Interventi sul costo del lavoro, per il riequilibrio della tassazione relativa del lavoro e del capitale, a favore degli investimenti o delle piccole imprese e dei liberi professionisti: tutte le proposte di tagli all’Irap condividono due limiti. Comportano una perdita di gettito in un periodo difficile per i conti pubblici e rincorrono obiettivi a volte contraddittori, minando la coerenza del sistema tributario, senza un quadro coerente dei loro effetti distributivi e dei costi e benefici. Ma la vera questione resta la copertura delle perdite di gettito.

I tagli all’Irap saranno al centro della manovra finanziaria. Ma di quali tagli si parla? Per quali finalità saranno intrapresi? Saranno lo strumento giusto per gli obiettivi che verranno individuati? Come saranno finanziati?
Nonostante un dibattito che si protrae ormai da mesi, se non da anni, non è facile orientarsi tra le diverse proposte, spesso estemporanee, avanzate in sede politica, o da esperti, o da associazioni di categoria. L’ipotesi più accreditata, enunciata anche nella ormai decaduta delega fiscale dell’aprile 2003, è che occorra prioritariamente intervenire sul costo del lavoro. A tale ipotesi e ai rilievi che le sono stati sollevati dedicheremo quindi particolare attenzione.
Per aiutare il lettore a orientarsi, considereremo separatamente i principali obiettivi rintracciabili nel dibattito per vedere se le proposte avanzate costituiscono risposte adeguate oppure no e dedurre anche alcune indicazioni su quale sarebbe la strada migliore da seguire.

Il recupero di competitività sui mercati esteri

Poiché l’Irap è un costo per l’impresa, la sua riduzione potrebbe consentire di praticare prezzi minori alle esportazioni, a parità di margini di profitto. Non è necessario a tal fine che la riduzione avvenga tramite la detassazione del costo del lavoro, a meno che non si dimostri che le imprese che più esportano sono quelle a maggiore intensità di lavoro. Al contrario, è stato invece osservato che i vantaggi di una riduzione dell’imposta sul costo del lavoro sarebbero concentrati sulle grandi imprese, soprattutto del settore bancario e assicurativo e sulle public utilities, settori con retribuzioni relativamente elevate e per lo più protetti dalla concorrenza internazionale .

Il riequilibrio nella tassazione relativa del lavoro e del capitale

Tra i motivi principali che spingono verso una sua detassazione vi è la considerazione che il lavoro è troppo tassato, più del capitale, e che l’Irap sarebbe proprio all’origine di questa distorsione.
Il ragionamento è in parte scorretto. L’Irap è infatti un’imposta ampiamente neutrale, che tassa sia il lavoro sia il capitale, indipendentemente dal fatto che l’impresa si finanzi con debito o capitale proprio. Vi è però una asimmetria: il capitale beneficia della deducibilità degli ammortamenti, mentre, nel caso del lavoro, sono tassati anche i contributi assistenziali e previdenziali, che rappresentano retribuzione differita. Un riequilibrio nel trattamento fiscale dei due fattori produttivi potrebbe prendere la forma o dell’inclusione degli ammortamenti nell’imponibile Irap o dell’esclusione da tale imponibile della componente contributiva sul lavoro. Operare congiuntamente sui due versanti, riduzione del costo del lavoro e aumento del costo del capitale, può ridurre o evitare perdite di gettito, ma con effetti penalizzanti sulle imprese che hanno investito in passato e che intendono investire in futuro. Questo argomento è esaminato nella scheda allegata .
La scheda mostra inoltre che gli interventi prospettati non inciderebbero in modo sostanziale sul cuneo di imposta sul lavoro. La loro efficacia nel favorire l’occupazione o rilanciare la competitività delle imprese potrebbe quindi risultare effimera.

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Interventi a favore degli investimenti

Vi è chi sostiene, invece, che l’Irap debba essere congegnata in modo da incentivare gli investimenti, aumentandone la deducibilità dall’imponibile, fino ad arrivare anche al 100 per cento delle spese relative. (1)
Nella scheda allegata mostriamo che la deducibilità parziale degli investimenti (ad esempio un terzo) se accompagnata all’abolizione della deducibilità degli ammortamenti, rischia di essere in realtà penalizzante per le imprese. La deducibilità integrale degli investimenti ridurrebbe ovviamente il cuneo di imposta sul capitale e avrebbe una sua razionalità economica, in quanto renderebbe l’Irap neutrale nei confronti delle decisioni di investimento. Comporterebbe però una maggiore perdita di gettito, e rischierebbe di rendere l’Irap più simile all’Iva (che tassa appunto il valore aggiunto al netto degli investimenti), aumentandone i rischi di bocciatura in sede comunitaria.
È poi importante tenere concettualmente distinti gli elementi strutturali del sistema tributario da quelli volti a fornire specifici incentivi. Se si ragiona sui primi, e si ha quindi attenzione alla neutralità complessiva del sistema fiscale, l’opportunità di interventi specifici sull’Irap diventa molto più dubbia. È poco efficace, ad esempio, congegnare l’Irap in modo che sia neutrale rispetto alle scelte di investimento, quando l’Ires, con un’aliquota ben più elevata, non lo è. Se si ragiona invece in termini di incentivi, questi dovrebbero essere per loro natura selettivi e di ammontare valutabile da parte del contribuente con certezza, e non, come ora dispersi su una molteplicità di benefici, spesso aleatori.

Interventi a favore delle piccole imprese e dei liberi professionisti

La riduzione dell’Irap sul costo del lavoro comporterebbe vantaggi maggiori per le grandi imprese, mentre le Pmi e i professionisti avrebbero poco o nulla da guadagnare. Da qui hanno origine le proposte di accompagnare (o sostituire) tale riduzione con un ampliamento della deduzione di base, o di escludere esplicitamente i libero professionisti e i lavoratori autonomi. Queste proposte muovono anche dalla considerazione che l’Irap, sostituendo sette tributi preesistenti, ha comportato un vantaggio maggiore per le grandi imprese, rispetto alle Pmi. Abolire l’Irap sulla maggior parte dei liberi professionisti e sulle attività minori verrebbe incontro alle numerose questioni di legittimità sollevate da queste categorie di contribuenti, semplificherebbe il sistema. Avrebbe anche il vantaggio di rimarcare in modo definitivo le differenze fra Irap e Iva, rispondendo alla critica avanzata dall’avvocato generale della Corte di giustizia, che ritiene l’Irap incompatibile con le norme comunitarie in quanto “generale” come l’Iva. Se però si tiene conto del fatto che l’imposta ha la funzione principale di finanziare le Regioni, e dunque la sanità, è poco giustificabile l’esclusione di queste categorie di soggetti passivi dal finanziamento di un servizio universale.

Gli effetti della riduzione

Gli interventi indicati, ma gli esempi avrebbero potuto essere facilmente estesi, condividono due importanti limiti: comportano una perdita di gettito in un periodo in cui i conti pubblici non consentono margini di manovra e incertezze; rincorrono obiettivi diversi e a volte contraddittori, minando la coerenza del sistema tributario e senza avere il supporto di studi e analisi in grado di fornire un quadro coerente degli effetti distributivi e dei costi e benefici che essi comportano.
Tra le varie alternative, l’ipotesi di riduzione dell’Irap che sembra più razionale è quella di abolire gli oneri sociali dall’imponibile dell’imposta. Si tratta di una proposta da tempo presente nel dibattito, e oggetto di attenta considerazione in un recente working paper del Centro studi di Confindustria, di cui gli autori forniscono una sintesi . Questa riforma comporterebbe un costo nel complesso analogo a quello prospettato dal Governo con l’esclusione di un terzo del costo del lavoro. Sarebbe però un modo più razionale di riequilibrare il cuneo fiscale sul lavoro e sul capitale. Rispetto a un’analoga ma generalizzata riduzione del costo del lavoro, dà un vantaggio correlato all’ammontare dei contributi versati: si premierebbe di più il lavoro dipendente, più costoso in termini contributivi, ma in grado di stabilizzare maggiormente l’occupazione e di dare ai lavoratori garanzie superiori alle varie figure di lavoro atipico.
Resta il problema se ciò sia sufficiente a rispondere a eventuali rilievi comunitari. Sarebbe fondamentale sapere se, e se sì come, il Governo sta difendendo l’imposta in ambito comunitario: dopo tanti titoli di giornale sulle conclusioni dell’avvocato generale , non se ne sa più nulla. I problemi più spinosi riguardano però la copertura delle perdite di gettito. È evidente che da questo dipenderanno gli effetti di qualsiasi manovra. Ed è la necessità stessa, improrogabile, di finanziare qualsiasi sgravio dell’Irap con minori spese o altre entrate, a rendere poco efficace e forse persino controproducente la riduzione stessa.
Va poi considerato che una riduzione dell’Irap, pur con un costo elevato per il bilancio pubblico, come i 4 miliardi di euro preventivati per il prossimo anno, rischia di avere solo effetti marginali. Mentre potrebbe contribuire a ritardare altri e ben più importanti tipi di intervento, oltretutto meno costosi per il bilancio pubblico, che potrebbero invece consentire un recupero di lungo periodo di produttività e competitività. Anche limitando l’attenzione ai soli costi per le imprese, gli esempi sono molteplici: dalla predisposizione di politiche che incidano sulle rendite monopolistiche nei settori energetici, a interventi di controllo sul territorio e una più decisa lotta alla criminalità per ridurre i costi della illegalità – particolarmente elevati se è vero, come dice il presidente della Confesercenti, che in Italia vengono pagati all’anno, solo dagli esercenti, 6 miliardi di pizzo e 12 miliardi agli usurai.

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(1) Giuseppe Vitaletti, Corriere della Sera, 30 maggio 2005.

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