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SE IL LAVORATORE NON SI RIALLOCA

Il problema della bassa crescita italiana è fondamentalmente un problema di produttività. E non basta che cresca all’interno delle imprese, è altrettanto importante che i lavoratori si spostino verso le aziende più efficienti. Un processo che registra un picco durante la recessione della prima metà degli anni Novanta, caratterizzata da un forte processo di ristrutturazione. Dopodiché creazione e distruzione dei posti di lavoro rimangono stabili attorno a valori modesti, nonostante un aumento nella dispersione della performance delle imprese.

Siamo tutti d’accordo: il problema della bassa crescita italiana è fondamentalmente un problema di produttività. Dalla metà degli anni Novanta la crescita della produttività del lavoro è nulla o, dall’inizio del decennio, addirittura negativa. Più complicato è capire quali siano le cause del ristagno e come superarlo. Una proposta che si sta facendo strada è quella di legare maggiormente i salari alla produttività: concordano su questa ricetta molti economisti, responsabili di politica economica e rappresentati delle associazioni imprenditoriali

EFFETTI DEGLI SHOCK

Provvedimenti di questo tipo possono contribuire a far crescere la produttività all’interno delle imprese. È un aspetto importante, in quanto questa componente della crescita della produttività langue. Ma altrettanto importante è attivare il canale fra le imprese: i fattori si devono riallocare verso quelle con produttività più alta. Qualunque provvedimento che incentivi la crescita della produttività avrà effetti eterogenei: alcune imprese risponderanno meglio di altre. Per massimizzarne gli effetti è necessario che le imprese che aumentano la produttività accrescano la quota di mercato, generando un effetto leva sulla produttività aggregata. Una maggior dispersione salariale fra le imprese può di per sé contribuire alla riallocazione dei lavoratori a favore delle più produttive. Basterà? L’evoluzione recente dell’economia italiana suggerisce di no. 
Negli ultimi dieci anni l’Italia è stata colpita da shock molto forti, in particolare il diffondersi delle nuove tecnologie dell’informazione, la globalizzazione, l’euro. I cambiamenti avrebbero dovuto indurre un processo di ristrutturazione. Tipicamente, le fasi di intensa attività di ristrutturazione sono caratterizzate da a) un aumento della dispersione della performance: alcune imprese ristrutturano con successo e aumentano i profitti, altre non sono in grado di ristrutturarsi e fanno perdite e il divario fra questi due tipi di imprese si allarga; b) un aumento dei flussi di lavoratori dalle imprese “perdenti” a quelle “vincenti”.
La figura 1 mostra che la dispersione della produttività e della redditività delle imprese italiane è effettivamente in crescita dalla fine degli anni Novanta, in linea con l’ipotesi che gli shock abbiano aumentato il differenziale di performance fra le imprese. La crescita della dispersione continua ininterrotta fino all’ultimo dato disponibile, a suggerire che l’effetto degli shock non è ancora concluso. Se la dispersione è in aumento, cosa è successo alla riallocazione dei fattori? Per misurare i flussi di riallocazione si utilizza il tasso di creazione e di distruzione di posti di lavoro.
La creazione è definita come la somma della crescita occupazionale per le imprese che aumentano l’occupazione; similmente la distruzione. La creazione e la distruzione di posti di lavoro misurano l’intensità dell’attività di riallocazione delle risorse nell’economia: in un periodo in cui i lavoratori si riallocano dalle imprese poco efficienti a quelle più efficienti, si dovrebbe assistere a un aumento sia della distruzione dei posti di lavoro (da parte delle imprese poco efficienti, che riducono l’occupazione) sia della creazione (da parte di quelle efficienti).
La figura 2 riporta il tasso di creazione e di distruzione dei posti di lavoro. La riallocazione registra un picco durante la recessione della prima metà degli anni Novanta, caratterizzata da un forte processo di ristrutturazione. Dopo questo episodio, creazione e distruzione rimangono stabili attorno a valori modesti, senza mostrare particolari segni di crescita. Nonostante una crescita nella dispersione della performance delle imprese, non si è verificato alcun aumento dei flussi di lavoratori: non si intensifica la migrazione di lavoratori dalle imprese meno a quelle più efficienti. Il meccanismo di riallocazione non sembra funzionare

UNA DOMANDA CLASSICA

Il problema può essere riformulato nei termini di una classica domanda sulle imprese italiane: perché la loro propensione alla crescita è così bassa? Perché le imprese di successo non sfruttano appieno il loro vantaggio competitivo ed espandono corrispondentemente la produzione, come succede in altre economie, particolarmente negli Stati Uniti? (1)
La domanda non ha una risposta univoca e richiede una trattazione approfondita. In questi giorni, comunque, è sotto gli occhi di tutti un esempio eclatante di operazioni di politica economica che scoraggiano la riallocazione dei fattori. Una società di fatto fallita, Alitalia, con una situazione finanziaria, manageriale e gestionale implosa da tempo, viene artificialmente tenuta in vita con iniezioni di denaro pubblico, contro ogni logica economica. Anche di fronte a un esempio così evidente di necessità di riallocazione, il governo, tutti i partiti e alcune istituzioni finanziarie si sono concentrati ossessivamente sul salvataggio, in pratica escludendo a priori qualunque altra opzione. Contribuisce a questo schema un sistema di relazioni interpersonali che, come io e Francesco Lippi prevedemmo su queste pagine più di un anno fa, ha giocato un ruolo preponderante nella gestione della vicenda. Meglio sarebbe occuparsi di favorire l’entrata nel mercato di nuove imprese e la crescita di quelle efficienti.

(1) Si veda in particolare “Comparative Analysis of Firm Demographics and Survival: Micro-level Evidence for the Oecd countries”, con E. Bartelsmann and S. Scarpetta, Industrial and Corporate Change, Vol. 14, pp. 365-391, 2005.

 

Figura 1: Dispersione della produttività e della redditività fra le imprese

Nota: Per la definizione delle misure di dispersione, produttività e profittabilità si rinvia a M. Bugamelli, F. Schivardi e R. Zizza, “The euro and firm restructuring”.

 

Figura 2: Tasso di creazione e distruzione di posti di lavoro

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LO STATO DELLE BANCHE

10 commenti

  1. GIANLUCA COCCO

    Il prroblema della scarsa crescita di questo Paese va ascritto alla maldistribuzione della ricchezza, al nanismo imprenditoriale, al divario mai colmato del sud in termini di sicurezza, infrastrutture, tecnologie, ricerca. Il discorso produttività, i cui dati ufficiali sono fortemente discutibili, è solo un modo per scaricare sui lavoratori l’improbabile ripresa futura da un inesorabile e vergognoso declino, causato da tutti coloro che vogliono conservare gli attuali livelli di iniquità, contro i quali le masse, tenute a bada dal regime populista, non sono in grado di battersi in modo incisivo.

  2. Massimo GIANNINI

    Leggendo la frase "le recessioni durano meno e sono il preludio a una forte crescita quando permettono spostamento di lavoro e capitale verso imprese più efficienti. Per questo gli aiuti di stato alle imprese inefficienti allontanano l’uscita dalla recessione" mi è venuto un dubbio: ma le banche sono mica imprese? Se si’, perché a loro si consente l’inefficiente allocazione di risorse (capitale e lavoro), salvataggi e quant’altro? Sempre la solita storia: troppo grandi o troppo importanti per fallire. Pero’ che le banche possano distruggere ricchezza, risparmio e valore non va mica tanto bene.

  3. babel63

    È così sicuro l’autore che il problema sia fatto dipendere dalla qualità e la quantità di sforzo durante l’atto del produrre? Mah… Così si affronta solo il problema dell’efficienza dell’azione. Ma un’azione efficiente è sempre un’azione efficace? A che cosa serve ricercare l’efficienza se poi si perde l’efficacia? Ormai per quanto riguarda la piccola-media impresa i due aspetti divergono, dato che gli operatori sono costretti a rincorrere l’efficienza irraggiungibile. Chi potrebbe sopravvivere, nonostante tutta la sua buona volontà, a una gara contro: 1) chi ha accesso facile al credito; 2) chi è sempre il primo beneficiario di tutte le politiche comunitarie; 3) chi, anche quando non rispettasse gli standard di qualità, non sarebbe sanzionato adeguatamente? All’UE non interessa la sopravvivenza della piccola-media impresa. Perchè mai avrebbe emanato regolamenti per disciplinare il calibro delle mele o l’altezza dei cessi dei bagni pubblici? A me sembra evidente,per alzare l’asticella dei parametri di qualità al fine di rendere i prodotti da realizzare troppo costosi per la maggioranza facendogli così perdere competitività. Questo è il libero mercato disegnato dall’UE.

  4. luigi zoppoli

    L’interessante analisi indica una interessante ottica per motivare la divaricazione crescente tra le aziende che hanno colto l’opportunità di globalizzazione, modernizzazione e "ricoluzione" digitale e tutto il resto. Sarebbe anche interessante capire il peso del fattore dimensionale sulla produttività.

  5. Claudio Resentini

    Non siamo per niente tutti d’accordo. Ammesso e non concesso che la crescita sia di per se stessa un bene (bisogna intendersi sui termini), resta il fatto che la produttività del lavoro non è necessariamente il fattore principale che la determina. Le scelte di allocazione del capitale mi sembrano molto più dirimenti, in epoca di globalizzazone e finanziarizzazione (nefasta) dell’economia. La produttività del lavoro dipende per altro in minima parte dall’incentivazione/disincentivazione dei lavoratori, ma è frutto di scelte organizzative e d’investimento. Legare i salari alla produttività è solo un escamotage per comprimere ulteriormente il costo del lavoro complessivo e asservire i lavoratori alle logiche e agli interessi dell’impresa. Quanto alla riallocazione dell’input lavoro, ammeso e non concesso che qualcuno sia davvero in grado di comparare la produttività tra aziende, settori e prodotti diversi, ricordo che il lavoro non è una merce interscambiabile, ma intrinsecamente legato a lavoratori in carne e ossa con competenze specifiche non sempre convertibili con uno schiocco di dita e con bisogni, aspirazioni, desideri, legami sociali ecc. non mercificabili.

  6. diego

    Oltre al problema della politica che non lascia fallire società come Alitalia ritengo che vi siano ulteriori ostacoli alla mobilità dei lavoratori verso le aziende più efficienti. Il primo riguarda il costo delle abitazioni; il secondo, e più importante, riguarda la formazione dei lavoratori dato che le imprese italiane spesso pretendono che i lavoratori siano già formati. E’ necessario, quindi, organizzare sistemi di welfare attivi (come in alcuni paesi nordici) dove lo Stato anzichè pagare la cassa integrazione organizza corsi di formazione per gli impieghi dove la richiesta di lavoro è maggiore.

  7. Coppola Alessandro

    Si parla da molto tempo di produttività in Italia. Quali incentivi ha oggi un lavoratore italiano? A differenza degli altri Paesi europei dove le aziende cercano di rendere il lavoratore partecipe delle vicende aziendali nel bene e nel male, in Italia siamo ancora a uno scenario di contrapposizione tra imprenditore e salariato. Quest’ultimo non ha alcun interesse a fare più del necessario e non capisco come le aziende dovrebbero pagare di più i lavoratori quando in Italia già si lamenta un elevato costo del lavoro.

  8. Giorgio Zanutta

    A me sembra che il problema sia strutturale; Alitalia è sì un’impresa cotta ma come si è cotta? E la Montedison come si è cotta? Ci sono forse altre che si sono cotte? Probabilmenmte sì e si potrebbe fare la conta per capire il perchè del sistema economico Italia, il problema è la produttività, ma ha interesse un’impresa a migliorarsi quando poi arriva lo stato che mi elargisce quattrini permettendomi di fare concorrenza sleale e collocare tranquillamente la mia produzione soffocando quelle che devono fare tutto con le loro forze , non solo, ma mi permette di concorrere (impostare) alle direttive economiche della nazione ed io mi posso vantare di essere un gran industriale accettato e riverito nei salotti bene della finanzindustria. E’ probabilmente un sistema zoppo che si trascina da troppo tempo per cui o lo stato interviene come azionista e partecipa alla direzione delle imprese secondo quota, o altrimenti se ne sta tranquillamente in disparte lasciando che la rozza legge di mercato faccia il suo corso, è evidente che se c’è partecipazione ci deve essere anche utile e nel caso di perdite sarebbe confortevole vedere anche qualche testa liquidata ma non in pecunia!

  9. Armando Pasquali

    Immaginiamo un mondo dove anche gli economisti e non solo i lavoratori comuni siano sottoposti a processi di ristrutturazione. Immaginiamo un mondo dove, dalla sera alla mattina, al 20% degli economisti viene detto: "da domani tu non fai più l’economista. Non insegni più all’università. Non scrivi più sulle riviste scientifiche. Non intervieni più, riverito e spesato, ai convegni del Fondo Monetario, della Banca Mondiale, dell’Ocse." In un mondo così, il pensiero economico sarebbe lo stesso di oggi? E il problema della ristrutturazione continuerebbe ad essere uno dei tanti problemi astratti, risolvibili con astrusi modelli matematici? O qualcuno si renderà conto che, come scrive Claudio Resentini più sotto, tocca persone reali, "lavoratori in carne e ossa con competenze specifiche non sempre convertibili con uno schiocco di dita e con bisogni, aspirazioni, desideri, legami sociali ecc. non mercificabili"? Un mondo come questo, per ora, non esiste. Dobbiamo accontentarci di un mondo in cui il pensiero economico è questo, in cui l’uomo conta zero, in cui la condizione dei lavoratori è destinata a peggiorare, giorno dopo giorno, inesorabilmente.

  10. giuseppe faricella

    Il problema della riallocazione dei lavoratori nel nostro paese è sostanzialmente dovuto – secondo me – alla scarsa attitudine, tipica soprattutto delle persone del nord, alla mobilità territoriale e al fatto che lo stato non può permettersi integrazioni al reddito, utili a sostenere la ricerca di lavori migliori. In un commento inviato qualche anno fa a lavoce.info provai a sostenere una tesi simile a quella di schivardi, ma – credo perché il mainstream dell’epoca richiedeva la recita del mantra della liberalizzazione del mercato del lavoro – fu snobbato e neanche pubblicato. Comunque, meglio tardi che mai. PS: credo che di leggi inutili come la cd legge biagi ce ne siano state poche nei 60 anni di repubblica.

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