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Fondi di ricerca europei, università italiane in ritardo

Il programma quadro europeo per la ricerca e lo sviluppo per gli anni 2007-2013 ha messo a disposizione di università ed enti circa 50 miliardi di euro. I progetti italiani se ne sono aggiudicati solo il 6 per cento. Azioni da intraprendere per migliorare la capacità progettuale dei nostri atenei.

I programmi europei per la ricerca e lo sviluppo

I risultati ottenuti dalle università italiane nella ricerca sono di tutto rispetto se si guarda agli indicatori di produttività scientifica basati sul numero e la qualità delle pubblicazioni, come ribadito recentemente anche su questa rivista. Tuttavia, i dati sulle pubblicazioni scientifiche offrono una prospettiva parziale: la bravura dei gruppi o dei singoli ricercatori non necessariamente si trasforma in capacità di competere in modo sistematico sul mercato globale della ricerca e ottenere risorse finanziarie cruciali per la sostenibilità delle attività, per l’innovazione e, in definitiva, per favorire crescita e occupazione. Quanto sappiamo della capacità delle nostre università di partecipare ai network internazionali di eccellenza e di essere competitive assicurandosi, per esempio, le importanti risorse messe a disposizione dai Programmi quadro europei per la ricerca e lo sviluppo tecnologico? Quali sono i vantaggi di partecipare e cosa si può fare per migliorare? Un recente studio realizzato per la Commissione europea sulla partecipazione delle università ai Programmi quadro per la ricerca mostra che l’Italia potrebbe ambire a raggiungere risultati molto più soddisfacenti. Il 7° Programma quadro ha messo a disposizione oltre 50 miliardi di euro nel periodo 2007-2013, con la finalità di rendere l’Unione europea l’area leader mondiale nella ricerca. Le università europee che hanno partecipato al Programma sono quasi 1.300, per un totale di oltre 19mila progetti, iniziative di supporto della mobilità dei ricercatori e per il rafforzamento delle infrastrutture, per un valore di circa 39 miliardi (di cui 19 andati alle università e il resto ad altri partner di progetto). Per quanto riguarda l’Italia, ottantacinque università hanno preso parte a oltre 2.900 progetti (il 15 per cento di quelli universitari finanziati) e ricevuto risorse pari a circa 1,2 miliardi. Si tratta di una quota del 6 per cento del totale destinato alle università, che ci mette al pari di Svizzera e Svezia, paesi più piccoli ma più attivi (per altro la Svizzera non fa parte della UE). La situazione si fa ancor più deludente se si considera che il nostro paese è riuscito a recuperare solo l’8 per cento circa delle risorse totali disponibili, mentre ha contribuito al budget del programma per circa il 13 per cento: altri paesi – per esempio l’Olanda – “incassano” molto più di quanto “spendono”. Il tasso di successo dei progetti italiani è sotto la media, a testimoniare uno sforzo in parte improduttivo.

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Figura 1 – Primi 10 paesi partecipanti al 7° Programma quadro europeo per la ricerca e lo sviluppo tecnologico per quota di finanziamento ricevuto dalle università sul totale UE

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Fonte: European Commission, DG Research and Innovation, An analysis of the role and engagement of universities with regard to participation in the framework Programmes (Ismeri Europa, Politecnico di Torino, Ircres-Cnr)

Perché partecipare

Le analisi mostrano che la partecipazione ai programmi europei produce effetti positivi. Per esempio, sulla qualità della ricerca, sulla collaborazione con le imprese, sulla capacità di fornire servizi per il trasferimento tecnologico e di generare spin-off. Il 70 per cento delle pubblicazioni scientifiche che derivano dai progetti europei compaiono su riviste di alta qualità. Oltre il 60 per cento dei progetti a cui partecipano le università coinvolgono imprese private e la collaborazione tende a continuare oltre la durata dei progetti nella maggioranza dei casi. Il punto cruciale è che la partecipazione innesca dinamiche virtuose che si autoalimentano: più si partecipa, più si accumula esperienza e si diventa bravi a competere. Difatti, pochissime sono le novità nella classifica dei primi dieci istituti nel 7° Programma quadro rispetto al precedente (il Programma quadro attivo nel periodo 2000-2006).

Come e cosa migliorare

Certamente il nostro sistema dell’istruzione e della ricerca universitaria necessita di ulteriori riforme strutturali che lo rendano più autonomo e competitivo, capace di attrarre e trattenere i ricercatori migliori, giovani e meno giovani, e libero di dedicare il tempo e le risorse necessarie alla ricerca, in particolare quella applicata. Alcuni miglioramenti si possono apportare subito per ciò che riguarda la capacità progettuale delle università. Per esempio, le università leader hanno creato strutture specifiche per sostenere la partecipazione a progetti internazionali, mantengono contatti sistematici con Bruxelles e incoraggiano i ricercatori a partecipare alla valutazione dei progetti europei. Un’altra azione utile può essere attuata dalle regioni e dall’amministrazione centrale. Consiste nell’utilizzare sistematicamente una quota delle risorse dei fondi strutturali per attività di formazione, tutoraggio e assistenza tecnica ai team di ricerca e al personale amministrativo, oberato da una burocrazia interna complessa, per migliorare la capacità di preparare e gestire i progetti europei. Imparare dai più bravi e accumulare esperienza è fondamentale per sfruttare nel modo migliore le opportunità dell’8° Programma quadro (Horizon 2020) che mette a disposizione circa 80 miliardi. L’obiettivo è cruciale: far sì che l’Europa produca risultati scientifici di primo piano, rimuovere le barriere all’innovazione e facilitare la cooperazione pubblico-privata nella produzione di innovazioni tecnologiche.

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Tabella 1 – Prime dieci università in Europa e in Italia per risorse ottenute dal 7° Programma quadro europeo per la ricerca e lo sviluppo tecnologico

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  1. Marco Antoniotti

    “Consiste nell’utilizzare sistematicamente una quota delle risorse dei fondi strutturali per attività di formazione, tutoraggio e assistenza tecnica ai team di ricerca e al personale amministrativo, oberato da una burocrazia interna complessa, per migliorare la capacità di preparare e gestire i progetti europei.”

    Domanda: quali fondi?

    E: se colleghi “Inglesi” mi dicono “no non siamo interessati a partecipare a progetti H2020 dato che abbiamo già fondi nazionali”, cosa rispondiamo alla domanda “quali fondi”?

    Per quanto poi riguarda la “burocrazia interna complessa”, cosa si intende fare?

    Personalmente, ritengo che ogni risposta che parli di “competitività” *prima* di aver assicurato risposte alle domande di cui sopra, lascia ampiamente il tempo che trova.

    A presto

    Marco Antoniotti

    • A.C.

      Le proposte avanzate mirano a migliorare la capacità di progettazione e il tasso di successo dei progetti. Non risolvono tutti i problemi, tra cui quelli che lei giustamente sottolinea: spesa per ricerca insufficiente e burocrazia eccessiva.

  2. “Piccoli” dettagli mancanti. L’Italia ha, tra i suoi competitor diretti, il minor numero di ricercatori per migliaia di abitanti (un terzo dei paesi scandinavi, metà di Germania, Francia etc). I finanziamenti alla ricerca di base sono praticamente stati azzerati. Con questi dati si fa fin troppo.

    • A.C.

      Giusto, il numero dei ricercatori in percentuale della popolazione è più basso e si tratta certamente di un problema. Tuttavia anche il tasso di successo delle proposte italiane è più basso della media: Molti progetti non vengono approvati e su questo forse si può intervenire migliorando la qualità della progettazione.

      • L’effetto non lineare della massa gioca un ruolo fondamentale, come pure la bassa sinergia con le aziende, guidate da una delle classi imprenditoriali più arretrate dell’Occidente. Dati da ricordare, soprattutto su un blog come lavoce.info, che ha ospitato le esternazioni di vari economisti che hanno per anni predicato la riduzione del sistema universitario, l’eccessivo numero del personale, la “chiusura del rubinetto”. Il tutto a partire da contestabilissimi report nei cui titoli si accennava ad un non ben verificato isolamento internazionale dell’università italiana. Forse è il caso di riconoscere che oggi la prima cosa da fare è mettere fondi e soldi, e, da parte di qualcuno (non certo l’estensore di questo articolo), di riconoscere i propri errori.

  3. Nell’analisi si dovrebbe tenere conto anche del CNR che insieme ai suoi omologhi francesi e tedeschi sono stati gli enti che hanno avuto più fondi. Ma resta sempre il fatto che l’Italia riceve meno di quando da. Riguardo H2020 molti programmi richiedono una collaborazione con industrie e in Italia questo è limitante specie per le grandi imprese, mentre sul fronte della ricerca di base il confronto fra ERC vinti da italiani e programmi FET vinti da università dimostra ancora di più la necessità di nuovi fondi Italiani su ricerca di base che ci consentono poi di partecipare a questi bandi europei

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