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Riformare si può

Vincere le resistenze politiche ed elettorali alle riforme strutturali è possibile. Governi con ampie maggioranze parlamentari e internamente coesi possono imporre alle opposizioni parlamentari interventi che interessino un vasto strato dell’economia e che favoriscano, nel medio periodo, il loro elettorato. Per Governi meno forti, è invece necessaria una fase di costruzione del consenso politico attraverso la concertazione tra le diverse forze in campo. Soprattutto, però, serve informazione sui costi e i benefici presenti e futuri delle riforme.

Nelle interviste ai giornali, negli interventi ai convegni e finanche nei programmi elettorali, diversi politici si dichiarano apertamente favorevoli ad attuare alcune riforme strutturali. Eppure, malgrado tale dichiarazione d’intenti e i reiterati inviti da parte di istituzioni internazionali (Ocse, Banca Mondiale, Fmi) e del mondo accademico ad attuare interventi che consentano alle economie europee di essere più efficienti, più produttive, in altri termini, di crescere di più, poco è stato fatto (si pensi solo alla direttiva Bolkestein).
Le richieste di riforme e i suggerimenti di policy sembrano arenarsi invariabilmente nelle secche della politica. I costi elettorali di riformare il mercato dei beni o del lavoro e di ristrutturare il welfare state costituiscono un valido disincentivo anche per i politici più seriamente intenzionati a perseguire la loro agenda, come dimostra la mancata riforma del sistema pensionistico statunitense voluta da George W. Bush nel 2005, o il fallimento della proposta di riforma del mercato del lavoro francese sostenuta da Dominique de Villepin solo poche settimane fa.

Le ricette per le riforme

Ma riformare si può. Un recente lavoro dell’Ocse  analizza le (molte) liberalizzazioni sui mercati dei beni europei e le (poche) riforme del mercato del lavoro. Alcune dinamiche dei processi di riforma emergono con forza. In molti paesi, gli sforzi di riforma si concentrano nei momenti di maggiore crisi economica (bassa crescita o elevata disoccupazione) e nei periodi in cui è necessario far fronte a vincoli esterni – come ad esempio l’introduzione del mercato unico europeo nel processo di liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni e del trasporto aereo.
Vincere le resistenze politiche ed elettorali alle riforme strutturali è dunque possibile. Ma come? Un lavoro svolto da un gruppo di economisti europei – Vincenzo Galasso, Micael Castanheira, Stéphane Carcillo, Giuseppe Nicoletti, Enrico Perotti, Lidia Tsyganok – per la Fondazione Rodolfo Debenedetti e appena pubblicato dalla Oxford University Press suggerisce alcune ricette politiche, sulla base di un’analisi di alcuni processi di riforma avvenuti nei paesi Ocse negli ultimi venti anni. Una ricetta unica non emerge. I suggerimenti su come ottenere il sostegno politico per le riforme dipendono da molti fattori – politici, economici, e legati allo status quo nei mercati da riformare – che finiscono per determinare il successo o il fallimento dei processi di riforma.
Governi con forti maggioranze parlamentari e internamente coesi (tipicamente non di coalizione), che godono dunque di un forte potere decisionale, possono imporre alle opposizioni parlamentari riforme strutturali che interessino un vasto strato dell’economia e che favoriscano, nel medio periodo, il loro elettorato. Se lo scenario economico e sociale non garantisce potere di veto ad altri attori non-politici, quali ad esempio i sindacati o le organizzazioni corporative o di categoria, anche riforme radicali, come la riforma delle pensioni e dalle privatizzazioni degli anni Ottanta nel Regno Unito di Margaret Thatcher, possono essere implementate.
Per Governi meno forti, per numero di seggi o coesione interna, la strada delle riforme passa per una fase di costruzione del consenso politico attraverso la concertazione tra le diverse forze in campo. Questo è l’esempio delle riforme pensionistiche Amato e Dini in Italia e della riforma del lavoro negli anni Novanta in Danimarca. In Italia, il prezzo del consenso politico è stato rappresentato da un lungo periodo di transizione volto ad evitare che parte del costo economico ricadesse su alcuni gruppi politicamente rilevanti, ovvero i lavoratori anziani e i pensionati. In Danimarca, il modello di flexicurity – caratterizzato da un’elevata flessibilità del mercato del lavoro e da generosi sussidi di disoccupazione – è stato modificato nel 1993 per fronteggiare un forte aumento della disoccupazione. In questo caso, il consenso per ridurre la generosità dei sussidi di disoccupazione è stato acquisito attraverso la concessione di misure attive nel mercato del lavoro finalizzate ad aumentare l’occupabilità dei disoccupati di lunga durata.

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Le liberalizzazioni nel mercato dei prodotti

In alcuni settori, però, questo processo di costruzione del supporto politico è più difficile e oneroso, in termini di concessioni ai diversi gruppi di pressione, poiché l’opposizione alle riforme attraversa gli schieramenti politici.
È il caso soprattutto dei processi di liberalizzazione del mercato dei prodotti, in cui lavoratori e management sono uniti nella difesa del potere di mercato della loro impresa o settore. In tali occasioni, la ricetta è “divide et impera”: gradualità delle riforme e divisione degli interessi in gioco rappresentano dei pre-requisiti per avviare processi di riforma efficaci e duraturi. Così è stato, ad esempio, per la liberalizzazione del mercato della telefonia in Italia, preceduto dalla privatizzazione di Telecom, a cui va comparata la più complessa esperienza di liberalizzazione in Francia, in un mercato dominato dalla pubblica France Telecom.
Come evidenziato anche dallo studio dell’Ocse, molte esperienze di liberalizzazione del mercato dei prodotti e di privatizzazione sono riconducibili all’esistenza di vincoli esterni.
I diktat di Bruxelles e – per i paesi ex-socialisti – l’opportunità di entrare nell’Unione Europea hanno consentito ai Governi di adottare importanti misure di riforma senza dover pagare costi politici o elettorali. Ma i recenti episodi in Francia e Olanda, con la mancata ratifica della Costituzione europea mostrano le difficoltà di continuare a utilizzare questi vincoli esterni per ridurre il costo politico delle riforme meno popolari.
L’ultimo, importantissimo suggerimento che scaturisce da questa analisi è la necessità di informare sui costi e i benefici presenti e futuri delle riforme. In molte circostanze, l’opposizione alle riforme nasce dalla mancanza di informazione su chi ne beneficerà e dalla percezione talvolta erronea che le rendite di posizione possano essere difese ad infinitum. Informare sul costo dello status quo per le generazioni presenti e future – ad esempio in termine di minor competitività internazionale, crescita ridotta e minori possibilità di occupazione giovanile – rappresenta un esercizio di realismo politico a cui è bene non sottrarsi.

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Lavoce.info, una voce fin troppo saggia

  1. Luca

    Sembra incredibile ma è cosi. Non si riesce davvero a capire di quale forma di insufficienza decisionale soffra la politica italiana. Si continua ad andare avanti a parlare di concertazione, ruolo delle parti sociali, sindacati, Confindustria come degli elementi necessari per lo sviluppo delle politiche economiche. Stupisce invece che nessun analista politico-economico ricordi che queste parti sociali sono delle lobbies che proteggono interesse di parte, che NON sono eletti dagli elettori e che quindi NON sono (o meglio non dovrebbero essere) dei policy-maker. E’ ora di finirla di essere sempre assoggettati all’influenza dei sindacati o di Confindustria nel riformare questo paese; le riforme devono essere fatte e alla svelta. I veri politici sono quelli che sanno prendere delle decisioni che possono anche andare contro a degli interessi di parte. Se siamo ancora all’idea delle politiche populiste che devono solamente raccogliere il massimo dei consensi tra gli elettori in maniera da vincere le prossime elezioni politiche siamo veramente ad uno stadio molto infantile della politica. La situazione economica non è positva. Abbiamo bisogno quindi di politici coraggiosi che sabbiano fare delle scelte secondo quello che si dovrebbe fare (la vecchia economia NORMATIVA) e non semplicemente secondo quello che è OPPORTUNO fare. Saprà Prodi andare contro la CGIL quando ci sarà da sostenere la flessibilità del mercato del lavoro e dei sistemi pensionistici oppure siamo ancora al punto dove per salvaguardare il posto in Parlamento ritardiamo ulteriormente le riforme impoverendo ulteriormente il Paese?

  2. Alessio Calcagno

    Sono scettico per quanto riguarda la forza di questa maggioranza a governare il paese.
    Le lobby in italia sono rappresentate a livello politico. Colpire le pensioni vuole dire non solo andare contro la CGIL ma anche contro la presidenza della camera..
    Bisogna però capire che la concertazione non è uno strumento preferenziale bensì obbligato quando si governa con 10 partiti che sono appoggiati da altrettantie lobbies.
    E’ necessario dare decisionismo all’azione legislativa. La soluzione è una nuova legge elettorale. La Thatcher poteva contare su un maggioritario a doppio turno…

  3. michele

    Dopo aver constatato che lavoro nero ed evasione ci costano ben un settimo del Pil all’anno, si continua a sproloquiare di pensioni e pensionati che si sono fagocitati il “benessere” e lo sviluppo di questo paese. Per favore, basta, ne abbiamo abbastanza: di prlevare soldi in costi, tasse, sperequazioni e gabelle dirette e indirette sul lavoro dipendente e sui ceti meno abbienti siamo capaci tutti, ma non è esattamente questo che sta scritto nella nostra Costituzione, che abbiamo appena difeso da un attacco sconsiderato.
    Sta scritto che ciascuno contribuisce secondo le proprie capacità ed il proprio reddito.
    La democrazia è anche questo, altro che che il coraggio di andare contro i sindacati, detto così genericamente: manca da sempre il coraggio di aggredire veramente un viluppo di interessi che sta rivelandosi in tutta la sua corruzione, e che se non ci fosse quel minimo di tutele ancora garantite proprio dal movimento dei lavoratori ci avrebbe già sotterrato tutti, come l’ultimo dei paesi sudamericani.
    Coraggiuo ci vuole, per individuare strategie economiche diverse, andare contro interessi costituiti sinora prevalenti, trasformare in progetto politico concreto le aspirazioni di chi lavora, produce e si sente ormai anche preso in giro.
    L’Unione è stata eletta per questo, non per altro. Fingerà di non saperlo? In quel caso sottoscriverà il suo testamento in nome di un realismo che è quanto di più surreale ci possa essere.
    E, per costruire questo coraggio, bisogna avere e costruire consenso dimostrando capacità inventive, progettuali, tempismo.
    L’unico dubbio che ho è che questa maggioranza non possegga queste qualità in termini adeguati per cui ci toccherà sorbirci le usuali litanie che sentiamo da decenni. Con una differenza: non convinceranno più nessuno.

  4. Marco D'Egidio

    Mai come adesso l’importante è riformare: riformare in senso politico, da cui deriva il riformare in senso culturale e sociale. Sembrerebbe che il governo Prodi non sia adatto a questo scopo, con un Paese scisso, una maggioranza esigua in Parlamento, con Confindustria da una parte e sindacati dall’altra senza per il momento terreno comune di dibattito. Vorrei però osservare come non sempre governi “forti” hanno saputo approfittare dela larga piattaforma di consenso: il rischio paradossale è quello di adagiarsi sulla forza acquisita e di ossequiare l’elettorato favorevole senza avere un vero orizzonte riformatore. D’altro canto, governi nati in modo incerto, con operazioni di ingegneria politica, come quelli di coalizione potrebbero essere maggiormente spronati ed incalzati sul terreno delle riforme (e la Merkel sta organizzando un progetto di largo consenso). In Italia il discriminante sono proprio i forti gruppi di interesse, dal peso storico, più favorevoli allo status quo e in questo senso conservatori. Questi abbracciano le più diverse frange sella società. Per cominciare, concordo con Galasso, è bemne informare attivamente il Paese sui rischi dell’immobilismo e non soltanto di perdere il treno della competitività: il sistema previdenziale, ad esempio, potrebbe materialmente non reggere più e le finanze pubbliche sono allo stremo. Prodi stesso, poi, dovrà avere un polso di ferro nel tracciare il suo programma riformatore, avendo il coraggio di scelte magari impopolari, ma in grado di innovare la mentalità stessa. E di rilanciare la domanda, e di stimolare la competitività, e…

  5. francesco

    La prima riforma da fare è quella di prevedere controlli efficaci sulla spesa pubblica.E’ inutile stabilire dei limiti se questi poi non vengono rispettati.Nelle autonomie locali mancano spesso i controlli sia preventivi che successivi onde gli incarichi,le consulenze le spese di rappresentanza abbondano.Occorre allora iniziare da una riforma della p.a. secondo criteri di merito e di risultati invertendo l’attuale rotta tesa verso la lottizzazione delle nomine e degli incarichi.In quest’ultimo caso essendo i dirigenti nominati dagli stessi controllati nessun obiettivo di interesse generale potrà essere assicurato giacchè quello che interessa è l’attuazione degli interessi di maggioranza che spesso si concretizzano in incarichi e consulenze a favore di amici e amici degli amici.
    Quindi una riforma della p.a. che limiti la discrezionalità nelle spese,nella scelta dei dirigenti da effettuarsi secondo logiche di merito e non di appartenenza politica e maggiori controlli interni ed esterni nel rispetto delle normative.

  6. sabry1709

    E’ possibile che si continua a parlare di concertazione come metodo utilizzato necessariamente dai governi meno forti? non è possibile invece pensare che la forza di un governo possa essere anche quella di, attraverso la collaborazione delle parti sociali, trovare delle soluzioni largamente condivise? Non sempre la forza deve coincidere con la prepotenza!

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