La diffusa percezione in vasti strati della popolazione di una perdita di potere di acquisto dovuta a prezzi più elevati si spiega col fatto che spese importanti nel bilancio famigliare, come gli affitti, sono aumentate considerevolmente. Il patto fra Governo e commercianti non servirà ad affrontare questo problema.  Al contrario, rievoca vecchie filosofie di controllo della dinamica dei prezzi che non hanno mai funzionato. Lasciamo ai commercianti la libertà di fare saldi a piacimento e anche di allungare gli orari di apertura: di questo non possono che beneficiarne i consumatori. E garantiamo piena libertà di ingresso nel settore.

Negli ultimi tre anni si è accresciuta la sensazione che il potere di acquisto (e con esso lo standard di vita) di buona parte dei cittadini italiani si sia significativamente ridotto, particolarmente nelle grandi città. Da diverse parti (associazioni di consumatori, organi di stampa, sindacati) sono stati a varie riprese lamentati rincari “ingiustificati” di varie categorie di beni: l’incremento dei prezzi degli alimentari a ridosso dell’introduzione della moneta unica, seguiti dai pranzi al ristorante, i prodotti assicurativi lo scorso anno, e da ultimo i beni energetici. In aggiunta, ora che la moneta unica rende la comparazione è più semplice, è stato rilevato come i prezzi di diversi beni siano in Italia significativamente più elevati che negli altri paesi dell’area dell’euro. Al Governo è stato spesso rimproverato di non prendere provvedimenti per contenere il livello e la dinamica dei prezzi; nei giorni scorsi una reazione vi è stata con la stretta di un patto tra commercianti e governo in cui i primi si impegnano a contenere la dinamica dei prezzi nei prossimi sei mesi in cambio della possibilità di effettuare saldi senza un calendario prefissato. Il governo inoltre si impegnerebbe a contenere le tariffe dei beni energetici. Due domande: perché vi è una diffusa percezione in vasti strati della popolazione di una perdita di potere di acquisto dovuta a prezzi più elevati e che possibilità di incidere hanno i provvedimenti del Governo? Ovviamente un minor potere di acquisto può derivare da redditi nominali più contenuti, legati allo stato sfavorevole della congiuntura e al basso livello di attività dell’economia e quindi in media delle famiglie che si traduce in minori redditi (ad esempio per la minore possibilità di fare straordinari), come discusso da Brandolini e Boeri su questo sito.  Sul primo punto, è bene sgomberare il campo da una falsa spiegazione che ha dominato la scena fino a non molto tempo fa e che oggi stenta a perdere smalto (da ultimo è stato Piero Ostellino sulla prima pagine di un Corriere della Sera ferragostano a rilanciarla): la ri-denominazione dei prezzi in euro. L’esperienza dei rincari, che continuano a verificarsi e susseguirsi, tolgono valore a quella spiegazione, già di per sé poco solida in linea di principio. Inoltre occorre anche constatare che la dinamica dei prezzi medi – misurata dall’indice Istat dei prezzi al consumo per l’intera collettività nazionale – è, in una prospettiva storica, contenuta e gravita intorno al 2 per cento. Ovviamente, anche un tasso di inflazione basso come questo può, alla lunga, se i redditi nominali non vi si adeguano, erodere il potere d’acquisto in modo significativo. Ma le retribuzioni medie hanno una dinamica allineata a quella dell’inflazione. Non sono quindi queste le ragioni.

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Una diffusa sensazione di perdita di potere d’acquisto si può però verificare se il prezzo relativo di alcuni beni che incidono significativamente nel budget di una famiglia aumenta in modo sostenuto. Per molti la voce più significativa nella spesa famigliare è l’affitto della casa. Negli anni recenti i prezzi delle abitazioni e in parallelo dei fitti, in risposta come si dirà a forze di mercato, sono cresciuti di uno ordine di grandezza rispetto agli altri prezzi. Ad esempio, a Milano tra il 1995 – quando l’economia si riprendeva dalla recessione del 1992-93 – e l’inizio di quest’anno il prezzo medio al metro quadro di una abitazione in zona centrale è passato da 4600 euro a 7000, il 50.6 percento in più; a Roma è cresciuto in modo simile e a Napoli di ben il 76 per cento (si veda la tavola). Nelle zone semicentrali – alle quali si rivolgono le famiglie con redditi medi – gli incrementi sono stati ancora superiori: 86% a Milano, 73 a Roma e 88% a Napoli. Se la quota del budget destinata all’affitto era il 30% nel 1995, per assicurarsi gli stessi metri quadri nel 2004 è necessario allocare tra il 40 e il 45 percento del budget famigliare, anche tenendo conto dell’aumento dei redditi nominali. Detto in un altro modo, nel 2003 se si vuole vivere in una abitazione della stessa dimensione e caratteristiche di quella in cui si viveva nel 1995 occorre decurtare la spesa per l’acquisto di altri tipi di beni o servizi di un ammontare compreso tra il 10 e il 15 percento! Variazioni di questa entità lasciano il segno. Ovviamente i proprietari di abitazioni hanno meno ragione per lamentarsi, e alcuni anzi possono sentirsi più ricchi. Ma molti, anche tra i proprietari di una casa, patiscono l’incremento del prezzo perché vorrebbero ampliare la casa in cui abitano (un quarto delle famiglie proprietarie vivono in meno di 80 mq). Questi problemi sono più acuti nelle città più grandi: il prezzo relativo delle case è più elevato e l’affitto assorbe una quota più levata del budget. Se il budget iniziale è già del 45 percento – come accade spesso in una città grande – un incremento dei fitti del 50 percento fa salire la quota di budget per l’affitto al 67.5 percento. Non c’è molto che un governo possa fare per calmierare queste dinamiche. Esse sono il frutto di due fattori: la liberalizzazione finanziaria che ha reso accessibile a molti il mercato dei mutui e ne ha ridotto il costo, accrescendo la domanda di abitazioni e il prezzo di mercato; e soprattutto una massiccia riallocazione di portafoglio da parte degli investitori che, liquidati i guadagni di borsa dopo il picco del 2000, si sono riversati sul mercato immobiliare. Infatti il maggior incremento nei prezzi delle case si registra negli anni più recenti.

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Ma vi sono altri settori in cui il governo può esercitare una azione importante e che possono significativamente incidere sul potere d’acquisto delle famiglie: le liberalizzazioni. Da quelle degli ordini professionali, al mercato delle assicurazioni, a quello dei trasporti aerei. Sotto questo profilo il recente intervento dell’Enac per far allineare le tariffe dei concorrenti Alitalia a quelle più elevate della compagnia di bandiera va esattamente nella direzione opposta, difendendo rendite di posizione garantite da ormai vecchie normative. E l’accordo tra governo e commercianti sembra rievocare vecchie filosofie di controllo della dinamica dei prezzi che non hanno mai funzionato: lasciamo ai commercianti la libertà di fare saldi a piacimento (non si vede perché regolamentarli) e anche di allungare gli orari di apertura: di questo non possono che beneficiarne i consumatori. Ma garantiamo piena libertà di ingresso nel settore.

 

 

Prezzi delle abitazioni residenziali nelle principali città. Euro per mq. Dati di fine anno. (fonte: Consulente Immobiliare)

Anno

Milano

Roma

Napoli

Bologna

Italia

1995

4,648

4906

3409

3357

1914

2000

4,648

   

2028

2001

5165

5428

4338

3512

2231

2002

6000

5800

4800

3700

2477

2003

7000

7000

6000

4400

2863

Variazione % 2003-1995

50.6

42.7

76.0

31.1

49.6

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