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Di studio in studio contro l’evasione

Nei primi mesi di questa legislatura sembrano essere state poste le premesse per il più importante potenziamento degli studi di settore dalla loro prima applicazione nel 1998. Solo le misure inserite in Finanziaria dovrebbero portare a un incremento di gettito di circa 12 miliardi di euro nel triennio 2007-2009, di cui 3,3 miliardi nel 2007. In particolare, attraverso l’ampliamento del campo di applicazione degli studi e un utilizzo più esteso e penetrante dei risultati dell’analisi della coerenza del contribuente.

Con il disegno di legge Finanziaria per il 2007 si completa l’intervento sugli studi di settore avviato con la manovra-bis. Le misure, inserite all’articolo 5, dovrebbero portare a un incremento di gettito di circa 12 miliardi di euro nel triennio 2007-2009 di cui 3,3 miliardi nel solo 2007.

Gli studi com’erano

Alla base degli studi di settore c’è l’idea di individuare i contribuenti che più probabilmente evadono. Lo si fa confrontando, attraverso tecniche statistiche avanzate, i dati da loro dichiarati con quelli medi indicati dai contribuenti simili ed economicamente coerenti. L’azione di controllo e di accertamento dovrebbe quindi concentrarsi sui soggetti segnalati dagli studi, quelli con ricavi “incongrui” e quelli con dati economici “incoerenti”.
Un contribuente è definito “congruo” se dichiara ricavi non inferiori a quelli determinati dal relativo studio. In caso contrario, è incongruo, sebbene esista una soglia di tolleranza (l’intervallo di confidenza). L’incongruità grave poteva portare direttamente all’emissione dell’avviso di accertamento solo nei confronti dei soggetti diversi dai professionisti e in contabilità semplificata. La distinzione è stata parzialmente superata dal decreto legge 223 del 2006: ora anche i soggetti incongrui in contabilità ordinaria (in primis, le società di capitali) sono accertabili se risultano incongrui in un singolo periodo d’imposta. (1)
Si noti che da questa modifica è atteso un maggior gettito di oltre un miliardo di euro per il triennio 2006-2008 per gli adeguamenti spontanei ed effettuati in dichiarazione.
Un contribuente è definito “incoerente” se dichiara valori di determinati indicatori – quali ad esempio il tasso di rotazione del magazzino o il valore aggiunto per addetto – che risultino molto diversi da quelli dichiarati da un insieme di “colleghi” con analoghe caratteristiche e considerato sufficientemente affidabile da essere preso a riferimento. Alla sola incoerenza non consegue la possibile emanazione dell’avviso di accertamento, bensì l’inserimento in apposite liste di soggetti da sottoporre a controllo. Per questa ragione, fino ad oggi, ad essa veniva attribuita un’importanza secondaria.

La nuova coerenza

Il più importante intervento delineato nella Finanziaria consiste in un utilizzo più esteso e penetrante dei risultati dell’analisi della coerenza. Dai nuovi indicatori (di cui alcuni generalizzati e altri specifici di alcuni settori) dovrebbe derivare un maggior gettito per 2,6 miliardi di euro nel 2007.
Dal testo della legge non è facile capire come ciò accadrà, e del resto è nella natura stessa degli studi di settore lasciare ampio margine alla Sose (società per gli studi di settore) e alla Commissione degli esperti (nella quale sono rappresentate le categorie produttive) per la concreta definizione degli studi. (2) Si può supporre che i nuovi indicatori saranno finalizzati a ridurre gli spazi di manipolabilità. Si ipotizzi, ad esempio, che un contribuente voglia dichiarare 100 di ricavi, realizzando così una certa evasione, ma che l’applicazione dei coefficienti al vero valore delle variabili contabili e strutturali individuate nello studio porterebbero a definirlo congruo solo se dichiara ricavi pari almeno a 120. Se il contribuente manipola (3) (di solito riducendoli) i valori di queste variabili, è possibile che il livello dei ricavi congrui si avvicini a 100, e quindi che l’evasore risulti formalmente congruo. I nuovi indicatori dovrebbero limitare questa possibilità, segnalando che il livello dei ricavi, sebbene formalmente congruo, è tuttavia troppo ridotto nel contesto della situazione economica del contribuente, per esempio considerando la movimentazione del magazzino, e alla luce delle caratteristiche del settore.

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La revisione triennale

Oltre alla manipolazione dei dati, la letteratura sugli studi di settore ha evidenziato un’altra causa della loro possibile inefficienza: l’obsolescenza. Ogni studio è stato costruito a partire da un’analisi dei dati dichiarati dai contribuenti in un determinato periodo, ma la realtà economica tende a mutare rapidamente, specie in taluni settori. Ne sono indiretta conferma gli esiti dell’operazione di revisione del 2004: secondo i dati contenuti nella relazione tecnica, ha portato maggiori ricavi dichiarati da parte delle imprese interessate (circa 1,3 milioni) per circa 10 miliardi di euro complessivi. La Finanziaria per il 2007 prevede che la revisione abbia cadenza triennale anziché quadriennale, e ciò dovrebbe portare a un incremento di gettito a partire dal 2008. Tuttavia, non sembrano esserci ostacoli strettamente tecnici a revisioni biennali o annuali. La scelta del triennio sembra dunque il frutto di un compromesso di natura politica.

L’ampliamento dell’ambito di applicazione degli studi

Il disegno di legge Finanziaria procede nella stessa direzione della manovra-bis, estendendo l’applicazione degli studi a soggetti che prima ne erano esclusi. Il fenomeno dell’esclusione risultava, in effetti, anomalo sia nelle sue dimensioni sia nelle sue cause: bastava la semplice non compilazione del modello o la dichiarazione di trovarsi in una delle situazioni che originano l’esclusione. Per queste ragioni la manovra prevede di applicare gli studi anche ai contribuenti che stanno cessando l’attività e a quelli che si trovano in un periodo non normale di attività, mentre per le nuove attività l’estensione è limitata a taluni casi. L’ambito di applicazione è poi esteso ai soggetti con fatturato non inferiore ai 7,5 milioni di euro, mentre in precedenza la soglia era pari a circa 5 milioni di euro. Per i soggetti che rimangono ancora esclusi dagli studi si prevedono specifici indicatori di normalità e di coerenza economica. Il pacchetto di questi interventi dovrebbe valere, per il 2007, circa 700 milioni di euro.
Nei primi mesi di questa legislatura, sembrano dunque essere state poste le premesse per il più importante potenziamento degli studi di settore dalla loro prima applicazione nel 1998. Tuttavia, bisognerà attendere qualche tempo per verificarne gli sviluppi e, in particolare, per potere valutare le concrete modalità di utilizzo dei nuovi indicatori di coerenza ai fini dell’elaborazione degli studi e le conseguenze sul gettito e sugli accertamenti effettuati.
Va ancora una volta sottolineata, perciò, la necessità che i dati sull’impatto effettivo degli studi siano messi a disposizione dell’opinione pubblica, nell’ambito della più generale operazione di trasparenza sui dati fiscali più volte auspicata dallo stesso viceministro alle Finanze. In particolare, andrebbero resi noti i dati sui soggetti coerenti e congrui, sul numero e sull’entità degli adeguamenti spontanei e di quelli in dichiarazione, sulla quantità e qualità degli accertamenti effettuati, possibilmente suddivisi per settori e per periodi d’imposta.

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(1) Per i professionisti, invece, l’accertamento basato sugli studi di settore è, in concreto, un evento molto raro.
(2) L’articolo 5, comma 2 dice semplicemente che “ai fini dell’elaborazione (…) degli studi di settore si tiene anche conto di valori di coerenza, risultanti da specifici indicatori, rispetto a comportamenti considerati normali per il relativo settore economico”.
(3) La manipolazione è, in astratto, possibile, perché il contribuente conosce tutti gli elementi necessari a verificare se un determinato livello di ricavi determina o meno la sua congruità anche prima della dichiarazione definitiva dei dati.

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10 commenti

  1. carlo genco

    Sono un dottore commercialista, e non condivido l’utilizzo presuntivo dello studio di settore nelle attività di accertamento. In sintesi: 1) con la legge finanziaria diventeranno presunzione legale (ribaltando così la posizione della giurisprudenza secondo cui gli studi, da soli, non bastano a legittimare un accertamento), e davanti ad una presunzione legale di tipo matematico statistico la difesa diventa attività diabolica; 2) i comportamenti ritenuti normali vengono selezionati dal fisco: quindi la costruzione di Gerico risente di un fattore soggettivo, peraltro individuato da una delle parti interessate; 3) quanto è attendibile la verifica dei dati 2005 se costruisco Gerico con risultanze di anni precedenti (come chiedere oggi una diagnosi medica presentando analisi di due anni prima)?; 4) se i dati esposti nelle dichiarazioni sono infedeli, ne consegue che il prodotto Gerico non è attendibile; 5) paradossi: ad un professionista settantenne-peraltro pensionato- con compensi e redditi elevati, senza nero ma non congruo, ho dovuto imporre il licenziamento di una dipendente amministrativa part time il cui costo generava la non congruità. Concludo: 1) sì agli studi, ma solo per selezionare i soggetti da verificare; 2) valenza presuntiva degli studi solo in presenza di irregolarità contabili e/o di incrocio positivo con il redditometro. Vi assicuro: ci sono contribuenti che fatturano tutto, e non possono assumere o investire per paura di Gerico! Fino a quando non si prova sulla propria pelle cosa significa difendersi dalle risultanze degli studi (ad es. attivando il contraddittorio con l’ufficio, che spesso valuta la singola posizione in funzione del budget assegnato e raggiunto!), non si può arrivare a comprendere pienamente le perplessità, forse errate ma legittime, che nutro sulla attendibilità dello strumento e sulla valenza giuridica che gli viene attribuita. Grazie per l’ospitalità. Carlo Genco – Pescara

    • La redazione

      Il punto 1) è effettivamente problematico da un punto di vista giuridico, specie a fronte dell’estensione degli studi ai contribuenti in contabilità ordinaria:
      bisognerà verificare l’impatto dell’innovazione rispetto agli orientamenti giurisprudenziali citati dal lettore.
      Rimane, a mio avviso, il fatto, cui ho già fatto cenno, che la
      frammentazione del sistema produttivo italiano esige di contemperare la tutela delle posizioni individuali con quella della collettività che ha diritto ad una riduzione dell’evasione a livelli, quantomeno, fisiologici rispetto al resto d’Europa.
      Sul punto 2) va osservato che i comportamenti “normali” sono selezionati dal fisco ma con l’accordo di una commissione di esperti nella quale sono rappresentate tutte le principali categorie produttive e che contribuisce a definire lo studio in tutti i suoi snodi essenziali (compresa, si noti, la nuova coerenza prevista in finanziaria).
      Sul punto 3) concordo, ed infatti credo che sia opportuno muoversi verso l’ulteriore riduzione dei tempi di revisione (il ddl di legge finanziaria li porta da 4 a 3 anni).

  2. paolo

    E’ contro ogni principio economico, di cui abbiamo ricevuto insegnamento, pretendere che tutte le imprese di ogni settore abbiano performance crescenti. Ciò può essere giustificato solo dall’esigenza di aumentare il gettito, ma non può essere accettato supinamente da persone libere che conoscono la realtà delle nostre imprese, per non parlare delle attività professionali. I costi sono per molti motivi strutturalmente poco elastici, mentre i ricavi possono avere variazioni notevoli. Inoltre, è questa può essere l’eccezione: come si fa a legare i ricavi ai consumi, quando si sa che quelli energetici crescono molto di più dell’inflazione? E soprattutto perchè l’imprenditore o il professionista che ha realizzato meno ricavi in un anno e si adegua a quelli previsti dagli studi di settore, se l’anno dopo li supera di gran lunga non può recuperare parte del maggior imponibile fiscale dichiarato in più per quieto vivere nell’anno precedente? Non esistono più i cicli economici in cui ogni tre anni aziende di diversi settori incontrano crisi, che seguono boom degli anni precedenti? A me sembra che la tiritera che si sta facendo sugli studi di settore imiti la pianificazione fiscale del governo precedente: verteva sempre sulla centralità degli studi di settore: centrodestra o centrosinistra sempre quella è la soluzione, almeno su questo esprimano un accordo. E mettiamoci una pietra sopra.

    • La redazione

      Il commento contiene alcune osservazioni di carattere generale,
      ed altre di carattere specifico.
      In generale, è vero che gli studi di settore sono uno dei pochi elementi bipartisan di politica fiscale. Al contrario di quanto sembra pensare il lettore, tuttavia, tendo a credere che questa sia una cosa positiva.
      L’introduzione degli studi di settore è giunta, non casualmente,
      al termine di un dibattito decennale. In un paese come l’Italia,
      dove esistono circa 6 milioni di partite IVA su una popolazione
      potenzialmente attiva di 40 milioni di persone, è impossibile raggiungere, attraverso una normale attività di controllo casuale, livelli sufficienti di dissuasione. La strada dell’innalzamento delle sanzioni e quella delle “campagne sociali” (telefoni gialli, ecc.) non ha dato buoni frutti. Per questa ragione, credo, nessuna coalizione o governo rinuncerà facilmente agli studi di settore.
      Nello specifico, i ricavi stimati non sono legati solo ai consumi,
      ma ad un insieme molto ampio di variabili, tra cui alcune di
      carattere strutturale ed extracontabile, ed altre di natura patrimoniale.
      In alcuni studi, tuttavia, il peso di talune variabili è maggiore,
      ma ciò dipende essenzialmente dalle caratteristiche dei
      contribuenti del cluster.
      Per quanto riguarda il “riporto in avanti” delle eccedenze sulla
      congruità che il lettore sembra suggerire mi sembra difficile
      inserirlo negli studi di settore. Per catturare meglio la variabilità
      della congiuntura all’interno di uno o più cluster è forse
      preferibile pensare a tempi più ridotti di revisione degli studi
      (le revisioni recenti hanno portato, in qualche caso, anche
      ad una riduzione dei livelli di ricavi congrui per settori che avevano attraversato fasi di crisi).

  3. Massimo Leonardi

    Mia moglie è titolare di un esercizio commerciale dal 1999. Poiché la scelta di diventare commerciante è scaturita dalla necessità di avere un lavoro che le permettesse di svolgere anche le funzioni di mamma e non da una vocazione particolare al businness o al guadagno facile (prima era commessa e doveva sostenere carichi e ritmi di lavoro incompatibili con tale funzione), ha impostato l’attività sulla correttezza verso i clienti, verso i fornitori e verso lo Stato. La correttezza verso la Stato si è concretizzata nell’emettere regolarmente gli scontrini fiscali e con gli importi reali. Da ciò ne è conseguita una dichiarazione del reddito, affidata ad un consulente, che anno per anno ha rispecchiato fedelmente il giro di affari dell’attività. Nonostante ciò la dichiarazione è sempre risultata incongrua ed è sempre stato fatto l’adeguamento al minimo. Ciò accade sistematicamente anche a nostri conoscenti titolari anche loro di piccoli esercizi commerciali e, per quanto di conoscenza, corretti. Premettendo che solo leggendo il Suo articolo ho capito un po’ come funziona il sistema (e di questo La ringrazio) e che sono profondamente ignorante in materia, pongo una domanda. Gli studi derivano da analisi statistiche sofisticate, non so se su campione o sulla popolazione in toto. Se, come si dice, l’evasione fiscale nel lavoro autonomo è diffusissima, i dati da elaborare verosimilmente sono in buona parte “alterati”, anche se numerosi. Vengo al punto. Non è che, per la ragione sopra esposta, ai sistemi di calcolo del reddito vengano applicati sistemi correttivi (funzioni, coefficienti etc.) che tengono conto dell’evasione “endemica” del sistema ma poi vanno a penalizzare soggetti con determinate caratteristiche (es. piccoli esercizi) che in realtà denunciano correttamente il loro reddito? La Ringrazio.

    • La redazione

      Il lettore segnala una problematica che sicuramente esiste. Il concetto di “congruità”, ovvero di normalità rispetto al settore di riferimento, per quanto dettagliatamente possa essere definito quest’ultimo, non coincide con quello di “evasione”. Nessuno strumento statistico, per quanto raffinato, è infallibile e vi è un problema insolubile, a monte, ovvero la necessità di ragionare induttivamente su una materia, l’evasione, che è, per definizione, oscura.
      E’ per questa ragione che è essenziale che gli studi rimangano uno strumento di selezione dei contribuenti da sottoporre a controllo, non uno strumento di catastizzazione del reddito. Ciò implica, da un lato, che la giustificazione dello scostamento dai ricavi congrui non deve diventare impossibile da provare altrimenti i contribuenti che pure non evadono, come nel caso riportato dal lettore, tendono ad aderire alla richiesta del fisco per evitare di incorrere in procedure lunghe e difficili. E, dall’altro lato, implica che l’amministrazione finanziaria proceda effettivamente a fare gli accertamenti sui soggetti incongrui.

  4. Marco Solferini

    A mio avviso c’è una campagna demagogica e faziosa volta a scandalizzare la pubblica opinione attraverso la comparazione dei redditi dichiarati, fra professionisti appartenenti al mondo dell’avvocatura, notariato, sanità e simili rispetto ad altre professioni più “comuni”, più “civiche” e il cui accesso non presuppone un inter di studio e un costante aggiornamento ne tantomento l’esistenza di ordini professionali e meccanismi di autoregolamentazione interna. E’ assolutamente ingiusto pubblicare le presunte dichiarazioni “medie” di avvocati, notai, dentisti, commercialisti e via dicendo perchè non si tiene conto di strumenti “assolutamente legali” come sono per es. i Trust o le società fiduciarie, in Italia, a San Marino o all’estero, il cui beneficio risiede nell’avere studiato per poi applicare tali conoscenze, attraverso il c.d. tax planning cioè la pianificazione fiscale. Biosogna anche considerare ciò che le professioni possono offrire ai professionisti, nel pieno rispetto della legalità e dei diritti invece di alimentare una spirale di sospetti sulle dichiarazioni dei redditi. Le libere professioni sono prima di tutto professioni onorevoli e meritano più dignità e discrezione rispetto a quello che al momento è dato di constatare.

  5. carlo della chiesa

    Sulla lotta all’ evasione c’è molta demagogia e poca concretezza. L’ Agenzia delle Entrate ha fornito i dati dei redditi medi dichiarati nel 2004 dai lavoratori autonomi distinti per categoria e regione: sono stati commentati con scalpore in diversi dibattiti televisivi. In seguito sono stati pubblicati gli indici di congruità, sempre per il 2004, dei redditi dichiarati da 1.700.000 lavoratori autonomi. Emerge che il 63% (circa 1.070.000) di tali redditi è risultato congruo.
    Intanto è da ritenere che debba trattarsi di un campione limitato dal momento che secondo l’Agenzia i titolari di partita Iva del 2003 erano così suddivisi: persone fisiche 3.821.000, società di persone 1.020.000, società di capitali 847.000.
    Emergono inoltre alcune considerazioni.
    Innazitutto se l’ azione di recupero del gettito da intraprendere, incentrata sugli studi di settore, ha come platea 1.700.000 soggetti non dispiegherà i risultati attesi.
    Ancora si osservi che, tutto sommato, è alta la percentuale di congruità e, se lo scalpore che si diceva è motivato, gli indici non funzionano perfettamente.
    Infine cosa si è dichiarato di fare per quei 630.000 contribuenti ritenuti non congrui?
    Come detto nell’ articolo l’ azione dell’ amministrazione finanziaria si svilupperà ora sugli indici di “coerenza” e si chiede ai professionisti del settore nuovi ed ulteriori adempimenti telematici, cui i professionisti non si sottraggono se constatano che rispondono a reali esigenze.
    In conclusione l’ azione del recupero del gettito deve essere accompagnata da una valida comunicazione ed una ampia informativa tesa a fornire un quadro completo ed analitico sul tema tasse. Non si può inoltre procedere senza articolare un valido programma di controllo materiale delle realtà reddituali dei conribuenti, magari esemplificando le procedure accertative.

    • La redazione

      Riguardo alla platea oggetto degli studi, a seguito delle innovazioni introdotte con la manovra-bis e con il ddl di legge finanziaria, essa si è notevolmente ampliata.
      Nel 2004 risultava essere di circa 4milioni di soggetti ed è plausibile ipotizzare che sia aumentata di qualche centinaia di migliaia di unità. Per quanto concerne i professionisti, tuttavia, fino ad oggi è stato operativo lo schermo del regime di monitoraggio, che dovrebbe venire meno da marzo 2007. I risultati andranno attentamente valutati, anche considerando
      il fatto che, secondo molti osservatori, è il metodo stesso degli studi ad essere difficilmente applicabile ai professionisti.
      Mi sembra del tutto corretta l’affermazione del lettore secondo cui l’elevata congruità segnala una scarsa incisività degli studi fino ad oggi, ed ancora più importante la richiesta di trasparenza (che va girata alle autorità competenti) circa gli esiti dell’attività di accertamento sui contribuenti incongrui.

  6. Antonio Mamì

    Condivido l’opinione di Alessandro Santoro in merito alla necessità che gli studi di settore non divengano uno strumento di catastizzazione del reddito.
    A tal proposito ritengo che tale strumento vada rimodulato. Da un lato è corretto estendere la platea dei contribuenti destinatari di accertamento da studi di settore, così come fondamentalmente è stato fatto abolendo la regola del “due su tre” per le imprese in contabilità ordinaria.
    D’altro canto ritengo che l’accertamento da studi dovrebbe trasformarsi in strumento pre-accertativo: il contribuente riceve l’invito al contraddittorio, verifica in contraddittorio con l’agenzia delle entrate la congruità della richiesta erariale eventualmente ridotta dei riscontri documentali prodotti e, in caso di mancata acquiescenza, viene sottoposto a ordinario controllo, anche tramite accesso breve.
    Non si otterrebbe in questo modo un effetto di adeguamento spontaneo forse ancor maggiore di quello esistente, evitando al contempo eventuali storture dello studio che il contribuente non ha però possibilità di dimostrare?

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