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LA SCORCIATOIA DELL’ITALIANITÀ

I dati di una recente indagine su sette paesi europei indicano che la quota di imprese a controllo estero è sensibilmente più bassa in Italia rispetto a Francia e Germania. Il capitale estero può rappresentare un’opportunità importante di crescita. Più che la natura del controllante, conta la capacità del sistema di offrire un ambiente favorevole per fare impresa. Con la scusa di difendere l’italianità si proteggono gli interessi costituiti di una classe dirigente autoreferenziale.

 

Ci risiamo. Puntuale come l’influenza, torna la difesa dell’italianità delle imprese, nel cui nome sono state commesse già molte scempiaggini. Questa volta il casus belli è Parmalat, un’impresa con tanta liquidità in pancia da attrarre potenziali scalatori come le api al miele.
La giustificazione per introdurre norme che scoraggino scalate di investitori esteri è la mancanza di reciprocità da parte degli altri paesi. Negli anni recenti in effetti non mancano esempi in cui i governi dei nostri partner, particolarmente Francia e Germania, hanno adottato politiche protezionistiche in casi simili. Pretendere reciprocità di trattamento, e un insieme di regole chiare, condivise e rispettate a livello europeo, è giustissimo. È scorretto che in un settore energetico privatizzato e liberalizzato a livello europeo ci sia un monopolista pubblico francese, assolutamente non contendibile, che porta avanti politiche di acquisizione aggressive.

IN ITALIA NON PASSA LO STRANIERO

Ma al di là di singoli episodi, è vero che siamo di fronte a una nuova ondata di invasioni barbariche? Che le imprese negli altri paesi sono al riparo dal controllo estero? In un progetto di ricerca recente a cui ho collaborato sono stati raccolti e analizzati dati omogenei relativi alle imprese manifatturiere con almeno dieci addetti per sette paesi europei: Austria, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Spagna e Regno Unito. (1)
La tavola sotto riporta alcune statistiche descrittive della struttura proprietaria e finanziaria delle imprese. La quota di aziende a controllo estero, definite come quelle con almeno il 50 per cento del capitale posseduto da azionisti stranieri, in Italia è la più bassa (4,1 per cento), meno della metà di quella francese (10,3 per cento) e un terzo di quella del Regno Unito (12,2 per cento). Questi dati sconfessano l’idea che il capitalismo italiano sia in fase di colonizzazione e confermano piuttosto che il nostro sistema produttivo non è in generale in grado di attrarre investimenti dall’estero. La difficoltà in entrata è riflessa da una quota di imprese che fa investimenti diretti all’estero più bassa dei partner europei – si veda la seconda riga della tabella. Piuttosto che un capitalismo in fase di colonizzazione, il confronto internazionale indica un sistema di imprese più chiuso sia in entrata che in uscita. Le imprese italiane sono anche meno frequentemente parte di un gruppo, molto raramente hanno un venture capitalist nella compagine azionaria e hanno una quota di finanziamento bancario superiore a quello degli altri paesi.
Il rapporto mostra come questa struttura proprietaria e finanziaria tenda ad accompagnarsi a performance d’impresa peggiori. In particolare, le imprese a controllo straniero in tutti i paesi hanno tassi di internazionalizzazione più elevati. Il capitale estero può quindi rappresentare una prospettiva di crescita per le aziende.
La critica che più spesso viene avanzata al passaggio del controllo a investitori stranieri è la possibilità che questi si approprino di marchi e di tecnologia e smantellino la produzione in Italia. È possibile, anche se non scontato, che controllanti esteri si sentano meno vincolati dal punto di vista della salvaguardia dell’occupazione rispetto a quelli nazionali. Allo stesso tempo, bisogna prendere atto del fatto che le attività produttive rimarranno in Italia solo se il paese saprà offrire condizioni competitive alla produzione di beni e servizi. Diversamente, neanche un proprietario "nazionale" potrà garantire il mantenimento della produzione in loco, come testimonia il processo di delocalizzazione portato avanti anche da imprese a controllo nazionale. Occuparsi della nazionalità del controllante invece che delle condizioni in cui le imprese operano è una strategia che può pagare politicamente nell’immediato, ma perdente nel medio periodo. Operazioni "di bandiera" sono inutili nel migliore dei casi, come per l’annunciata riforma costituzionale per la libertà d’impresa, dannose negli altri, come nella vicenda Alitalia. Non esistono alternative a seri programmi di riforme strutturali che ridiano competitività al sistema produttivo. 

COME DIVENTARE PIÙ GRANDI

Oltre a problemi di competitività di sistema, il controllo delle imprese italiane soffre di problemi antichi e mai risolti. Le imprese italiane sono sottocapitalizzate e si affidano quasi unicamente al credito bancario. La struttura proprietaria, incentrata sulla famiglia, è generalmente contraria all’apertura del capitale per timore di perdere il controllo. Da un’indagine della Banca d’Italia del 2006 emerge che molte imprese rinunciano a possibilità di crescita per non aprirsi a capitale di rischio esterno. Queste condizioni generano una sottocapitalizzazione cronica e una struttura sbilanciata verso la piccola dimensione, che rendono il sistema di controllo delle imprese fragile. Nel caso di Bulgari, passata sotto il controllo della francese Lvmh, sono questi i nodi che hanno impedito la nascita di un grande gruppo del lusso a controllo italiano. È necessario accrescere la capitalizzazione delle imprese, favorendo l’afflusso del risparmio delle famiglie verso forme di investimento azionario, sviluppando il mercato borsistico, facendo crescere il settore del venture capital e del private equity. E anche qui rimane molta strada da fare. 
La scorciatoia più semplice è quella di un intervento legislativo del governo. Proteggere le imprese dalle scalate, particolarmente estere, danneggia l’economia del paese, ma fa comodo a gruppi di potere influenti. Aiuta i "capitalisti senza capitali", che attraverso catene di controllo, patti di sindacato e banche di sistema controllano le imprese con lo zero virgola del capitale di rischio. Piace a una ristretta cerchia di manager autoreferenziali che si muovono con molta grazia e poco sforzo da un consiglio di amministrazione all’altro, senza doversi preoccupare troppo della performance delle aziende che gestiscono, forti di un sistema di relazioni inossidabile. Fanno comodo a un potere politico che preferisce un interlocutore imprenditoriale nazionale, possibilmente debole e sensibile alle istanze della politica. Con questi interessi in gioco, è facile prevedere come andrà avanti la "battaglia" per l’italianità.

Tavola: struttura proprietaria e finanziaria delle imprese in sette paesi europei, 2008
  AUT FRA GER HUN ITA SPA UK
Quota di imprese:
  A controllo estero 12.8 10.3 6.3 19.8 4.1 4.5 12.2
  Che fa FDI 6.7 3.8 6.0 2.3 2.5 2.5 4.3
  Appartenenti a un gruppo 12.5 10.1 5.3 12.6 3.0 4.2 14.6
  Con Venture capital nel capitale 2.2 1.9 1.3 0.9 0.5 1.0 5.7
Quota di debito bancario su finanziamento totale 87.0 78.7 82.9 82.9 87.5 86.4 65.2

 Fonte: "The Global Operations of European Firms. The second Efige Policy Report".

(1) "The Global Operations of European Firms. The second Efige Policy Report", di Giorgio Barba Navaretti, Matteo Bugamelli, Fabiano Schivardi, Carlo Altomonte, Daniel Horgos e Daniela Maggioni.

 

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CHI PIANGE SUL LATTE DI PARMALAT

  1. Stefano

    Articolo molto interessante, ma mi restano due dubbi: (i) in Italia ci sono pochissime aziende di grandi dimensioni, che poi sono quelle che innovano di più, pagano stipendi più alti ed hanno maggiore redditività. Quando si dice che solo il 4,1% delle aziende italiane é a controllo estero, che succede se si restringe l’attenzione alle aziende con piu’ di 250 dipendenti anzichè 10? (ii) Si afferma che le imprese a capitale straniero sono piu’ internazionalizzate e quindi il capitale estero può rappresentare una prospettiva di crescita. Le aziende più internazionalizzate sono anche le più grandi e profittevoli e fanno più gola agli stranieri. Dunque, il capitale straniero è causa o conseguenza della crescita delle aziende?

  2. rita

    Concordo con le perplessità metodologiche di Stefano. Penso inoltre che dovremmo saper distinguere tra i favori fatti alle cricche di amici e la "normale" (ovunque, meno che in Italia) salvaguardia del capitale produttivo nazionale. Mi sembra piuttosto che, a causa dell’autoreferenzialità di una classe dirigente interessata principalmente alle rendite (e che dell’italianità si disinteressa del tutto), stiamo perdendo il controllo di importanti basi per la definizione del PIL, ovvero dei livelli di reddito e di occupazione, in cambio di una presunta maggiore efficienza, tutta da dimostrare. Che, per esempio, non è stata dimostrata per gran parte delle attività produttive già di proprietà pubblica, a suo tempo frettolosamente privatizzate e finite sotto il controllo di capitale estero. Concordo quindi sul fatto che l’italianità non possa costituire il fine di provvedimenti governativi, peraltro raffazzonati. Ma certo sarebbe un riferimento utile per individuare un sentiero di ripresa dello sviluppo, per un Governo che avesse qualche idea in proposito.

  3. marco

    Qualcuno ha sollevato il dubbio che, fra i molti motivi degli scarsi investimenti esteri nel nostro paese, non sia secondaria la paura di una eccessiva sindacalizzazione delle maestranze e di una potenziale ingerenza rovinosa di iniziative di PM in cerca di pubblicità politica. Può essere vero?

  4. Antonio Maria Fiorillo

    Indubbiamente può dispiacere che una così bella azienda entri in una orbita straniera. Ma in una economia aziendale non dovrebbe esservi alcuna differenza tra vendita a chicchessia di singoli prodotti, aziende o partecipazioni. Tutti producono profitto e valore aggiunto anche se le transazioni avvengono tra soggetti di stati diversi. La liquidità che si forma può sempre essere reinvestita in nuove iniziative a loro volta produttive di valore aggiunto. In Italia non siamo ingessati da scarsezza di capitali privati da investire nello sviluppo?

  5. Francesco Rocchi

    Parmalat nel 2003, a dirigenza italiana quanto si vuole, ha fatto crac. A che è servita l’Italianità, in quel caso? Ha tutelato il paese in qualche modo? Non credo proprio. Ci stiamo guadagnando a tenerci italiana l’Alitalia? Non credo, di nuovo. Sono d’accordo con questo articolo, ma per rispondere ai dubbi di Stefano credo che sarebbe interessante fare una ricerca in senso inverso, andando a controllare quanto licenziano e delocalizzano fuori dal Paese le imprese italiane, e quanto lo fanno quelle straniere. Esaminando i fatturati delle imprese a capitale straniero e quelli delle imprese a capitale italiano, anche. Un esempio: i lavoratori di Fiat ferroviaria ci hanno guadagnato o perso a passare ad Alstom? Non è una domanda retorica, sarebbe interessate saperlo.

  6. Falaschi Faustino

    Le aziende grandi (S:P:A:) quotate sono internazionali come globalizzazzione e mercati. IL capitale di controllo può essere in mano a gruppi italiani , oppure a fondi di investimento o piccoli risparmiatori mercato. IL problema a mio avviso è quello di dove si trova la sede sociale ; perchè poi formato il bilancio :__" le tasse della SPA . Invim Irap vengono versate nel luogo dove questa hanno la sede". Faccio un piccolo esempio che ho letto dal Sole 24, ho da voi non ricordo bene; la Fiat solo di Irap versa alla Regione PIemonte 200 milioni di euro se sposta la sede a Detroit anche questa entrate se ne vanno . Quindi non’è tanto il patrimonio sociale che interessa al territorio ,ma la sua operatività. In quanto al controllo della Ferrero è in mano ad’una famiglia con sede sociale ad ALBA ; ma se niente è cambiato la proprità è in mano a Michele e figli e pochi altri con Holding Lussemburghese. IL più ricco d’Italia non è quotato. Dal punto di vista Federale qualche economista mi spieghi come si divide L’Irap formata dai vari stabilimenti della Fiat sul territorio ; anche se i sistemi imformatici aiutano con i centri di costo e di spesa.!

  7. alfadixit.com

    Non è purtroppo solo il titolo di un film ma anche il triste riassunto della situazione industriale di un paese lasciato alla deriva. Ho atteso qualche giorno affinchè calasse il polverone mediatico sollevato da quanto pubblicato sul Corriere, prima di inviarle questa mia, così tanto per scambiare qualche opinione da uomo della strada, quale sono. Innanzitutto la ringrazio di cuore per l’urlo di dolore, finalmente reso pubblico, per una situazione di inaccettabile incuria in cui versa, non solo il settore della moda, ma l’industria italiana intera. Grazie per il coraggio della provocazione e per la passione alla vicenda che traspare da tutti i pori della pagina. Devo dirle che, pur essendo completamente d’accordo con l’analisi, non ne condivido la prognosi ed i rimedi, benché espressi in tono volutamente enfatico. Il mercato, oggi più che mai di dimensioni mondiali, premia, infatti, i prodotti che offrono un vantaggio competitivo tangibile, in qualità, prezzo, immagine, più difficilmente per provenienza. La globalizzazione è ormai una declinazione obbligatoria della nostra società e, se ben utilizzata, ne rappresenta anche una portentosa opportunità.

  8. Massimo Tannia

    Campione di società con più di 10 dipendenti: fate la stessa ricerca su quelle con almeno 250 dipendenti poi ne discutiamo!

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