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Contratti: a chi serve lo status quo

L’attuale sistema di contrattazione rischia di impedire a molti lavoratori, soprattutto ai più deboli, di partecipare a incrementi di produttività. Permette anche forti differenziali salariali a favore di un gruppo ristretto di lavoratori che operano in imprese coperte dagli accordi di secondo livello. La Cgil professa la necessità di aumentare la quota dei salari sul prodotto e ha fatto dell’egualitarismo un proprio cavallo di battaglia. Alla luce di questi obiettivi, farebbe bene ad accettare di discutere di riforme degli assetti contrattuali, anziché ergersi a difesa dello status quo.

Un tavolo chiuso ancora prima di aprirsi

Il tavolo sulla nuova concertazione è partito male. La Cgil ha abbandonato la trattativa prima ancora si aprisse perché i) si discuteva di riforma degli assetti contrattuali senza avere raggiunto una posizione unitaria all’interno del sindacato e ii) si sarebbe rischiato di ritardare la conclusione di molti contratti, in attesa dell’introduzione delle nuove regole (vedi la dichiarazione di Patta su www.cgil.it nella sezione Ufficio Stampa). Ma Confindustria si è dichiarata disposta a concedere un periodo di moratoria in cui continuare ad applicare le vecchie regole, chiudendo dunque tutte le trattative in corso per il rinnovo dei contratti con le regole dell’accordo del luglio del 1993. Quindi il vero ostacolo sulla strada della riapertura del dialogo rimane la divisione nel sindacato circa gli assetti contrattuali.

Le divisioni nel sindacato

Cisl e Uil si sono da tempo espresse a favore di un maggiore decentramento della contrattazione, mentre la Cgil si erge a difesa degli accordi del luglio 1993, in nome di principi di egualitarismo e di difesa dei lavoratori più deboli. In altri interventi su questo sito si è discusso perché le regole introdotte nel 1993 possano essere poco adatte a gestire la contrattazione dopo l’entrata del nostro paese nell’euro, ora che non è più possibile ricorrere alle cosiddette svalutazioni competitive (vedi il dibattito sul Tip e sulle forme di contrattazione). Ci preme qui, invece, giudicare in che misura gli assetti attuali siano davvero in condizione di tutelare i lavoratori più deboli, come sostenuto al tavolo della trattativa dalla Cgil.

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Chi beneficia del secondo livello?

Come è noto, l’accordo del luglio 1993 prevede un doppio livello di contrattazione: nazionale e aziendale.

Il secondo livello dovrebbe in principio essere collegato all’andamento della produttività e può solo incrementare il salario rispetto ai minimi nazionali. Proprio in virtù di questo “effetto sommatoria”, i contratti di primo livello fissano minimi relativamente bassi, lasciando spazio ad accordi integrativi (additivi) aziendali. Chi lavora in imprese in cui c’è anche contrattazione di secondo livello perciò beneficia, a parità di altre condizioni, di salari più elevati degli altri lavoratori. Difficile stabilire di quanto. La contrattazione decentrata comporta mediamente incrementi del 3-4 per cento rispetto al salario nazionale. Sommata su più rinnovi contrattuali, questo incremento può, nel corso del tempo, creare differenziali salariali di un certo livello per le regole della capitalizzazione composta. Bastano quattro rinnovi contrattuali per creare differenziali salariali dell’ordine del 20 per cento.

Ma chi sono i lavoratori che beneficiano della contrattazione di secondo livello? Sin qui si sapeva poco a riguardo, se non che i lavoratori nelle imprese coperte dalla contrattazione di secondo livello sono circa un terzo del totale. Grazie a una indagine Eurostat sulla struttura delle retribuzioni (per ora sono disponibili solo i dati riferiti al 1997) è possibile saperne di più. Il grafico qui sotto, tratto da questa indagine, riproduce il grado di copertura della contrattazione di secondo livello (la percentuale di lavoratori che operano in imprese in cui si pratica la contrattazione di secondo livello) per decile di reddito. Il primo decile corrisponde al 10 per cento di lavoratori con salari più bassi, il secondo decile al 10 per cento di lavoratori con salari più alti del primo decile, ma inferiori al quelli del terzo decile e così via.

Il messaggio del grafico è molto chiaro: non sono certo i lavoratori più deboli a beneficiare degli attuali assetti contrattuali. Il grado di copertura della contrattazione di secondo livello cresce col reddito dei lavoratori anche perché si svolge soprattutto nelle imprese di grandi dimensioni che, a parità di altre condizioni, offrono retribuzioni più elevate delle imprese più piccole. I lavoratori con i salari più bassi, spesso impiegati nell’impresa minore, non vengono perciò messi nella condizione di partecipare a potenziali incrementi di produttività raggiunti nell’impresa in cui operano.

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Se il sindacato ha davvero interesse a proteggere i lavoratori più deboli o a offrire loro almeno le stesse opportunità di quelli meglio retribuiti, dovrebbe allora preoccuparsi di far sì che la contrattazione aziendale avvenga anche nelle imprese in cui operano i lavoratori con salari più bassi. Dato che non sembra in grado di imporre un secondo livello di contrattazione in queste imprese, meglio evitare che la contrattazione integrativa sia sempre e comunque penalizzante per il datore di lavoro. Ciò significa permettere alla contrattazione integrativa di sperimentare schemi retributivi che mettano davvero in relazione il salario alla produttività, prevedendo dunque variazioni sia in positivo che in negativo a partire da una componente fissa della retribuzione.

In ogni caso, l’attuale sistema di contrattazione impedisce a molti lavoratori, soprattutto ai più deboli, di partecipare a incrementi di produttività e permette anche forti differenziali salariali a favore di un gruppo ristretto di lavoratori delle grandi imprese, in cui si svolge contrattazione di secondo livello. La Cgil professa la necessità di aumentare la quota dei salari sul prodotto e ha fatto dell’egualitarismo un proprio cavallo di battaglia. Alla luce di questi obiettivi, farebbe bene ad accettare quanto meno di discutere di riforme degli assetti contrattuali, anziché ergersi a difesa dello status quo.

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  1. Fabio Camilletti

    A me sembra che la tabella possa essere letta in un altra maniera. Nelle piccole aziende la contrattazione di secondo livello non funziona e quindi un modello contrattuale così organizzato penalizzerebbe i lavoratori delle piccole imprese.
    Bisogna tenere presente che in Italia il 96% delle imprese hanno meno di 10 dipendenti, ed è questo il vero problema che dovrebbe porsi il sindacato. l’attuale modello di relazioni sindacali tende a privileggiare la grande impresa e conseguentemente i lavoratori della grande impresa.
    Parlare di produttività nelle piccole imprese è possibile, ma sicuramente si devono prevedere modelli contrattuali totalmente differenti di cui oggi si vede molto poco in giro.
    Fabio Camilletti

  2. Alessandro Condina

    Caro Boeri,
    perfetta l’analisi (nelle aziende più piccole si pratica poco la contrattazione di secondo livello e i lavoratori più deboli si devono accontentare dei minimi nazionali), ma la mia conclusione è opposta la sua. I dati dimostrano che i lavoratori deboli sono difesi solo a livello nazionale, probabilmente perché Confindustria riesce a mitigare le posizioni delle piccole imprese. Se aumentassimo il peso della contrattazione aziendale i lavoratori deboli sarebbero ancora più penalizzati, proprio perché le aziende piccole, ancorché profittevoli, continuerebbero a negare i rinnovi contrattuali e avrebbero davanti dipendenti poco sindacalizzati.

    • La redazione

      Legittima ogni interpretazione. La mia era solo una segnalazione di un dato che ritenevo meritoria di essere portato all’attenzione di tutti. Rispondo anche agli altri lettori che, come lei vedono in questi dati una giustificazione per rafforzare la contrattazione nazionale.
      La cosa che i dati mostrano è che assetti con secondo a livello a sommatoria non sono sostenibili alla lunga perchè penalizzano troppo alcuni (in questo caso la maggioranza) lavoratori. Quindi bosogna accettare di rivedere le regole. Sul come il confronto è aperto. Personalmente ritengo che centralizzare la contrattazione in un’unione monetaria implichi livellare verso il basso le rivendicazioni salariali (perchè il costo di minimi troppo alti sarebbe quello di distruggere posti di lavoro non potendo ricorrere alle svalutazioni competitive). Se il sindacato vuole che la quota del salario sul prodotto aumenti, non gli rimane che cercare di rafforzare la propria presenza nelle imprese, grandi e piccole, i cui datori di lavoro devono poter esser messi in condizione di guardare alla contrattazione decentrata non solo come un aggravio di costi. Saranno in molti a volerla attuare e i lavoratori di queste aziende sentiranno allora il bisogno di avere un sindacato in azienda che li rappresenti. Cordiali saluti

      Tito Boeri

  3. Stefano Cempini

    Mi riallaccio a quanto più che condivisibilmente esposto da Camilletti aggiungendo che per di più, nelle piccole imprese (e più sono piccole e peggio è) risulta anche estremamente aleatorio determinare un eventuale incremento di produttività, vista l’abitudine ad addomesticare il bilancio secondo le esigenze del momento. L’unico strumento di controllo sarebbe una massiccia presenza sindacale nella piccola/media impresa, ma, se questo fosse, non saremmo neanche qui a parlarne.

  4. marzia

    Lavoro nella grande distribuzione, precisamente per Coop dove essiste la contrattazione di secondo livello ma mi pare che sia poco sfruttata questa opportunità, poichè le sigle sindacali non riescono a far altro che cercare di marginare le proposte sempre più penalizzanti dell’azienda. Ad ogni integrativo perdiamo qualcosa…non mi sembra normale.

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