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Economia al tempo della Brexit: da dove arrivano le nubi

Per ora la Brexit non sembra aver prodotto effetti negativi sull’economia britannica, al di là della svalutazione della sterlina. Problemi gravi possono derivare dalla posizione dura assunta dall’ala anti-europea dei conservatori sui temi del commercio e soprattutto su quelli dell’immigrazione.

Segnali confusi dall’economia

I dati di fine settembre dell’economia del Regno Unito sono in linea con le aspettative della vigilia. La crescita del prodotto interno lordo alla fine di giugno è stata un rispettabile 2,1 per cento su base annua e 0,7 per cento nel secondo trimestre. La crescita annua degli Usa è stata dell’1,3 per cento, quella dell’area dell’euro dell’1,6 per cento, quindi l’economia britannica cresce abbastanza bene nei confronti internazionali. Almeno, cresceva fino a giugno. Questo è l’ultimo trimestre a non essere influenzato dal voto del referendum sulla Brexit. Difficile dire se la maggiore incertezza che l’economia britannica inevitabilmente ha subito e continuerà a subire dal giorno del voto si tradurrà in una minore precisione delle previsioni economiche. Difficile anche dire quando la riduzione della crescita prevista (quasi) unanimemente dai vituperati esperti comincerà a far sentire i suoi effetti sui risultati economici. Nei tre mesi trascorsi dal voto non sembrano esserci segni che la crescita abbia rallentato. Il motivo è che gli effetti negativi sull’economia inglese saranno causati da fattori che operano nel medio periodo.
Uno dei pochi effetti visibili sulle misure economiche è la sostanziale svalutazione della sterlina: ha raggiunto minimi rispetto al dollaro che non vedeva dal 1985, mentre rispetto all’euro si è già abbassata al livello del 2013, e non è ovvio quando si fermerà la discesa.
La svalutazione porterà nel medio termine a un miglioramento della bilancia commerciale, tramite l’aumento delle esportazioni e la riduzione delle importazioni. Ma c’è sempre un intervallo tra l’aumento dei prezzi di prodotti di importazione e la riduzione della domanda che ne deriva, dunque nel breve periodo ci sarà un ulteriore aumento del deficit commerciale (la curva J dei manuali): chi ha già pianificato la settimana bianca per quest’inverno non la cancellerà perché alberghi e skipass costano il 20 per cento in più di quando aveva prenotato. La svalutazione porterà anche un aumento dei prezzi interni, ma, con l’inflazione vicina allo zero, nessuno, nemmeno chi ha redditi fissi in termini nominali, lo considera un problema.

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Ma il vero rischio è la retorica anti-stranieri

Se la svalutazione della sterlina suggerisce che i mercati non vedono un futuro particolarmente roseo per l’economia britannica, altri indicatori danno segnali opposti. Dopo un crollo nella rilevazione immediatamente successiva al voto di giugno, la fiducia dei consumatori, un indice calcolato in base alle risposte di circa duemila persone e altri indicatori, ha sfidato le previsioni ed è ritornata al livello su cui si era assestata nel 2016, quando aveva valori simili a quelli pre-crisi, cioè nella prima metà degli anni Duemila. Stessa cosa per il tasso di disoccupazione che, così come in Germania, si è portato a livelli che non si vedevano da prima della crisi del petrolio degli anni Settanta. Come in uno specchio, i posti di lavoro disponibili sono a livelli altissimi. Se la retorica autarchica, al limite del razzismo, ostentata dalla ministra dell’Interno Amber Rudd all’isterico congresso dei conservatori, e chiaramente concepita per dimostrare di essere più “brexista del duce”, si tradurrà in azioni concrete volte a ridurre la manodopera straniera ci saranno senz’altro danni seri all’economia. Agricoltura, turismo, le università e il servizio sanitario nazionale sarebbero i primi settori a soffrire duramente se davvero diventasse difficile assumere lavoratori stranieri. Mentre la prima ha un valore più che altro simbolico, e comunque esistono impieghi alternativi per la terra, gli altri tre settori, e gli altri ancora che patiranno in seguito le conseguenze della scarsa disponibilità di manodopera, subiranno riduzioni qualitative che solo nel tempo avranno ripercussioni misurabili dalle statistiche economiche. I turisti continueranno a venire a Londra, magari per un po’ attratti dalla sterlina bassa, ma, alla lunga, la minore esperienza o la carenza di personale negli alberghi causerà un deterioramento della qualità del servizio. A sua volta questo produrrà litanie di lamentale rese pubbliche da Tripadvisor e da altri social media e renderà più difficile attrarre turisti. Al di là delle differenze contingenti, la stessa cosa vale per le università: se la mia – l’università di Nottingham – annuncia un posto di professore di economia, riceve sulle due-trecento domande: di queste circa una decina è di candidati britannici. Se gli stranieri smettessero di far domanda – ed è ovvio che in un clima in cui gli stranieri sono malvisti i migliori sceglierebbero di lavorare altrove –, i cittadini britannici che vorranno diventare professori avranno sì strada più facile, ma la riduzione della qualità della ricerca e della didattica che ne deriverebbero ridurrebbe la domanda da parte di studenti stranieri (a loro volta non certo incentivati dal promesso inasprimento ai permessi di studio), con conseguenze negative per la salute del sistema universitario inglese.

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  1. Emanuele

    Riguardo la questione del tasso di cambio della sterlina sarebbe interessante approfondire sul perché sia rimasto così elevato così a lungo, pre brexit, in presenza di una bilancia commerciale in elevato deficit.

  2. Bruno Cavazzuti

    Gentile Professore,
    non ci sono dubbi che l’economia britannica sia andata bene fine a giugno, cioè prima del voto. Quello che secondo me non ha messo in evidenza é l’impatto del calo del GBP sulla redditività delle imprese che importano prodotti, materie prime o finite che siano, in valute diverse dal GBP, e mi riferisco, per esempio, ai casi di Easyjet e di Sports Direct, che hanno rivisto al ribasso gli utili in questi giorni a causa del crollo del pound, e sono solo i primi. E che passeranno questi aumenti ai consumatori. Tutto questo, ma nessuno di noi due lo può prevedere, senza considerare l’impatto che avranno le negoziazioni dell Brexit sull’economia britannica.
    Magari la prossima volta che passo per Nottingham a trovare mia cognata, che insegna li, ci facciamo una chiacchierata.

  3. Gabriele Pucci

    Gentile professore, la sua analisi mi sembra un tentativo maldestro di convincere gli europei all’Eurexit. Miglioramenti della bilancia commerciale e maggiori opportunità di lavoro per i residenti. Mi sembra che anche Lei abbia molti dubbi sull’opportunità dell’UE. Saluti da Siena.

  4. Henri Schmit

    Quid del mercato immobiliare, particolarmente liquido ed efficiente, soprattutto a Londra, e quindi ottimo indicatore economico? La variazione dei prezzi indica realtà e previsione della domanda, espressione diretta dell’attività, degli utili e dei salari. Nel frattempo gli investitori esteri hanno già perso sul cambio.

  5. La svalutazione, come sostengono gli anti-euro, aiuta chi esporta e danneggia chi importa. EasyJet e SportsDirect sono aziende che importano, quindi dovranno aumentare i prezzi, e i loro prezzi relativi aumenteranno: gli inglesi andranno più al ristorante e compreranno meno vestiti, e in vacanza a Blackpool invece che in Croazia. In realtà i problemi di queste due imprese sono altri, legati alla loro gestione (inefficiente l’una, boicottata l’altra). E sono d’accordo che l’esito della negoziazione influenzerà l’economia nel medio-lungo period. Quello che secondo me pochi dicono è che il problema maggiore dell’UK sarà la carenza di manodopera dovuta all’ateggiamento verso gli immigranti, ancor più che quello che verrà causato dalla riduzione dell’accesso al mercato europeo.

  6. Cameron (l’UK) detestava Juncker (cioè il Lx), non solo perché questo era in sintonia con D e F, ma soprattutto: i grandi operatori internazionali (non solo Apple, Google, Amazon, ma anche GE, 3M, costruttori auto giapponesi, banche cinesi, gestori americani etc) non europei, desiderosi di lavorare in UE devono decidere dove insediarsi; la scelta è funzione di 1. convenienza fiscale (l’UK post-Brexit sarà facilmente competitiva), di convenienza regolamentare (l’UK rischia di perdere pesantemente contro i suoi concorrenti europei; il Lx da ormai 40 anni si posiziona sistematicamente sulle scelte più flessibili, più aperte, più permissiva concesse dai regolamenti UE; l’argomento vale soprattutto in materia finanziaria, cavallo di battaglia della City; 3. il tasso di cambio, anello debole dell’UK (a meno che adotti, come la CH, una politica il più possibile in sintonia con BCE). Toyota ha dichiarato che qualsiasi decisione d’investimento in UK è rinviata a maggior chiarezza; il tema era già acuto 16/20 anni fa quando venne deciso l’euro e la partecipazione dei singoli stati. 4. Fattori culturali (lingua, expertise professionale del capitale umano), politici (stabilità, continuità del quadro regolamentare in senso lato, fiscalità compresa) e infrastrutturali. L’UK rischia grosso. L’Italia avrebbe un’opportunità, se riuscisse a definire un orizzonte chiaro (consenso politico) su almeno 5/10 anni. (il riformismo litigioso va nella direzione opposta).

  7. Henri Schmit

    A qualche settimana di distanza il quadro è più chiaro: La May si gioca tutta sul punto 1. del mio commento (la fiscalità) e l’UE si difenderà con il punto 2. (il passaporto di libera prestazione di servizio). Il VP tedesco del PE ha annunciato che non si faranno sconti all’Uk. Alla fine sarà una partita loose-loose per UE e per UK, da far piangere.

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