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Dalla scuola al lavoro con un grande spreco di competenze

Un diplomato su tre e un laureato su cinque sono convinti che la loro attività lavorativa potrebbe essere svolta anche con un titolo di studio inferiore a quello che hanno conseguito. Lo spreco di capitale umano comporta inefficienze e costi ingenti per gli individui, le famiglie e lo Stato.
Capacità e lavoro
Ma la nostra non era la società della conoscenza? Proprio da queste pagine, di recente, sono state evidenziate alcune tendenze preoccupanti: da un lato le iscrizioni all’università crollano e, dall’altro, i paesi in via di sviluppo tendono a superare i cosiddetti paesi avanzati in termini di livelli di istruzione con ovvie ricadute sul reddito.
Una spiegazione alla crisi di vocazione dei nostri giovani può venire dalla teoria del capitale umano che vede un cortocircuito negli alti costi e nei bassi rendimenti dell’istruzione, cui si aggiungono i tempi lunghi per conseguire una laurea e trovare un lavoro.
In questo scenario, ci soffermiamo qui sul fenomeno dell’educational mismatch, ovvero il disallineamento tra capacità possedute (livello d’istruzione o percorso formativo) e richieste (necessarie per svolgere il proprio lavoro). La stima è quanto mai complessa, sia in termini epistemologici che di misura: qui il disallineamento tra istruzione e professione è limitato al titolo di studio più alto conseguito, non alla tipologia
L’indagine Isfol Plus 2014 (scaricabile qui) consente, attraverso interviste dirette, di ottenere una definizione più accurata del fenomeno. Nella tabella 1 mostriamo cinque indicatori: tre soggettivi (tratti da quesiti) e due oggettivi (sulla posizione relativa).
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Cosa ci dicono gli indicatori
Il primo indicatore soggettivo è lo sheepskin effect, il cosiddetto effetto “pezzo di carta”: un diplomato su tre e un laureato su cinque ritengono che la loro attività lavorativa potrebbe essere svolta anche con un titolo di studio inferiore a quello da loro posseduto, sintomo di una domanda di lavoro generica e poco orientata alle professionalità elevate.
Il secondo indicatore soggettivo introduce il confronto con il livello d’istruzione specifico e consente di ottenere per la prima volta in Italia una misura dell’under-education non fondata sul metodo statistico. Tra i laureati prevale nettamente l’over (18 per cento) rispetto all’under-education (5,7 per cento), confermando ancora la bassa domanda di lavoro qualificata espressa dal nostro sistema produttivo. Mentre tra i diplomati il fenomeno di under-education (18 per cento) supera di poco quello dell’over-education (16 per cento). Ciò denota una svalutazione del titolo di scuola secondaria superiore che, essendo sempre più comune, tende ormai a essere percepito come un livello di istruzione base.
Per il terzo indicatore soggettivo, è interessante notare che l’under-skilling rappresenta quote molto basse sia per i diplomati (3,2 per cento) che per i laureati (2,3 per cento), mentre le misure statistiche tendono a sovrastimare il fenomeno. Discorso ben diverso è quello che riguarda l’over-skilling, che risulta sovradimensionato rispetto alle percentuali presenti in altri studi: tra i laureati raggiunge il 35,6 per cento, mentre tra i diplomati è pari al 29,2 per cento. Ciò ha diverse spiegazioni: la modesta domanda di lavoro qualificato e lo scarsissimo grado di integrazione tra il mondo della scuola e quello del lavoro.
Se passiamo poi agli indicatori oggettivi, l’over/under-education su base statistica si basa sulla coerenza tra titolo di studio dell’individuo i-esimo rispetto alla corrispondenza fra ciascun grande gruppo professionale e un certo titolo di studio stabilito dalla classificazione delle professioni Isco (International Standard Classification of Occupations). Un quinto dei lavoratori è over-educated, ma un altro 20 per cento di diplomati sono under-educated, spia di un certo disordine del sistema.
Il secondo indicatore oggettivo di over/under-education misura la coerenza tra istruzione dell’individuo i-esimo e valore modale (la massima frequenza) del titolo di studio per professione: un quinto dei diplomati e oltre un terzo dei laureati non è ben abbinato rispetto alla distribuzione dell’istruzione per quella mansione.
La figura 1 consente di fare alcune comparazioni sull’over-education: le donne sono meno esposte, come i diplomati rispetto ai laureati, ma cambia la composizione. È maggiore nel settore privato, mentre al crescere dell’età si assiste a un (lento ma incompleto) allineamento tra capitale umano e mansioni. L’avere impieghi atipici o con bassi livelli di soddisfazione lavorativa espone a sistematico sotto-inquadramento. L’over-education è decrescente rispetto alla retribuzione e al reddito familiare: un’ulteriore prova che il network familiare rappresenta il maggior fattore di protezione individuale.mondrone2
Insomma, l’over-education è un fenomeno diffuso e multiforme. I livelli d’impiego del capitale umano sono tali da rendere inevitabile una riflessione più ampia sulla necessità di indirizzare le imprese verso produzioni di beni e servizi innovativi. Il versante pubblico può fare molto: dovrebbe aggiornare il sistema scolastico e formativo e sostenere la ricerca di qualità, ma anche dare sostegno in maniera selettiva alle imprese che innovano.
Al di là delle sensibilità sul costo sociale provocato da questo spreco e sulle differenze che possono nascondersi tra una lettura qualitativa o quantitativa del capitale umano, è indubbio che ciò comporti inefficienze gravi e un costo economico ingente per gli individui, le famiglie e lo Stato. Una riduzione dell’over-education altro non è che un recupero di efficienza del sistema scuola-lavoro.

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Il Punto

  1. sandro urbani

    sono state scritte intere biblioteche sulla assoluta necessità che per il pieno sviluppo dell’economia italiana sia assolutamente necessario aumentare in maniera esponenziale il numero dei laureati e diplomati ; e allora ?…

  2. Antonio orazi

    l’errore di fondo, tipico di professori, che pensano soltanto all’insegnamento e non all’apprendimento, porta a confondere “capacità possedute (livello di istruzione)” con le reali competenze; l’overeducation
    c’è soltanto sulla carta…

  3. Andrea

    Secondo la mia personale opinione di questa situazione ne è stata complice anche la riforma universitaria 3+2 che ha avuto i seguenti effetti: 1) declassamento del titolo di diploma di scuola secondaria superiore: assurdo; 2) devastazione sulle stesse richieste di lavoro : l’eccessiva spinta verso la competizione sul titolo di studio ha portato al paradosso secondo cui, data la poca disponibilità di lavoro, soltanto i più qualificati accedono al mondo del lavoro: ormai però non basta più la laurea ma sul curriculum servono corsi aggiuntivi, master, specializzazioni : quando questi non sono richiesti viene richiesta l’esperienza, ma chi ti assume se esci dall’università a 25 anni non avendo mai lavorato prima? 3) conseguente e pauroso innalzamento dell’età media nel mondo del lavoro, dai 18 anni di 30 anni fa ai 27-28 di ora; 4) dalla competizione squilibrata sul titolo di studio è cambiata anche l’offerta lavorativa, non si assume per formare ma si assume soltanto se già formati e con esperienza, è proprio dopo la riforma universitaria che via via sono spariti i corsi di formazione post-assunzione .

    • bob

      ..per dirla con una battuta si è passati dal “pezzo di carta” ai ” pezzi di carta” questa è la cultura di fondo che si porta dietro questo Paese. La cultura è una cosa l’ istruzione- certificata è altra cosa. Un sovrapporsi di scuole, corsi specializzazioni impostate con l’unico scopo di di creare posti fittizi che non solo disorientano ma sono inutili e fanno perdere tempo ….una delle cause perchè si arriva tardi nel mondo reale del lavoro. Siamo il Paese dei timbri, del biglietto da visita con Prof. Dott. S.E. siamo il Paese dove 1% dell’aziende usa Internet, siamo il paese che non conosce cosa sono i CV , siamo il Paese che rilascia Certificazioni di Qualità ad aziende che rispondono ad una e-mail dopo 15 giorni, siamo quelli dei 20 licei scientifici con o senza latino, siamo il Paese con 8000 partecipate pubbliche dove certamente non serve merito, cultura o competenze …siamo il Paese che nel 2015 si permette di avere ancora una “plebe” analfabeta nell’ordine del 10-15 %. Se questo è il “brodo” di cosa parliamo?

  4. Pif

    La questione è complessa e direi multi-dimensionale. Indubbiamente c’è una scarsa necessità di formazione qualificata vista la dimensione media delle nostre imprese e la scarsa ricerca. Secondo c’è un forte scollamento tra università e lavoro, le università tendono a dare una formazione a volte troppo teorica e poco orientata alla realtà lavorativa corrente con conseguente delusione da entrambe le parti. Faccio un esempio, io sono laureato in ingegneria, la formazione di base dell’univeristà è di tipo progettista, mentre nella realtà serve l’ingegnere poli-funzionale con competenze economiche, di marketing eccc, insomma non c’è molto matching. Inoltre il mondo del lavoro cambia molto più rapidamente di come si adeguino i programmi, ci vorrebbe molta più integrazione. Quindi le riforme dovrebbero essere molto più concertate tra scuola e mondo del lavoro per far adeguare i due mondi meglio. Infine se vedete i personaggi che hanno riscosso maggior successo nel business tecnologico in USA ( Apple Facebook, Microsoft) , quasi tutti non sono laureati….

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