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L’Irap, una “zavorra” difficile da sostituire

Non sarà facile trovare un’alternativa all’Irap, la terza imposta del nostro ordinamento dopo Irpef e Iva. Un ritorno ai contributi sanitari sarebbe in contrasto con la filosofia della legge delega che indica come prioritaria l’esclusione del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap. Intervenire sull’Ires penalizzerebbe gli investimenti. Aumentare le addizionali regionali o l’Irpef è in contraddizione con i tagli fiscali promessi dal Governo. Le imposte indirette sono già cresciute con la Finanziaria 2005. Anche i suoi detrattori finiranno per rimpiangerla

Nel comunicato stampa con cui annuncia il parere dell’avvocato generale della Corte di giustizia sull’Irap (vedi Giannini), il ministro dell’Economia non esprime preoccupazione. Anzi, coglie l’occasione per riaffermare l’intenzione del Governo di abolire comunque l’Irap: un’imposta “inefficiente e mal concepita” che rappresenta una “zavorra” per la crescita. Dobbiamo allora auspicare di venire obbligati a liberarci di tale “zavorra”?
Come è noto, le imposte perfettamente neutrali (efficienti) esistono solo nei libri di testo. Si tratta allora di capire se l’Irap è più o meno neutrale rispetto ad altre imposte, confrontandola con quelle che venivano prima e con quelle che potrebbero venire dopo di lei

L’Irap è preferibile alle imposte che ha sostituito?

L’Irap ha sostituito una serie di tributi, contribuendo alla semplificazione e alla razionalizzazione del prelievo nel suo complesso: l’imposta patrimoniale sulle imprese, l’Ilor, che di fatto era una sorta di tassazione addizionale sui profitti, i contributi sanitari, la tanto odiata “tassa sulla salute”, l’Iciap e altri tributi minori. La sua introduzione ha consentito la riduzione dell’aliquota complessiva di tassazione dei profitti dal 53,2 al 41,25 per cento e, riducendo le aliquote effettive di imposta, ha contribuito a migliorare la competitività delle imprese italiane.
L’Irap grava sul costo del lavoro e sui redditi derivanti dall’impiego di capitale; incide dunque sui costi di produzione. La sua introduzione ha però lasciato pressoché inalterato il costo del lavoro, (perché l’Irap ha sostituito, per un importo mediamente corrispondente, i contributi sanitari), e ha comportato una riduzione del costo del capitale (tranne che per le imprese con rapporti di indebitamento particolarmente elevati). L’imposta soddisfa poi alcuni criteri molto importanti sotto il profilo della neutralità del prelievo. Ha una base molto ampia e dunque consente di prelevare un gettito di rilievo con aliquote relativamente basse, che scoraggiano, rendendola meno profittevole, sia l’evasione che l’elusione fiscale. Per dare un’idea, il gettito dell’Irap, che ha una aliquota del 4,25 per cento supera quello dell’Ires, la cui aliquota è del 33 per cento. Ma soprattutto, a differenza delle imposte che ha abolito e dell’Ires stessa, è neutrale nei confronti delle scelte finanziarie delle imprese. Non favorisce cioè l’indebitamento ai danni del finanziamento con capitale proprio. Assieme alla Dit era stata pensata dal Governo che l’ha istituita come strumento per rafforzare la struttura patrimoniale delle imprese italiane, nella convinzione che anche tramite questa via passi il rafforzamento della competitività delle imprese.

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Le imposte che la sostituiranno saranno preferibili all’Irap?

Il ministro dell’Economia prevede di sostituire l’Irap con più prelievi coerenti con i programmi sulla competitività del Governo, lasciando il gettito sostanzialmente immutato. Nonostante la delega fiscale che prevede l’abolizione dell’Irap sia stata presentata già alla fine del 2001, dal parlamento nell’aprile del 2003 e in teoria debba quindi essere esercitata entro aprile 2005, il ministro sembra avere ancora idee molto vaghe su come effettivamente sostituirla. E non c’è da meravigliarsi perché trovare alternative alla terza imposta (dopo l’Irpef e l’Iva) del nostro ordinamento non è sicuramente facile.
Un ritorno ai contributi sanitari, come suggerito in passato anche da Silvio Berlusconi sulla base della considerazione che l’Irap serve principalmente a finanziare il servizio sanitario nazionale, sarebbe in contrasto con la filosofia della legge delega che indicava come prioritaria l’esclusione del costo del lavoro dalla base imponibile dell’Irap. Inoltre, se fosse trasferita integralmente, comporterebbe un aumento del costo del lavoro controproducente per la competitività e l’occupazione.
Intervenire sulle imposte dirette potrebbe significare:
– intervenire sull’Ires: un aumento dell’aliquota di tale imposta penalizzerebbe però gli investimenti, specie quelli dall’estero e delle imprese più mobili e profittevoli, la cui localizzazione (e soprattutto la cui scelta su dove localizzare i propri ricavi e costi al fine di minimizzare il carico fiscale) è influenzata dalla aliquota dell’imposta sui profitti. Un ampliamento della base imponibile dell’Ires è una soluzione preferibile, ma difficilmente potrebbe consentire un significativo recupero di gettito. L’eliminazione di alcune importanti forme di erosione della base imponibile, si pensi in particolare all’istituto degli ammortamenti anticipati, potrebbe inoltre penalizzare gli investimenti;
– aumentare l’Irpef, sconfessando l’annuncio, ribadito anche nei giorni scorsi, di ulteriori tagli di questa imposta per 12 miliardi di euro;
– introdurre un prelievo proporzionale su tutti i redditi, analogo alle addizionali regionale e comunale all’Irpef, che sono state però congelate dal Governo nelle ultime tre Finanziarie, perché un loro aumento è considerato contraddittorio con il taglio dell’Irpef;
– introdurre, come proposto anche di recente (ad esempio, da Alessandro Penati su La Repubblica, 18 febbraio 2005) una imposta capitaria: ciascun cittadino che vuole beneficiare del Ssn paga una tassa fissa. Ma si sa che un’idea analoga contribuì significativamente alla caduta della Thatcher: le imposte capitarie sono infatti sicuramente efficienti, ma anche fortemente inique, in quanto fanno pagare a tutti lo stesso ammontare indipendentemente dalla loro condizione economica. Il conto potrebbe allora essere fatto pagare alle famiglie tramite un aumento delle imposte indirette. Molte delle quali, però, sono state aumentate con la Finanziaria 2005. Aumentare in modo generalizzato l’Iva (e per compensare il gettito dell’Irap, le aliquote dovrebbero comunque crescere di più di un terzo (dal 20 al 27 per cento) potrebbe avere effetti negativi sull’inflazione e sulla domanda di consumo. Sarà poi possibile evidentemente usare un mix delle soluzioni indicate o inventarsi nuove forme di prelievo. Dovrà trattarsi di tributi adeguati al finanziamento delle Regioni, che attualmente beneficiano dell’Irap, e che lascino loro, come l’Irap, un margine di flessibilità (potenzialmente pari a 5-6 miliardi di euro) per potere impostare, in autonomia, le proprie politiche tributarie e di gestione del territorio. A fianco degli immobili, che nel nostro paese, attraverso l’Ici, sono già la fonte di finanziamento principale dei comuni, le attività produttive sono considerate dalla letteratura economica una delle basi imponibili più adeguate per la tassazione a livello decentrato. L’imposizione sulle attività produttive risponde infatti al criterio del beneficio per cui i soggetti che svolgono tali attività pagano in ragione dei servizi, per lo più locali, di cui godono e dei costi che impongono alla collettività. In quest’ambito, i pregi di un’imposta sulle attività produttive con le caratteristiche dell’Irap sono state a più riprese sottolineate dalla letteratura internazionale. (1)
Invece di gioire, i detrattori dell’Irap dovrebbero temere che si cada dalla padella alla brace. Forse, in futuro, dovranno rendersi conto che l’Irap avrebbe meritato una maggiore considerazione e una migliore difesa, in sede europea, da parte del Governo.

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(1) Può essere utile citare R. M. Bird, uno dei maggiori studiosi canadesi di tassazione e finanza locale, che ha proposto una tassazione analoga all’Irap per le province canadesi, e in merito al caso italiano osserva: “Given the circumstances, it seems unfortunate that the national government has recently decided to eliminate the tax (…). As Keen (2003) notes, it is not all clear why the government has decided to do this, and it is even less clear how this essential source of regional finance will be replaced. This move does not augur well for the future of rational business taxation in Italy”. La frase è ripresa da R. M.Bird (2003), “A new look at local business tax”, Tax Notes International, May, 19. L’articolo di Michael Keen a cui si fa riferimento è “Tax Reform in Italy”, Tax Notes International, 2003, February 17. Un’imposta analoga all’Irap è stata suggerita anche in Francia, per riformare l’attuale taxe professionaile. Esiste inoltre in alcuni Stati Usa ed è stata recentemente introdotta in Giappone.

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  1. antonello oliva

    Gent.me proff. Giannini e Guerra,
    ho letto in ritardo il Vs articolo sulla difficile sostituzione dell’IRAP che, condivido sostanzialmente. Alcune “domande”: a) il gettito Irap, al netto di quella pagata dalla PA, è di circa 24 mld di euro, il 30% circa della spesa sanitaria in Italia e quindi l’ammontare del sostegno che tale imposta da a questa spesa: un po’ poco, no, per dire manteniamola perché finanzia la sanità; b) perché una parte della spesa sanitaria deve essere finanziata dalle imprese? in effetti appare più logico trasferire tutto sulla collettività. In questo caso certo cadono le velleità di riduzione dell’imposta sul reddito, ma comunque sarebbe una scelta più coerente e, poi, di quanti decimali dovrebbe aumentare l’aliquota media IRE per dare 24 mld di euro? c) l’Irap ha razionalizzato un po’, riducendo la pressione sui profitti. Ma non Vi sfuggirà che in Italia l’80-90% delle imprese non ha una gestione contanile, né forma societaria tale da pagare tale imposta. La stragrande maggioranza paga l’IRE; d) il 55% delle imprese italiane (censimento 2001) ha un solo addetto: per queste imprese, dunque, l’Irap non grava sul relativo costo del lavoro; e) il vero guaio è che l’Irap si è inserita nel coacervo di provvedimenti di (finto) federalismo fiscale e ne sta pagando le conseguenze politiche.
    A quando, direi, una organica e generale revisione, anzi superamento, dell’impianto dell’attuale sistema di finanza derivata che, magari, faccia chiarezza tra decentramento di funzioni, nuove responsabilità e nuove risorse, elimini addizionali e finte imposte federaliste, portando finalmente alla luce non le esigenze di cassa ma i legami tra attività amministrativa e tassazione?

    Grazie per l’attenzione, cordialmente
    Antonello Oliva, Roma

    • La redazione

      La ringraziamo per il suo commento. La voce.info tornerà nei prossimi giorni su alcuni dei temi da Lei sollevati.

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