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Quattro scenari per l’occupazione*

Nel 2015 l’occupazione in Italia è cresciuta. Soprattutto sono aumentate le posizioni a tempo indeterminato. Merito anche della decontribuzione. Per il 2016 logico attendersi un consolidamento del livello raggiunto. Ma cosa succederà quando gli incentivi termineranno? Quattro possibili scenari.

Cresce l’occupazione

La recente pubblicazione da parte dell’Inps dei dati relativi ad assunzioni, trasformazioni e cessazioni dei rapporti di lavoro consente di valutare con precisione le dinamiche dell’occupazione dipendente nel 2015 nel determinante aggregato costituito da industria e terziario privati (al netto del lavoro domestico). La prima evidenza netta è la crescita dell’occupazione. Già nei dati Istat/Rfl di dicembre emergeva nitida (per l’occupazione dipendente totale: +299mila la variazione tendenziale sui dati grezzi; +247mila il dato destagionalizzato); per Inps la variazione netta, corrispondente alla differenza tra le posizioni di lavoro in essere al 31 dicembre 2015 e quelle al 31 dicembre 2014, è pari a 606mila. Il segno è identico a quello dei dati Istat, la dimensione della crescita più marcata. La seconda evidenza, ancor più netta, è il ruolo esclusivo nella crescita delle posizioni di lavoro a tempo indeterminato aumentate di 764mila unità, mentre per l’insieme di apprendistato e lavoro a termine la variazione è negativa (-159mila). Anche per Istat la crescita dell’occupazione dipendente è attribuibile soprattutto al tempo indeterminato (+214mila la variazione tendenziale a dicembre nei dati grezzi, + 135mila nei dati destagionalizzati) ma a essa si associa anche la crescita degli occupati a termine (+ 85mila nei dati grezzi, + 113mila nei dati destagionalizzati). Si tratta, tra Inps e Istat, di differenze – dovrebbe essere fin inutile ripeterlo – insopprimibili (diverso universo di osservazione; diverso riferimento temporale) ma non inspiegabili, soprattutto se il confronto tra i risultati emergenti dalle diverse fonti viene contestualizzato con dati di medio periodo. Di sicuro, per l’universo osservato (vale a dire quasi tutto il settore privato: ai fini occupazionali si tratta della parte più consistente e determinante della struttura produttiva), i dati Inps sono assai solidi. Per due ragioni: la coerenza interna (la distribuzione della crescita tra settori, territori, tipologie di orario, qualifiche) e, soprattutto, la corrispondenza con quanto messo in luce da un’altra fonte amministrativa indipendente, vale a dire le comunicazioni obbligatorie delle imprese al ministero del Lavoro e ai centri per l’impiego (vedi i report trimestrali del network SeCo). Vale pochissimo, invece, l’argomentazione che contrappone le variazioni calcolate sulle teste (il numero di occupati in più o in meno) e le variazioni calcolate sui rapporti di lavoro. È vero che un occupato può essere titolare di più posizioni di lavoro, ma la variazione delle posizioni di lavoro a tempo indeterminato è spiegata solo marginalmente dalla variazione del numero di occupati con più posizioni di lavoro sempre a tempo indeterminato (è il caso dei doppi part-time). L’ordine di grandezza della crescita dell’occupazione a tempo indeterminato (posizioni di lavoro come pure occupati) – con il ruolo evidente dell’esonero (oltre il 60 per cento dei nuovi rapporti a tempo indeterminato) – è dunque da assumere in tutta la sua portata.

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I quattro scenari

L’interrogativo ora è: cosa può accadere prossimamente al mercato del lavoro italiano dopo che le imprese hanno fatto il pieno di occupazione, ben oltre quanto i dati macroeconomici (Pil, aspettative, per esempio) possono spiegare? Appare logico attendersi per il 2016 sostanzialmente un consolidamento del livello raggiunto a fine 2015, che rappresenta un notevolissimo recupero rispetto alle perdite degli anni precedenti: è difficile – per quanto sperabile e necessario – immaginare, in un orizzonte annuale, ulteriori risultati. Mentre si ridurranno certamente i flussi, al netto di quelli dovuti a turnover di lavoratori, a nascita/morte di imprese, a sostituzioni, a stagionalità. In particolare, saranno influenti – e importanti da osservare, per gli effetti non solo sul 2016 ma su tutti i prossimi tre anni – i tassi di sopravvivenza dei rapporti di lavoro che nel 2015 hanno beneficiato dell’esonero. A questo riguardo il grafico 1 individua quattro possibili scenari alternativi.

  1. L’artificializzazione del mercato del lavoro (l’occupazione drogata). Si assume che tutti i rapporti esonerati sono nati e durano solo in funzione dell’esonero triennale. Sono dunque tutti ancora vivi a fine 2015, rimangono tali per il 2016 e il 2017, muoiono tutti nel 2018 man mano che raggiungono i tre anni di durata (complice, secondo alcuni, la disciplina dei licenziamenti innovata con il Jobs act). È uno scenario semplice, ma del tutto irrealistico, immaginabile da chi frequenta poco o distrattamente i dati analitici sul funzionamento del mercato del lavoro in Italia.
  2. Lo scenario “normale”: i tassi di sopravvivenza dei rapporti nati nel 2015 e beneficiari dell’esonero rimangono gli stessi osservati negli ultimi anni per l’insieme dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, come ricavabili ad esempio dalle elaborazioni realizzate da Veneto Lavoro sia su dati regionali (a partire dalla Misura 8/2008 in www.venetolavoro.it) che nazionali (di fonte ministero del Lavoro – Cico). In altre parole l’esonero ha fortemente aiutato la nascita di questi rapporti di lavoro per assunzioni o trasformazione, ma non ne modifica la speranza di vita. Sui livelli occupazionali si ripercuote solo il “salto” intervenuto nel 2015.
  3. Lo scenario “virtuoso”(incentivo al maggior utilizzo del capitale umano): l’esonero funziona come incentivo non solo alla nascita di rapporti a tempo indeterminato, ma anche all’aumento del loro mantenimento. Ciò si concretizza in tassi di mortalità inferiori a quelli “normali” lungo il triennio, che possono subire una modesta accelerazione con la fine dell’esonero, fino – al limite – ad avvicinarsi a quelli “normali”.
  4. d. Lo scenario “vizioso”: l’esonero funziona come nel caso precedente ma con la fine dell’esonero i tassi di mortalità accelerano vistosamente, fino a ridurre tutto il beneficio derivante dalla maggior natalità del 2015.
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Grafico 1

Anastasia

Una combinazione tra gli scenari “b” e “c” appare, ragionevolmente, la più probabile. Potrà essere convalidata solo dal monitoraggio e dalla ricerca analitica attorno alle cause e agli effetti di quello che è stato un vero shock per la dinamica di assunzioni e trasformazioni, un grande esperimento da continuare a indagare.

 

 

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12 commenti

  1. Michele

    Difficile capire come interpretare di questi dati INPS. Nel comunicato stampa del 16/2 Inps ci dice che le assunzioni sono state 5,4 milioni e il saldo netto + 0,6 milioni. Ci dice però anche che il campo di osservazione riguarda 11.7 milioni di lavoratori al dicembre 2014 (lavoratori dipendenti del settore privato e enti pubblici economici). Questo vorrebbe dire che ogni lavoratore cambia lavoro mediante ogni 2 anni, cosa assolutamente inverosimile.

    • Maurizio Cocucci

      I dati Inps, a differenza di quelli Istat, sono certi però occorre tenere presente che si riferiscono al numero di contratti e non alle persone. Il dubbio che lei solleva a questo riguardo è spiegabile osservando la composizione di questi 5,4 milioni di nuovi contratti per l’anno 2015, dei quali 1,87 milioni sono quelli a tempo indeterminato mentre sono ben 3,35 milioni quelli a termine e questo numero benché elevato non è sorprendente in quanto chi ha rapporti di lavoro a termine facilmente ne registra più di uno all’anno. Un esempio sono i camerieri che spesso lavorano a chiamata e per periodi brevi che possono anche essere di una settimana e che in questo modo nell’arco di un intero anno collezionano un numero consistente di contratti visto che nei periodi in cui non svolgono questa attività si dedicano ad altri mestieri.

    • bruno anastasia

      La media, come sempre, sintetizza situazioni estremamente diversificate: accanto a una quota significativa di lavoratori che accumulano lunghi anni di anzianità presso la medesima impresa, altri accumulano in un anno numerose assunzioni (vedi i lavoratori somministrati etc.) presso imprese diverse. Non c’è nulla di nuovo nell’ordine di grandezza di questi numeri, come da tempo messo in evidenza da tutti i dati provenienti dalle comunicazioni obbligatorie delle imprese in materia di rapporti di lavoro.

      • Maurizio Cocucci

        Dipende come legge i dati. Il Jobs Act aveva ed ha lo scopo di ridurre la precarietà, ovvero di aumentare il numero di rapporti stabili, non di creare occupazione ed in questo ci è riuscito se si osservano i dati degli ultimi tre anni. Poi c’è l’obiezione da parte di chi paventa la cessazione di questi rapporti una volta che i benefici fiscali terminano ma io aspetterei i fatti prima di sollevare la questione. Intanto nel 2015 si sono registrati più di 500 mila contratti di lavoro a tempo indeterminato rispetto ai due anni precedenti mentre il numero di quelli a termine è rimasto pressoché stabile, il tutto in una situazione economica difficile.

        • Massimo GIANNINI

          La riforma è stata venduta dicendo che “l’obiettivo primario del Jobs Act è creare nuova occupazione stabile”; Diciamo che se per ora ha ridotto forse un po’ la precarietà (nemmeno tanto confermata dai dati) nuova occupazione e stabilità non ne ha data né garantita. La stabilità non é certo verificabile nel breve periodo, soprattutto se poi il lavoratore puo’ essere mandato via facilmente. L’intervista a Ricolfi spiega anche chiaramente come nemmeno la precarietà si sia ridotta. Io aggiungerei che occorre proprio fare l’analisi costi/benefici di ogni politica economica: se spendo molto e ottengo marginalmente poco è evidente che la politica economica scelta non è quella giusta e/o non raggiunge nessuno dei suoi obiettivi.

          • Maurizio Cocucci

            Non seguo le boutade dei politici in chiave di propaganda. Il Jobs Act non poteva avere effetti sulla occupazione come non lo può svolgere una qualsiasi legge che può solo intervenire indirettamente favorendo eventualmente l’attività economica. Sulla precarietà i dati sono quelli e sono certi, poi se passare da 1,3 milioni scarsi di nuovi contratti a tempo indeterminato annuali nel biennio 2013-2014 a oltre 1,8 milioni nel 2015 non è considerato positivo è una opinione del tutto legittima ma personale e se mi permette un po’ discutibile. Sarebbe da chiedere ai circa 600.000 che in più nel 2015 hanno ottenuto questo tipo di contratto se per loro fa lo stesso uno (indeterminato) o l’altro (a termine). Come ho precedentemente scritto attendo di vedere dati sui licenziamenti prima di sollevare l’obiezione che costoro nonostante il rapporto a tempo indeterminato sono comunque precari. Senza contare che anche prima della riforma ogni lavoratore lo era in tempo di crisi, semmai era più oneroso per una azienda procedere con i licenziamenti.

          • Massimo GIANNINI

            Se 600,000 sono trasformazione di contratti, mi potrebbe dire quanti ne furono trasformati nel biennio 2012-2013 in assenza di jobs act (e crescita?)? Perchè paragona il 2015 ai dati di un biennio? In genere si calcolano i tendeziali mensili… Quante di quelle trasformazione sono state fate beneficiando delle agevolazioni e quanti invece sarebbero da attribuire a mera crescita economica ovvero necessità delle imprese? Insomma quanto ci son costate quelle trasformazioni?

  2. Michele

    1) I dati ISTAT hanno una loro chiara natura basata su metodi noti e scientifici. I dati Inps nascono da comunicazioni aziendali tutte da indagare e comunque parziali 2) l’argomentazione basata su più contratti per testa è smentita sia dall’articolo sia dall’Inps stessa nel comunicato stampa. 3) mi rimane il dubbio sul numero delle comunicazioni rispetto al numero dei lavoratori osservati

  3. Michele

    1) i dati Istat sono calcolati sulla base di metodi scientifici consolidati e controllabili 2) la teoria dei più contratti per ogni lavoratore viene considerata di ridotta importanza sia dall’articolo sia dal comunicato stampa inps che esplicitamente afferma che l’aumento dei contratti coincide con l’aumento dei lavoratori occupati 3) Il numero di lavoratori con alta frequenza di contratti non può essere tale da generare un numero di contratti complessivo cosi elevato

    • Maurizio Cocucci

      I dati Istat sono calcolati su base statistica su un campione di circa 250.000 famiglie o poco più per raggiungere un numero di circa 600.000 persone. Se lei e io non siamo tra costoro la nostra situazione deriva quindi da una semplice proiezione statistica, altro che scientifica, ergo l’Istat non ci considera se non all’interno di questo puro calcolo statistico. Queste famiglie che accettano di essere intervistate vengono interrogate a turno per quattro volte nell’arco di 15 mesi e devono rispondere secondo la definizione di occupati, disoccupati ed in cerca di lavoro stabilita da Istat. Nel caso degli occupati l’Istat considera tali chi ad esempio dai 15 in su ha svolto almeno un’ora di lavoro retribuito nella settimana di riferimento. Insomma si può affermare che quelli Istat siano dati abbastanza attendibili ma scientifici è eccessivo. L’Inps invece esegue conteggi certi ma sulla base dei contratti dei lavoratori dipendenti nel settore privato che hanno come elemento negativo per una considerazione finale il passaggio da contratti come dipendenti ad autonomi e viceversa. Quindi prima di parlare ad esempio di 600.000 posti di lavoro creati occorre osservare la dinamica dei lavoratori autonomi, dove alcuni che lavoravano a partita IVA prima ora hanno conseguito un contratto come dipendente a tempo indeterminato o a termine ma questo non significa che sia stati creato un posto di lavoro.

  4. Massimo GIANNINI

    Con riguardo al punto 1) bisognerebbe analizzare quanto dell’aumento dell’occupazione dipenda effettivamente dal jobs act o dalla semplice crescita economica o altri fattori contingenti. Inoltre bisogna valutare il costo dell’aumento ovvero fare un’analisi costi/benefici di una certa politica economica: se ho speso tanto ma ottenuto relativamente poco era meglio mettere i soldi altrove. Vanno poi confrontati i dati del biennio 2015-2014 con quelli 2014-2013. L’autore faccia queste analisi, che girano già in rete, e potrebbero esserci già delle risposte ai punti 1-4 ovvero che il rischio è di aver speso tanto per il jobs act ma ottenuto relativamente poco ovvero tale politica economica ha un contributo marginale alla crescita dell’occupazione assoluta.

  5. Savino

    E’ evidente che si avvererà l’opzione n. 1, cioè finito l’effetto del contributo pubblico, i dati si sgonfieranno.
    La carenza di etica d’impresa è decisiva nei ritardati effetti di ogni politica di sviluppo economico.
    Anche quelle riforme che, diversamente da questa, si possono veramente strutturali, come l’introduzione di un mercato efficiente e davvero libero e concorrenziale, nonchè l’introduzione di maggiore meritocrazia, per una loro concreta realizzazione hanno bisogno di un’etica d’impresa molto forte.
    Etica che, storicamente, le imprese nostrane non hanno.

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