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La disuguaglianza che arriva dal commercio *

Oggi non è più possibile affermare che gli effetti del libero commercio sulla distribuzione del reddito nei paesi ricchi sono minimi. Al contrario, con lo sviluppo della Cina e la crescente frammentazione della produzione, si può sostenere che sono notevoli e crescenti. Non vuol dire che si devono abbracciare le tesi del protezionismo. Significa, però, che i fautori del libero commercio devono trovare risposte migliori alle ansie di coloro che molto probabilmente si troveranno dalla parte perdente della globalizzazione.

Negli anni Ottanta e Novanta erano sorte notevoli preoccupazioni sul possibile ruolo della globalizzazione nel favorire l’aumento delle disuguaglianze di reddito, specialmente negli Stati Uniti. La preoccupazione si basava sulla teoria economica tradizionale: fin dall’articolo di Stolper e Samuelson del 1941 sappiamo che il libero commercio può avere una grande influenza sulla distribuzione del reddito, e può peggiorare le condizioni di vasti gruppi, per esempio i lavoratori meno qualificati.
Tuttavia, dopo uno studio più attento dei numeri, l’opinione condivisa degli economisti era che l’effetto del commercio sulla disuguaglianza fosse probabilmente modesto. Di recente, Ben Bernanke ha citato questi risultati, ma ha riconosciuto un problema: “Sfortunatamente, la maggior parte dei dati empirici sull’influenza del commercio sulla disuguaglianza nei redditi risale agli anni Ottanta e Novanta e non permette quindi di dar conto degli ultimi sviluppi. Se studi sul periodo più recente possano o meno rivelare ben diversi effetti del commercio sui redditi, resta una questione aperta”.

Il ruolo della Cina

Per la verità, la questione non è poi così aperta. È chiaro che l’applicazione ai dati attuali di quegli stessi modelli che nel 1997 hanno portato William Cline del Peterson Institute a concludere che il commercio era responsabile per il 6 per cento dell’allargamento del divario tra università e scuola superiore, darebbe oggi stime ben più ampie. Inoltre, alcune considerazioni che in passato sembravano limitare i possibili effetti di maggiore disuguaglianza, appaiono ora molto meno vincolanti.
Due sono le questioni fondamentali: la crescita della Cina e la crescente frammentazione della produzione.
In primo luogo, grazie alla crescita della Cina, a partire dai primi anni Novanta le importazioni nei paesi Ocse di beni prodotti dai paesi in via di sviluppo hanno continuato a salire rapidamente. Le stime di Cline si basano su dati del 1993, quando le importazioni statunitensi di manufatti dai paesi in via di sviluppo erano all’incirca il 2 per cento del Pil: oggi quel numero è vicino al 5 per cento, ed è in rapida crescita.
Allo stesso tempo, la crescita della Cina ha impedito, almeno per il momento, una evoluzione che io e altri ci aspettavamo e che avrebbe dovuto mitigare gli effetti del commercio sulla disuguaglianza dei redditi: una più alta specializzazione degli esportatori dei paesi in via di sviluppo. Scrivevo nel 1995: “Di pari passo con la loro crescita, il vantaggio comparato dei paesi di nuova industrializzazione può allontanarsi dalle produzioni a bassissima intensità di specializzazione”. E questo è esattamente quello che è accaduto per i paesi che erano allora i maggiori esportatori di manufatti verso l’area Ocse. Come ha mostrato John Romalis, le esportazioni del gruppo originario delle economie asiatiche di nuova industrializzazione si sono spostate massicciamente da prodotti ad alta intensità di lavoro a prodotti ad alta intensità di specializzazione.
Ma ecco che entra in scena la Cina, ancora oggi di gran lunga più ricca di lavoratori di quanto non fossero allora le “tigri asiatiche”. Un indicatore semplice sono i tassi di salario relativo: secondo l’Us Bureau of Labor Statistics, nel 1990 nelle quattro “tigri” originali, i costi per compensi orari erano il 25 per cento di quelli americani. Oggi le stime del Bls dicono che il costo del lavoro in Cina è soltanto il 3 per cento di quello americano.

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La delocalizzazione oggi

Nel 1995 ero anche convinto che gli effetti del commercio sulla disuguaglianza si sarebbero alla fine fermati, perché a un certo punto le economie avanzate non avrebbero avuto più industrie ad alta intensità di lavoro da perdere. Detto più formalmente, avremmo raggiunto un punto di completa specializzazione, oltre il quale la crescita del commercio non avrebbe più avuto alcun effetto sui salari. Quello che è accaduto, invece, è che il limite continua a spostarsi in avanti perché il commercio crea “nuove” industrie ad alta intensità di lavoro attraverso la frammentazione della produzione.
Per esempio, la fabbricazione di microprocessori per personal computer è indubbiamente un processo molto delicato e ad alta intensità di specializzazione. Ma ora la produzione del microprocessore Intel prevede due fasi: la fase “fabs”, nella quale si stampano i circuiti sui dischi di silicio, è sempre localizzata in paesi avanzati con salari alti, ma le fasi di assemblaggio e prova, che servono a suddividere i dischi in singoli chip e a testarli per assicurarsi che funzionino, sono eseguite in Cina, Malesia e Filippine.
La delocalizzazione dei servizi, che procede in entrambe le direzioni, offre altre possibilità al commercio che porta disuguaglianza. Le fasi altamente specializzate dei processi di produzione che si svolgono principalmente nel terzo mondo, sono ora spesso localizzate nei paesi Ocse. Per esempio la Lenovo, l’azienda cinese di computer, ha il suo quartier generale in Nord Carolina.
Tutto ciò porta alla conclusione che non è più possibile affermare, come facevamo qualche anno fa, che gli effetti del libero commercio sulla distribuzione del reddito nei paesi ricchi sono sostanzialmente minimi. Al contrario, si può sostenere che sono notevoli e crescenti.
Ciò non significa che ho intenzione di abbracciare le tesi del protezionismo. Significa, però, che i fautori del libero commercio devono trovare risposte migliori alle ansie di coloro che molto probabilmente si troveranno dalla parte perdente della globalizzazione.

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*testo originale in inglese su voxeu.org

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  1. giuseppe faricella

    l’articolo di krugman è semplicemente illuminante, soprattutto per chi come me è stato tentato dal credere che il regime del libero scambio (anche a scale più piccole, come quella nazionale) possa davvero condurre alla soluzione migliore possibile.

  2. riccardo boero

    Vorrei per prima cosa segnalare un grossolano errore di traduzione dall’inglese: l’inglese SILICON corrisponde all’italiano SILICIO: con dischi di silicone i microprocessori non riuscirebbero molto bene!
    Inoltre, ma questo e` un errore dell’originale, anche le “fabs” dove si producono i master dei chips sono largamente dislocate in paesi a salari mediobassi, come Taiwan, Malesia, Filippine etc
    E perfino i centri di ricerca vengono sempre di piu’ installati in paesi a bassi salari come India, Vietnam, Russia etc.
    La tesi dell’Autore ne e` vieppiu’ confermata: gli effetti della globalizzazione sulla distribuzione del reddito nei paesi ricchi sono decisamente forti.
    Tuttavia non saranno i sostenitori del libero commercio a doversene preoccupare. Non vedo infatti in che modo questo processo possa essere bloccato: il protezionismo, non appena adottato reciprocamente diventa una trappola isolazionista.
    Diciamo che andiamo verso un mondo in cui i redditi e il tenore di vita dipenderanno sempre meno dal luogo di nascita e sempre piu’ dal contributo dato all’economia, e non vedo come cio’ possa essere evitato o perfino considerato un problema.

  3. Bernardo

    Carissimi,

    se è vero che lo sviluppo economico portato dall’hi-tech ha tra i suoi by-product l’aumento dell’ineguaglianza distribuito (come sostiene Krugman), è anche vero il contrario. Certo, i signori IBM, Intel ecc. fanno fortune mentre il silicio lavorato in Asia non fa che mantenere bassi i salari medi dei PVS. Ma è anche vero che se outsourcing e delocalizzazione non venissero effettuati, oltre alla moderna diseguaglianza trans-nazionale (che potrebbe addirittura aumentare), avremmo anche un aumento della diseguaglianza locale.
    La diseguaglianza locale aumenterebbe perchè gli USA attualmente esportano lavori che garantiscono salari inferiori (outsourcing). Dall’altro lato le l’outsourcing aumenta i redditi medi dei PVS (altrimenti l’outsourcing non avverrebbe, perchè sarebbe dis-economico).
    Vediamo cosa succederebbe se non ci fosse apertura (conclusione che comunque Krugman esclude): gli USA si ‘terrebbero’ i lavori di basso profilo e l’outsourcing non avverrebbe. Questo diminuirebe l’ineguaglianza? No, possibilmente l’aumenterebbe ancora di più sia in USA che fuori.
    Il problema dell’outsourcing e della delocalizzazione è che crea il ‘mostro’ della trappola di povertà: i PVS vengono relegati alla manodopera mentre i paesi sviluppati crescono. Questo è vero, ma la delocalizzazione serve anche da traino per i PVS che tramite questa hanno un’occasione per ‘tenere il passo’–come è successo in Europa nel corso del XX secolo: dopo la seconda guerra gli europei emigravano in USA, oggi è il contrario.
    La vera alternativa sarebbe un mondo in cui i PVS non siano semplicemente ‘trainati’ da IBM, Apple, Intel ecc., ma paesi con uno sviluppo proprio. Anche in questo caso il commercio aiuterebbe a ridurre l’ineguaglianza locale.

  4. giuseppe

    Un dotto articolo sul Sole24ore di un paio di anni fa di Mario Sarcinelli raccontava che gli aiuti del governo USA a 2.500 famiglie di grandi produttori di cotone Americani (che avrebbero potuto facilmente riconvertire la propria attività) metteva fuori mercato il cotone prodotto nella fascia sub-saharariana causando la povertà di 15.000.000 di persone, escludendole dal libero mercato. Da allora nulla è cambiato, purtroppo. Considerazioni analoghe si potrebbero fare per gli aiuti ai produttori Europei. Nulla è perfetto, ma il libero mercato ha bisogno di tempo e soprattutto di essere veramente libero e corretto, per contribuire a migliorare le condizioni dei paesi poveri.

  5. Gianmarco Gabrieli

    Mi dispiace constatare l’errore commesso da Krugman: la disuguaglianza non arriva dal commercio ma è preesistente allo stesso.
    Il commercio è una attività di scambio di merci/servizi per ottenere altri beni perchè il nostro lavoro nasce frammentato, dato che come individuo non nasco con capacità agricole, venatorie etc..
    Il commercio nasce come soluzione “pratica” a tale diseguaglianza, non ne ha la funzione di appianarla, né di risolverla , anche se di sicuro la accentua.
    Ma quello che più conta è che la diseguaglianza di reddito non è di per se negativa, se per entrambi per le parti si può verificare l’incremento di reddito, che è esattamente quello che sta succedendo.
    Giocando con la teoria della relatività: è come se i due treni stessero procedendo a velocità diverse, ma nello stesso senso; non dobbiamo fermarci a criminalizzare la differenza di velocità, né cercare di rallentare il treno più spedito, semplicemente concentriamoci su come velocizzare quello più lento.

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