Il crescente utilizzo dei contratti di apprendistato è da attribuire principalmente alla possibilità per le imprese di assumere personale a costo ridotto, godendo di forti sgravi contributivi, e non alla volontà di investire in formazione. Mancano infatti gli incentivi adeguati per realizzare una attività formativa non cosmetica. Una situazione che non muta neanche con le nuove norme, che mantengono le ambiguità sulla durata del rapporto tra azienda e lavoratore coinvolto nel processo di formazione e sulla certificazione delle competenze acquisite.

In Italia si fa poca formazione. Secondo l’ultima indagine Eurostat, le imprese che hanno investito in formazione nel 1999 erano il 62 per cento nei quindici paesi della Comunità europea e il 24 per cento in Italia. (1)

Un contratto in crescita

Negli ultimi anni si osserva però un incremento dei contratti di apprendistato, mentre si riduce il peso di altri contratti di lavoro a contenuto formativo, come quelli di formazione e lavoro (vedi figura 1). Possiamo parlare di un’inversione di tendenza?

Fonte: ministero del Lavoro, Rapporto di Monitoraggio 2003

 

Sembrerebbe di no, perché più apprendistato non significa necessariamente più formazione. Da più parti si è osservato infatti come l’incremento dell’utilizzo dei contratti di apprendistato sia da attribuire principalmente alla possibilità di assumere personale a costo ridotto, godendo di forti sgravi contributivi, piuttosto che all’esigenza di fare effettivamente formazione. Pensiamo che ciò avvenga perché le regole nel nostro paese non forniscono alle parti incentivi adeguati a svolgere un investimento formativo di tipo sostanziale.

Durata e certificazione dell’apprendistato

Nella disciplina italiana sull’apprendistato esistono a nostro avviso due aree di criticità. La prima riguarda la durata del rapporto tra datore di lavoro e lavoratore coinvolto nel processo formativo. La mobilità degli apprendisti è un fenomeno alquanto sostenuto, dovuto in parte al fatto che la qualifica professionale può essere acquisita combinando periodi di apprendistato in diverse imprese. Uno studio recente in Veneto – una delle Regioni che utilizza in modo intensivo l’apprendistato – mostra come il numero medio di rapporti di lavoro intrattenuti dal lavoratore nei due anni successivi all’assunzione come apprendista sia stato nel 1999 pari a 1,9, al lordo del lavoro come apprendista. Ciò vuol dire che, in media, ogni apprendista veneto ha cambiato lavoro una volta nei due anni successivi all’inizio del periodo di apprendistato. Se l’impresa investe risorse considerevoli in formazione, una durata troppo breve non consente il recupero dei costi sostenuti. Quindi, l’impresa non investe. Il recupero avviene invece quando il lavoratore formato spende le competenze acquisite almeno in parte presso la stessa impresa formatrice. È perciò evidente la necessità di predisporre schemi normativi che stabiliscano una congrua durata del contratto di apprendistato, vincolante per entrambe le parti e che scoraggi la mobilità prima della fine del contratto. Il secondo profilo critico riguarda la certificazione e/o il monitoraggio delle capacità acquisite dal lavoratore durante la formazione. Se, infatti, la trasparenza della formazione ricevuta rappresenta un valore per il lavoratore e un incentivo all’apprendimento professionale, un sistema che si proponga di favorire la formazione della forza lavoro deve predisporre regole che garantiscano una valutazione il più possibile oggettiva. È allora evidente che la certificazione delle competenze non può essere riservata all’impresa formante, come avviene di fatto in Italia, pena il rischio di incorrere in fenomeni di opportunismo in cui, ad esempio, il datore di lavoro fornisce formazione apparente o “cosmetica” in cambio di vantaggi di tipo normativo o contributivo. I due profili sono strettamente legati. Un’adeguata certificazione delle competenze in assenza di garanzie sulla durata del contratto di apprendistato riduce l’incentivo dell’impresa a investire in formazione, perché facilita il turnover del lavoratore. Una durata troppo sostenuta in assenza di certificazione garantisce l’impresa, ma non il lavoratore, che ha minori opportunità di spendere bene le competenze acquisite sul mercato del lavoro.

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Le nuove regole

Sulla durata dell’apprendistato, la scelta attuata con il decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 è nel complesso ambigua. La legge sembrerebbe ipotizzare rapporti di lavoro che si protraggono necessariamente per tutto il periodo richiesto ai fini della maturazione delle capacità professionali. Ciò potrebbe garantire all’impresa che investe un periodo congruo per il recupero dell’investimento effettuato. Tuttavia, viene anche confermata la possibilità che il lavoratore sommi i periodi di apprendistato svolti in imprese diverse al fine del conseguimento della qualifica professionale. Questo garantisce il lavoratore, ma penalizza l’impresa. Sulla certificazione, l’articolo 16 della legge n. 196 del 1997 (pacchetto Treu) sottolinea la necessità di adottare regole sulla certificazione dell’attività formativa esterna svolta dall’apprendista e di pervenire a un sistema di controlli che, nell’ottica dell’efficiente utilizzo delle risorse pubbliche, evidenzi l’esistenza di un “reale rapporto” fra attività lavorativa e attività formativa esterna. Per quanto riguarda l’oggettivo accertamento delle capacità pratiche del lavoratore, però, l’unica disposizione riconducibile al pacchetto è un atto regolamentare, il decreto ministeriale 28 febbraio 2000, che disciplina le funzioni del “tutore aziendale” e stabilisce che quest’ultimo valuti le competenze acquisite dall’apprendista ai fini dell’attestazione da parte del datore di lavoro, senza però attribuire al parere un carattere vincolativo. Risulta così confermata la sostanziale autonomia di giudizio dell’imprenditore. La non facile permeabilità del contratto all’oggettiva valutazione delle competenze aziendali è confermata dal decreto n. 276. La legge infatti, pur confermando la possibilità di passaggio fra i diversi tipi di iter formativo e professionale, già prevista dalla legge n. 144 del 1999, e dunque pur ammettendo il riconoscimento delle competenze maturate in termini di “credito”, non esclude espressamente il potere del datore di lavoro di accertare in modo unilaterale la capacità pratica del lavoratore. Potere che risulta limitato solo quando l’apprendistato deve essere valutato come “credito” formativo ai fini del passaggio nel sistema di istruzione (vedi l’articolo 6 del Dpr 12 luglio 2000, n. 257). In conclusione, le novità normative sull’apprendistato non sono tali da fornire alle parti interessate adeguati incentivi a fare più formazione. Ci aspettiamo, dunque, che lo scollamento tra diffusione dei contratti di apprendistato e attività formativa non cosmetica, e il conseguente utilizzo dell’apprendistato come uno strumento improprio di riduzione del costo del lavoro, rimangano una caratteristica saliente del mercato del lavoro italiano anche nel prossimo futuro.

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(1) Un’analisi comparata della frequenza relativa della formazione professionale in Italia e in Europa è contenuta in Brunello, G., On the Complementarity between education and training in Europe, IZA Discussion Paper 309, scaricabile dal sito www.iza.org

 

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