Sul voto maggiorato nelle imprese quotate non è facile trovare un equilibrio tra le contrapposte ragioni di favorevoli e contrari. Meglio un mercato piccolo e bello o uno grande e brutto? Servono norme il più possibile coerenti con le finalità da perseguire. Necessaria la valutazione.
IL PERICOLO DELLE DEROGHE ALLE DEROGHE
Il voto maggiorato – l’attribuzione agli azionisti delle società quotate di un numero massimo di due voti per ogni azione se detenute per un periodo non inferiore a ventiquattro mesi – sta scaldando i motori. Sulla rampa di partenza ci sono tre società che hanno sfruttato la finestra del 31 gennaio per approvare le modifiche statutarie in assemblea ordinaria e quindi con maggioranza semplice. È la finestra che tante e giuste polemiche aveva suscitato per il timore di manovre in barba al mercato, e il fatto che i maggiori sospettati (al momento dell’approvazione della nuova disciplina si parlò delle società pubbliche e di alcune grandi gruppi bancari) non si siano avvalsi della deroga ai quorum è un’ottima dimostrazione di rispetto verso gli azionisti e un’altrettanto ottima ragione per allontanare nefaste tentazioni di ogni possibile proroga del termine. Se le deroghe alle procedure ordinarie non rappresentano mai un buon presupposto per la certezza e la stabilità della norme, le deroghe alle deroghe corrono il rischio di trasformarsi in un esplicito invito per gli investitori a tenersi lontani dalle convulsioni e confusioni del nostro ordinamento.
Ma anche nella sua fisiologica portata, e cioè come una normale modifica statutaria che richiede, quindi, un consenso ampio della compagine sociale, il voto maggiorato si presta a diverse letture che hanno alimentato le polemiche di questi ultimi mesi. Volendo sintetizzare, con qualche necessaria forzatura visto l’ampio e appassionato dibattito di questi ultimi tempi, possiamo dividere gli schieramenti su due diversi fronti.
LE RAGIONI DEL NO
Chi vi si oppone sostiene che il voto maggiorato può rappresentare niente più che una comoda strada per cementare ulteriormente gli assetti azionari, allontanare gli investitori – soprattutto quelli istituzionali – e quindi abbandonare definitivamente la speranza che anche il nostro sistema si apra a un vero mercato del controllo societario, conservando invece i tanto vituperati connotati del capitalismo di relazione.
È vero che nel superamento del principio “una azione un voto” siamo in buona compagnia, con il pericolo di flussi migratori verso quegli ordinamenti che offrono questa opportunità; ma è altrettanto vero che (vedi il caso della Francia) il suo utilizzo è stato funzionale proprio alla blindatura delle società nel timore di invasioni di soci stranieri. E poi proprio gli investitori istituzionali hanno esplicitamente dichiarato di seguire politiche di voto contrarie in materia, e quindi l’introduzione del voto maggiorato non è certo un buon viatico per l’appetibilità del nostro mercato.
LE RAGIONI DEL SÌ
I sostenitori del nuovo istituto partono dal presupposto che il nostro mercato è e, soprattutto, è rimasto nel corso del tempo decisamente asfittico. Nonostante i grandi progressi nella legislazione, progressi che ci hanno fatto scalare le classifiche tra i sistemi più efficienti in tema di tutele per azionisti e investitori, il perimetro della borsa non si è allargato, la quotazione è ancora vista con grande diffidenza e la vocazione familiare negli assetti proprietari continua a essere un tratto caratterizzante delle nostre imprese. Tanto vale, allora, prenderne atto, dimenticarsi per il momento dell’araba fenice della contendibilità del controllo e impostare politiche di regolamentazione in grado di spingere le imprese a salire, finalmente, sull’ascensore della crescita dimensionale e così aprirsi al mercato dei capitali. Di qui, tutta una serie di misure con l’esplicito obiettivo di non “spaventare” chi vuole, appunto, aprirsi ma non troppo e cioè senza rischiare di perdere le leve di comando. E bisogna aggiungere che anche le società non quotate possono avvalersi di uno strumento simile, il voto plurimo, che consente a ciascun azionista di esprimere fino a tre voti; e hanno la possibilità di conservare questa caratteristica anche una volta ammesse alle negoziazioni in borsa.
Possono esserci, infine, altri bisogni soddisfatti dal voto maggiorato, come ad esempio quelli, spesso richiamati, di imprenditori innovativi alla ricerca di massicce dosi di capitale e di fondi di investimento in grado di scommettere sulle nuove iniziative, senza però che questo comporti una eccessiva diluizione nel capitale di chi ci ha messo l’idea e la propria abilità. E queste modalità di conservazione del controllo, aumentando nel contempo il flottante, sono senza reticenze ritenute funzionali anche a meno nobili, ma in questo momento molto sentite, esigenze di cassa di alcune categorie di soci, come ad esempio i comuni nelle multiutility e lo Stato nelle società da privatizzare. Senza considerare, poi, che il voto maggiorato è comunque legato a un vincolo di fedeltà che dovrebbe garantire un azionariato più attivo e meno attento a logiche speculative e di short termism.
IL MERCATO: PICCOLO E BELLO O GRANDE E BRUTTO?
Dovendo riassumere, le contrapposte visioni si riducono a una domanda: guardando al futuro, è meglio tenersi un bellissimo e quasi perfetto mercato ma insignificante dal punto di vista dimensionale (il numero delle società quotate non ha subito nel corso del tempo grandi variazioni), oppure scommettere su un mercato sicuramente più brutto e meno aperto, ma, forse, con più protagonisti? E utilizziamo il termine “scommettere” non a caso, perché sarà tutta da verificare la reale efficacia delle nuove misure.
IL (DIFFICILE) EQUILIBRIO
Forse un equilibrio tra le due impostazioni può essere rintracciato agendo innanzitutto sull’asse della domanda di voto maggiorato e cioè cercando di favorirne uno sviluppo il più possibile coerente con le finalità che si vogliono perseguire. Ad esempio, se finalmente si riconducessero le fondazioni bancarie nell’alveo della loro originaria disciplina (la legge “Ciampi”) che mirava alla definitiva liberazione dalle partecipazioni bancarie, si potrebbe evitare il rischio, sul quale torna di recente Carlo Milani (Il capitale bancario che fa la differenza su.www.lavoce.info, 16.1.2015), di un utilizzo del voto maggiorato in funzione di ostacolo a una apertura del capitale delle banche e al loro rafforzamento patrimoniale.
Ancora, una normativa che prevedesse, nell’ipotesi di offerte pubbliche di acquisto accolte da una parte consistente del capitale, la perdita definitiva della maggiorazione del diritto di voto, potrebbe comunque lasciare una via di fuga al superamento del vincolo di fronte ad un cambiamento di controllo.
E infine, una riflessione più generale, ma che risponde a una logica non estranea alla più recente evoluzione delle politiche di regolamentazione. Proprio perché queste sono sempre più orientate a “spingere” le imprese verso il raggiungimento di determinate finalità ritenute prioritarie dal legislatore, occorre avere anche il coraggio, una volta fatta una verifica di impatto ex post dopo un predeterminato periodo, di rivederle nel caso si accerti il loro insuccesso. Il voto maggiorato rappresenta, per certi versi, il terreno ideale per sperimentare queste metodologie.

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