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To Brexit or not to Brexit? Un voto all’ultimo respiro

Il referendum per la permanenza del Regno Unito nell’UE potrebbe tenersi già in giugno. La maggioranza dei cittadini ha però scarsa consapevolezza di ciò che si decide a Bruxelles. Non seguirà le indicazioni ufficiali dei partiti e voterà sulla base di emozioni più che di convinzioni profonde.

Trattative e reazioni prevedibili

Il referendum per la permanenza del Regno Unito nell’Ue, promesso da David Cameron prima delle elezioni di maggio 2015, si terrà probabilmente il 23 giugno 2016. È molto difficile prevedere come voterà il paese. La proposta della Commissione europea, resa pubblica martedì 2 febbraio, è la mossa di apertura nelle trattative tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna. Downing street l’ha definita un ottimo passo avanti, ma chiede ulteriori concessioni. Donald Tusk (presidente del Consiglio europeo), nonostante il suo tweet, non è affatto amletico: vuole mantenere la Gran Bretagna nell’UE. Nessuna sorpresa in queste posizioni. Le reazioni a Londra sono state altrettanto prevedibili. Il Sun, il quotidiano più venduto, non ha peli sulla lingua e definisce il risultato un mucchio di letame puzzolente. Il Daily Telegraph è meno colorito, ma ugualmente scettico. Con toni apocalittici, il Daily Mail equipara la bozza di accordo al tentativo di pacificare Hitler prima della guerra, scatenando l’ironia su Twitter. Il giorno dopo l’annuncio, i deputati Tory “euroscettici” facevano a gomitate per arrivare alla Bbc e agli studi televisivi in genere, per denunciare – furibondi – la colossale presa in giro, che non si avvicina per niente alle promesse pre-elettorali del primo ministro, e l’intero progetto europeo come una cordata antidemocratica. Non serve leggere questo pezzo, per immaginare cosa pensi Nigel Farage, capo dell’Ukip, e collega europarlamentare dei grillini. Sull’altra sponda, il Guardian e il Financial Times sono cauti, ma positivi. Se effettivamente la bozza si trasformerà in un documento legale in tempi brevi, tutto è pronto per il referendum, e si dovrebbe votare prima dell’estate, probabilmente il 23 giugno. La commissione elettorale ha suggerito di cambiare la domanda: invece di scegliere tra “sì” e “no”, gli elettori dovranno decidere tra “rimanere” e “lasciare”, piccoli dettagli per rendere ancor meno probabile che i votanti si confondano.

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Cosa pensano gli elettori?

Ma la violenza verbale che si è scatenata negli studi televisivi e sulle prime pagine dei giornali, non si riflette nell’interesse della nazione, i cui sentimenti prevalenti sembrano essere la noia e l’indifferenza. C’è, sì, una nostalgica ringhiosa minoranza antieuropea, di età, per usare un eufemismo, superiore alla media, il cui voto non è in dubbio. C’è anche chi conosce bene i pro e i contro delle regole europee, ad esempio perché è un utente professionale delle istituzioni europee e probabilmente voterà e si dichiarerà a favore del mantenimento dello status quo. Ma i due gruppi sono relativamente piccoli. La maggioranza ha una visione parziale dell’Europa: ne ammira il calcio, il clima, la cultura, ci va in vacanza – e parlo di tutti i gruppi, da quelli che vanno a Benidorm a ubriacarsi per l’addio al nubilato a chi va in crociera nei fiordi o in Chianti per gustarne cibo, vino e paesaggio, oppure a chi ha il biglietto stagionale per la Wiener Staatsoper. Ma questa maggioranza sa poco di quel che fa Bruxelles, al di là delle storie semi-apocrife di assurde regole imposte dagli “eurocrati”, considerate comunque irrilevanti o inventate. Certo, c’è un costo in termini di tasse, ma anche sostanziali benefici che derivano dall’essere membro dell’UE; pochi saprebbero però descrivere in dettaglio gli uni e gli altri. I bookmakers oggi danno come favorito il voto a favore. I sondaggi elettorali invece sembrano favorire l’uscita. L’unica certezza sembra essere il fatto che il voto non seguirà le posizioni ufficiali dei partiti: David Cameron è sinceramente a favore della permanenza, e ora si trova in una posizione di forza, tanto da essere riuscito a convincere scettici quali il ministro dell’Interno Theresa May e l’astuto sindaco di Londra Boris Johnson. Ha però dovuto permettere non solo ai deputati Tory, ma, caso davvero eccezionale, anche ai ministri di appoggiare pubblicamente la posizione che preferiscono. Il Labour, che, dopo la spaccatura del referendum del 1975, è sempre stato pro Europa (la decisione di Gordon Brown di non adottare l’euro fu dovuta al suo ottimo intuito economico, non a una posizione ideologica contro l’Europa), ha però eletto un leader poco convinto del progetto europeo, considerandolo troppo a favore del capitalismo. Perfino l’Ukip, il cui nome, Partito dell’Indipendenza del Regno Unito, non dovrebbe dar adito a dubbi sulle opinioni dei suoi membri, è diviso, con il 28 per cento dei suoi elettori che di dichiara favorevole a restare nell’UE. I nazionalisti scozzesi, tradizionalmente fortemente europeisti, potrebbero votare strategicamente per l’uscita, convinti, come Tony Blair, che questo potrà facilitare l’indipendenza da Londra. Prevedo quindi incertezza ed elettori indecisi fino all’ultimo minuto. Molti di quelli che decideranno di votare sceglieranno sulla base di opinioni effimere, senza profonde convinzioni, ed eventi marginali potranno avere un’influenza decisiva. Tra le possibili spiegazioni dell’inattesa sconfitta elettorale dei laburisti di Harold Wilson nel 1970, per esempio, viene indicata anche la delusione provocata nel paese dalla sconfitta dell’Inghilterra ai campionati mondiali di calcio. Ora il referendum sulla Brexit potrebbe tenersi proprio nel bel mezzo degli Europei di calcio. Vi sarebbe un’amara ironia se l’inevitabile frustrazione per l’eliminazione dal torneo delle squadre britanniche contribuisse all’uscita del paese dalla Unione Europea.

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Il Punto

  1. Henri Schmit

    Penso che il referendum promesso e promosso da Cameron sia una mossa astuta sia internamente che per i rapporti con l’UE, a patto che vinca la permanenza nell’UE, come sarà. Il voto popolare è sempre un rischio, condizionato da fattori esogeni, spesso casuali e emotivi. Ma questo vale per tutte le votazioni. Cameron vincerà all’interno perché disarmerà gli euro-scettici più radicali; con l’UE perché migliorerà la posizione del RU in termini finanziari e politici (ha ragione sul deficit democratico). Dà un contributo alla democrazia, perché provoca un dibattito pubblico. Dà un contributo allo sviluppo dell’UE che nella scia del dibattito britannico si deve chiarire le idee su che cosa ha sbagliato nel passato e su come può migliorare nel futuro. L’apparente indifferenza dell’opinione pubblica britannica dà ragione a Cameron: la brexit non entusiasma perché non convince. Unico rammarico: per essere democraticamente (e non solo despoticamente) valido, il referendum dovrebbe essere di potenziale iniziativa popolare ed essere permesso su tutti i temi di rilevanza, in tutti i paesi. Poche campagne referendarie mirate su temi cruciali cambierebbero l’Italia più di decenni di riforme promosse all’interno dei palazzi.

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