall’Agenzia delle entrate (e dalla procura di Milano) si trattiene a stento la soddisfazione?
La verità è che raramente si è assistito a situazioni in cui era (ed è tuttora) sfacciata la distanza fra ciò che è percepito come “giusto” (Google deve pagare le tasse in Italia) e ciò che la legge dispone (Google è tenuta a pagare solo se sussistono certe condizioni). Le attività svolte in Italia da un’impresa multinazionale sono, infatti, qui tassabili solo se opera in Italia mediante una stabile organizzazione. Questa modalità operativa rimanda a concetti di fisicità che la web economy salta agevolmente. L’attività economica del comparto viaggia (può viaggiare) comodamente solo in rete, senza bisogno di uno stabilimento e neanche di uno stanzino. Ne consegue che non insedia alcuna stabile organizzazione in Italia perché non ne ha bisogno. Oppure la insedia, ma solo per servizi di natura fisica – di per sé poco profittevoli – evitando di farvi transitare le attività dematerializzate più redditizie. Conclusione: ridottissime basi imponibili in Italia. Realizzo di profitti altrove, meglio se in paradisi fiscali.
La situazione è comune a buona parte dei maggiori paesi UE e ci si interroga su come porvi rimedio. In sede Ocse il gruppo Beps (Base erosion and profit shifting) è da tempo al lavoro, ma i risultati scarseggiano. In Gran Bretagna si è tentata la via della diverted profit tax, che si sostanzia nell’attribuzione di rilevanti poteri antielusivi nelle mani dell’amministrazione finanziaria in tema di stabile organizzazione.
Il sistema italiano è fermo sul piano normativo; ma sta reagendo, nei fatti, combinando l’azione della magistratura con quella del fisco. Si è così creata la categoria davvero originale della “stabile organizzazione occulta”. Dicitura che emerse quasi venti anni fa col caso Philip Morris e che si riproduce oggi con Google. È basata sul reperimento di documenti (come comunicazioni, procure, viaggi di personale, transiti bancari) che consentono di affermare che quelle attività profittevoli gestite direttamente dall’estero devono, in realtà, essere attribuite a quella minimale organizzazione italiana presente sul territorio e, quindi, ivi tassate (vis attractiva della stabile organizzazione). Insomma, si usano piccole ingenuità o disfunzioni organizzative per confermare tesi che farebbero altrimenti fatica a stare in piedi. Non a caso il concetto di “stabile organizzazione occulta” non è stato, in venti anni, ripreso da alcuna amministrazione o giurisprudenza di paesi che pure vivono la stessa nostra problematica.

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Soluzione dalla proposta di direttiva europea

Ma perché, allora, le due multinazionali hanno accettato una così onerosa transazione? Le ragioni che portano a preferirla a un lungo contenzioso sono diverse. La prima è di ordine comunicativo: vedersi descritti come evasori fiscali fa male all’immagine scintillante e innovativa che queste imprese vogliono presentare. La seconda è più autentica e meno confessabile: non ci si fida né del fisco né della giustizia italiana. Gli argomenti giuridici che stanno alla base della “stabile organizzazione occulta” sono, infatti, assai modesti; reggono solo perché è avvertito lo squilibrio fra norma scritta e sua capacità di regolare un fenomeno altrimenti del tutto intangibile. In queste situazioni la multinazionale fa i suoi conti e sceglie per il meno peggio. Pagare un’imposta non dovuta, a volte, può essere più saggio che opporvisi. Tanto la base imponibile vera resta ben nascosta perché non ne vengono rivelate le componenti.
Ma è proprio la loro emersione l’obiettivo da porsi e non può venire che dal raccogliere informazioni sui flussi di denaro che provengono dall’Italia e vanno verso un paese estero. Queste informazioni stanno alla base della proposta di direttiva Ccctb (Common Corporate Consolidated Tax Base) che, non a caso, non si cura dei redditi dichiarati dalla stabile organizzazione ma ripartisce la base imponibile comune (ahimè, al momento, solo europea) esclusivamente in relazione ad alcuni parametri, il più rilevante dei quali è proprio il luogo di produzione dei flussi economici. La proposta, in consultazione, è stata respinta dagli uffici competenti di alcuni paesi UE, Irlanda e Lussemburgo in testa, mentre è stata approvata, tra gli altri, dall’Italia. Certo è che il nodo sta nel rendere obbligatorie le informazioni sui flussi dei pagamenti per applicarvi un criterio di ripartizione della base imponibile che prescinda dal reddito e si concentri sugli esborsi di ciascun paese (come fa, sostanzialmente, la Ccctb). E alcune proposte di legge italiane sembrano muovere proprio nella stessa direzione (vedi il disegno di legge AS 2526/2016 presentato dal senatore Mucchetti).

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  1. Giuseppe Gargiulo

    Non sono d’accordo con l’asserzione che abbia perso il diritto . Né con l’asserzione secondo cui il concetto di stabile organizzazione occulta (ossia di stabile organizzazione non dichiarata, ma nascosta all’interno della struttura organizzativa di una società controllata residente, apparentemente incaricata solo di svolgere servizi ancillari di consulenza a favore della casa madre) è un espediente tipico della sola esperienza giuridica italiana. Analoghe contestazioni ci sono stati in diversi paesi esteri verso Google, Amazon, etc.
    In attesa che le organizzazioni sovranazionali possano trovare nuove leggi e nuovi accordi di ripartizione delle basi imponibili, è evidente che l’unica scelta è lavorare, anche forzando la mano con azioni unilaterali, sui concetti esistenti, la cui interpretazione va adeguata al nuovo contesto economico ed alle nuove istanze sociali, consapevoli che il diritto non esiste al di fuori dal suo processo interpretativo e che le finanze mondiali possano essere tenute in scacco da piccoli espedienti elusivi .
    Il motivo per cui accettano questi accordi è che quello che è un sano realismo e la consapevolezza che quanto stanno pagando, nei vari paesi, è comunque una una somma assai modesta rispetto agli utili enormi che stanno accumulando in esenzione di imposta in vari paesi offshore, con la compiacenza anche di una lacunosa legislazione antielusiva in materia da parte degli USA (paese di residenza della rispettive case madri)

    • Marco

      Giuseppe, non è stato nascosto nell’articolo come sia evidente la sproporzione tra l’imponibile contestabile ed il vero guadagno che questo tipo di società miete (solo) nei Paesi al di fuori dal loro paradiso fiscale di residenza ufficiale. Però il diritto non dovrebbe trattare in maniera impari i soggetti per simpatia personale o velleità alla Robin Hood. Per assurdo, fino a che democraticamente (quindi, magari, mai) non si partorisce un’aliquota al 60% su chi guadagna molti milioni di euro, nessun giudice dovrebbe avere potere di costringere chi guadagna milioni di euro a “devolvere” allo Stato un intero 60% dei suoi guadagni. Nemmeno in un mondo in cui costui è circondato da incapienti veri, e in cui egli è brutto e antipatico. Per quanto io e te possiamo invece essere favorevoli.
      Allo stesso modo, il concetto di stabile organizzazione occulta è un concetto al limite del ridicolo. Proprio per il semplice fatto che Google non necessita di alcuna stabile organizzazione per operare, occulta o lapalissiana che sia. Sarebbe come, in attesa di una legge sull’omicidio, arrestare per guida in stato di ebrezza un assassino privo di auto. Fine giusto, metodo meno. Soprattutto per due motivi: 1) egli sconta meno del dovuto (come Google quando patteggia cifre sì grandi in assoluto, ma in percentuale irrisorie sugli utili globali) e 2) una giustizia (anche tributaria) che lavora in questo modo oggi colpisce un nemico comune, ma domani può colpire chi meno o per nulla merita condanna

      • Giuseppe Gargiulo

        Nessuno invoca una aliquota sugli utili societari o d’impresa del 60% e tanto meno il potere di un giudice di stabilirla discrezionalmente. In Italia, in ogni caso, aliquota utili societari è del 24% (prima 27%), quindi ben lontano dal 60% da esproprio di cui tu accenni.
        A mio giudizio, la tua osservazione fraintende completamente il senso di quello che volevo dire. Probabilmente perché non sono stato chiaro io. Che il tema della cosiddetta stabile organizzazione occulta sia un concetto al limite del ridico, come affermi tu, parimenti mi sembra una affermazione non condivisibile, basta scorrere tutta la letteratura internazionale su tema. Digita “subsiadary as a permanente establishment” e vedi cosa ti viene fuori sui motori di ricerca. Che google e gli altri giganti del web per vendere i loro servizi nei vari mercati locali in cui sono presenneti in modo più diffuso (es. per vendere pubblcità, assistenza tecnica e post vendita, c. piattaforme web etc, mercati virtuali, etc.) non abbiano bisogno di una stabile organizzazione (personale o materiale) di impresa nie vari stati è parimenti non vero, solo che la occultano all’interno di società di servizi “captive” di gruppo a cui fingono di far fare solo servizi ancillari. In ogni caso il concetto di stabile organizzazione deve essere interpretato in modo evolutivo secondo i principi di buona fede e conformità allo scopo dei trattati al fine di adeguarlo al nuovo contesto economico e tecnologico.

  2. Henri Schmit

    Una goccia nel mare! I sistemi fiscali già in difficoltà con la vecchia economia non sono attrezzati per “com-prendere” le attività dell’economia digitale virtualmente senza territorialità. Non bastano le vecchie categorie. Piuttosto che sconfitta del diritto, si tratta forse di un tentativo di conquistare nuovo territorio ancora da “civilizzare”. Ha ragione l’autore quando sostiene che la condizione per qualsiasi soluzione è la trasparenza dei flussi. Non ci sono mai stati margini di guadagno durevoli come quelli dei leader del settore digitale, mai dei patrimoni immensi creati in poco tempo come quelli dei loro fortunati proprietari. Basta guardare le capitalizzazioni in borsa, riflesso dei futuri utili.

  3. Lorenzo

    Unica soluzione è un accordo preventivo alla maniera Svizzera;

    L’agenzia delle entrate deve conoscere bene, come un’ Equity Research House (o aiutandosi con le ricerche e business plan proposti dalle società stesse) il business della multinazionale di turno e capire qual’è, secondo una banale teoria di gioco, il livello di break-even per la multinazionale per rimanere nel paese (inteso come vantaggio nel fruire del mercato di consumatori).
    Insomma l’Agenzia delle Entrate deve assolutamente avere una buona, anzi ottima stima di quale sia il giro di affari di cui google può godere rimanendo in Italia, e in funziona di quello, anno per anno, chiede a google di pagare un prezzo, il più alto possibile, che comporti cmq la convenienza per Google di rimanere nel paese del cui mercato sta usufruendo, e che al contempo la obblighi a apgar eil più possibile.

    Le logiche di tassazione in base a fatturazione, bilanci, bolle e altre scartoffie è inaffrontabile nei confronti di una multinazionale.

    Bisogna ragionare a ritroso: tu Google guadagni circa 500mln all’anno per stare in Italia? 250mln li dai al fisco. Non ti piace? ti faccio chiudere e ti oscuro i server.
    Idem Amazon, Facebook, Apple e compagnia cantante.

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