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Ieri, Moggi e domani

Il sistema calcio italiano si trova in un circolo vizioso in cui i divari sportivi ed economici si alimentano a vicenda. Più le grandi squadre si rafforzano, più aumenta lo squilibrio, peggiore risulta l’equilibrio competitivo. Questo può causare una perdita di interesse da parte degli spettatori e una riduzione del volume di risorse che affluiscono a questa industria.
Indispensabile una profonda riflessione su regole e di meccanismi di controllo utili a garantire un riequilibrio della forza relativa dei club e un aumento del livello competitivo interno del campionato.

Il sistema calcio italiano pare essere entrato in una bufera di cui è difficile immaginare non solo la fine, ma anche forza ed estensione. Come in ogni caso di rottura dello status quo che si rispetti, si rincorrono voci, supposizioni, timori, annunci, insinuazioni, prese di posizione e semplici pettegolezzi di quartiere. Tutti pronti a gridare allo scandalo, indignati e colpiti al cuore: giornalisti, politici, calciatori o semplici appassionati domenicali. Ma, subito dopo, altrettanto pronti alle rassegnate litanie di rito del “io lo dicevo…” e “io lo sapevo…”.
Fuori dall’atteso e normale teatro della pubblica e privata sorpresa, rimane lo spazio del pensiero, e della ricerca delle soluzioni a quella che certo si caratterizza come una crisi di vaste proporzioni. E il calcio, ci piaccia o no, rappresenta una rilevante fetta del nostro colorato sistema paese.
Con 5 miliardi di euro di giro d’affari annuo, è una delle principali attività economiche del paese; i 40 milioni di cittadini interessati e appassionati ne fanno il fenomeno sociale di massa di maggior rilievo; da un punto di vista mediatico, infine, è tra i maggiori catalizzatori di audience (le trasmissioni televisive più viste sono spesso le partite di calcio), e dunque di consumi.

Dopo la rivoluzione

Ogni rivoluzione, indipendentemente dalle sue cause scatenanti, è spesso seguita da un periodo di evoluzione. Questo pare essere almeno il sentimento di Guido Rossi, commissario straordinario incaricato di sbrogliare la matassa, che sostiene che “le grandi riforme dell’economia sono arrivate sempre nei momenti di grande crisi e che la crisi induce a creare regole diverse”. Ma ai nuovi codici occorre accostare etica ed equità. Intervento normativo e moralizzazione sono dunque i due lati della stessa medaglia, per rilanciare il sistema calcistico.
Quanto la mancanza di regole da un lato, e il malaffare, la corruzione, il complesso sistema di influenze e favori dall’altro, hanno influenzato gli ultimi campionati, viziandone irrimediabilmente gli equilibri agonistici e sportivi? Quanto, in altri termini, ha influito il cosiddetto “sistema Moggi”? Poco o nulla, come sostiene chi dice che “la palla è tonda” e che vizi e vizietti dello sport fanno parte del gioco (sic!) e poco influenzano i risultati finali? (1) Oppure l’influenza dei poteri occulti del calcio ha rovinato spettacolo sportivo e falsato rilevanti dinamiche finanziarie come i più invece temono?
Il campionato di calcio del nostro paese è certamente viziato (almeno in termini comparativi) da un deficit competitivo che determina dinamiche di classifica “uniche” se paragonate a quanto avviene negli altri maggiori campionati europei. Presentiamo qui i risultati che sostengono l’ipotesi del deficit competitivo e suggeriamo alcune proposte normative per portare nuovo equilibrio in campo (e spettacolo per gli spettatori).

Analisi della competitività

Per prima cosa, si è comparato il campionato di calcio italiano con quelli tedesco, spagnolo e inglese per verificare se il divario fra grandi e piccoli club (e quindi la scarsa competizione) fosse da noi più marcato. Le stagioni prese in considerazione sono le ultime sei (dal 2000-2001 al 2005-2006).
A un primo superficiale livello di studio, se si considera unicamente il numero di squadre che hanno vinto il campionato, non emergono differenze significative tra i diversi tornei: tutti e quattro i campionati hanno visto alternarsi tre squadre al vertice nelle ultime sei stagioni (tavola 1)

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Tavola 1. Squadre al vertice dei campionati

 

Spagna

Italia

Inghilterra

Germania

2005-2006

Barcellona

Juventus

Chealsea

Bayer Monaco

2004-2005

Barcellona

Juventus

Chealsea

Bayer Monaco

2003-2004

Valencia

Milan

Arsenal

Werder Brema

2002-2003

Real Madrid

Juventus

Manchester Utd

Bayer Monaco

2001-2002

Valencia

Juventus

Arsenal

Borussia Dortmund

2000-2001

Real Madrid

Roma

Manchester Utd

Bayer Monaco

Anche se consideriamo la differenza punti tra la prima e l’ultima squadra classificata, non emerge con chiarezza un deficit competitivo italiano: il nostro campionato presenta valori mediamente più elevati rispetto a quelli di Spagna e Germania, ma inferiori all’Inghilterra (tavola 2).

 

Tavola 2. Differenze tra squadre prime e ultime classificate nei diversi campionati

 

Spagna

Italia

Inghilterra

Germania

2005-2006

58

70

76

48

2004-2005

56

51

63

59

2003-2004

51

69

57

42

2002-2003

46

51

64

45

2001-2002

38

53

59

48

2000-2001

41

55

54

36

MEDIA

46,4

55,8

59,4

46

 

Per avere un’idea più corretta e completa del livello di competizione interna del campionato, abbiamo utilizzato l’indice di Gini per analizzare la distribuzione dei punti tra le squadre. Osservando i dati (tavola 3), è possibile notare come l’Italia abbia un valore medio superiore a quello degli altri paesi e come, quindi, i punti siano distribuiti in modo molto più concentrato. In altri termini, il dato evidenzia che poche squadre fanno molti punti e, dunque, sottolinea che esiste un divario difficile da colmare tra i pochi team forti e i molti deboli.

Tavola 3. Comparazione dell’indice di Gini per i campionati dal 2000-2001 al 2005-2006

Spagna

Italia

Inghilterra

Germania

2005-2006

0,15

0,20

0,18

0,16

2004-2005

0,14

0,13

0,17

0,15

2003-2004

0,13

0,20

0,15

0,16

2002-2003

0,14

0,17

0,15

0,11

2001-2002

0,11

0,16

0,17

0,17

2000-2001

0,12

0,16

0,14

0,12

MEDIA

0,130

0,171

0,159

0,148

 

L’indice di Gini, inoltre, presenta una crescita costante. La sola eccezione è il campionato 2004-2005 che però ha alcune peculiarità: è stato il primo a venti squadre e il livellamento c’è stato, ma verso il basso. Molti si ricorderanno che alla penultima giornata c’erano ben otto squadre in lotta per non retrocedere e la retrocessione fu alla fine decisa in base alla classifica avulsa e allo spareggio.
I dati confermano l’ipotesi dell’esistenza e della continua crescita del divario fra grandi e piccoli club del nostro campionato. (2) E la disuguaglianza è ulteriormente accentuata dal diverso trattamento nella cessione dei diritti televisivi. Il sistema si risolve in un circolo vizioso in cui i divari sportivi ed economici si alimentano a vicenda. In altre parole, più le grandi squadre si rafforzano, più aumenta lo squilibrio, peggiore risulta l’equilibrio competitivo. Questo può causare una perdita di interesse da parte degli spettatori e una riduzione del volume di risorse che affluiscono nell’industria calcio.

Cosa fare

Guido Rossi promette interventi efficaci e subitanei, tali da garantire non solo un clima più disteso per l’avvio del campionato del mondo, ma anche i nomi delle squadre che parteciperanno alle coppe e il corretto avvio del prossimo campionato di serie A.
Ai tanti consigli che riceverà nei prossimi giorni, vogliamo aggiungere una nostra riflessione sull’introduzione di regole, già più volte discusse nelle pagine di questa testata, volte a favorire un maggiore equilibrio tra le squadre. Le possibili soluzioni riguardano ancora una volta l’introduzione, sul modello degli sport professionistici americani, di un salary cap che uniformi in qualche modo le spese delle società negli stipendi dei calciatori.
La recente innovazione introdotta dalla serie B rappresenta un importante passo in questa direzione, anche se non sufficiente. Per due ragioni. Innanzitutto è stato fissato un limite di spesa in salari (pari al 70 per cento dei ricavi complessivi) che non è uguale per tutte le squadre. Dunque, anche in questo caso, come faceva notare la Gazzetta dello Sport, il Torino e l’AlbinoLeffe avrebbero due budget a disposizione ben diversi. In secondo luogo, un intervento di questo genere non può essere fatto solo a livello italiano, ma richiede omogeneità a livello europeo. Se venisse, infatti, introdotta solo in Italia una ferrea salary cap sul modello dell’Nba del basket americano, i club italiani potrebbero perdere competitività nei confronti delle altre squadre europee. In ogni caso, la coerenza a livello di sistema sopranazionale non deve rappresentare un alibi al cambiamento. Nel caso non venisse approntata alcuna modifica sostanziale, alcuni già immaginano una situazione nazionale di collasso del sistema, con il possibile esito di una rottura della Lega attuale e la formazione di leghe alternative: un super-campionato a livello europeo sul modello della Champions League e vari campionati nazionali privi delle squadre più forti.

(1) Si veda in proposito l’editoriale “La palla è tonda. Punto” apparso su Il Foglio di martedì 16 maggio 2006.
(2) Idea supportata con altre analisi anche nell’articolo di Boeri e Severgnini.

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Se il “centro delle strategie” ha troppe teste

  1. michele

    Scrivono Montanari e Silvestri:
    “Nel caso non venisse approntata alcuna modifica sostanziale, alcuni già immaginano una situazione nazionale di collasso del sistema, con il possibile esito di una rottura della Lega attuale e la formazione di leghe alternative: un super-campionato a livello europeo sul modello della Champions League e vari campionati nazionali privi delle squadre più forti.”
    E’ esattamente quanto i presidenti delle grandi società sostengono da tempo, a malapena trattenuti dal dover comunque dividere, anche se in modo diseguale, i proventi dei diritti televisivi da loro sostanzialemente controllati.
    Stiamo attenti, quindi, a dire che da questa situazione – come afferma Guido Rossi – si esce per forza grazie ad una evoluzione positiva, resa necessaria proprio dalla gravità dei fatti.
    Non è per niente detto, il viluppo che ha caratterizzato la vicenda è molto affine – se pur con obiettivi rivolti prevalentemente al controllo del mercato calcistico e delle sue istituzioni – a quello ipotizzato nel piano P2. Pare assurdo, ma si tratta di un analogo modello di occupazione di tutti i luoghi decisionali per i quali passa la possibilità di influire su questa o quella scelta, occupazione fatta manu politica,”miliatare”, economica.
    Non è cosa da poco, poichè – ricorderete – dopo la scoperta della P2 nessuno o quasi dei protagonisti è uscito di campo e, semmai, è arrivato Berlusconi.
    La superlega europea, in altri termini, sarebbe solo un modo più raffinato per far confluire nelle tasche delle solite grandi squadre i proventi maggiori dello “spettacolo” calcio, e lasciare alle altre le briciole, oltretutto in nome di una competitività sportiva più equa. Sarebbe come curare la malattia – cioè la trasformazione del calcio in strumento assoluto di potere economico e politico – inoculando il germe senza aver predisposto alcun vaccino. Ha ragione chi, invece, sostiene che bisogna recuperare correttezza fiscale e contabile, anche giungendo ai fallimenti.

  2. Principe Myskin

    Ritengo del tutto velleitaria l’ipotesi di introdurre in Italia regole del tipo “salary cap” per la semplice ragione che un tale tipo di regole, così come tutte le altre – già esistenti e bellamente violate negli scandali che sono alle attenzioni delle cronache – richiederebbero un serio “enforcement” amministrativo.
    L’Italia è gravemente carente soprattutto di una pubblica amministrazione che sia fedele al suo nome, e cioè sia contemporaneamente “pubblica” e “amministrazione”.
    Invocare l’intervento salvifico e metafisico di “nuove regole” è operazione che prima ancora del Gattopardo rievoca la vuota ipocrisia delle gride manzioniane.
    Non è cambiato nulla dal Seicento ad oggi, non sarei così ottimista ora.
    Di certo non si può essere ottimisti se si vive di fiducie in interventi metafisici quali quelli di un salvifico e mitico Legislatore
    Principe Myskin

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