Nel dibattito sulle elezioni europee ci si deve occupare anche del rilancio della trattativa sul Protocollo di Kyoto dopo l’esito inferiore alle attese del Cop9. Su questi temi presentiamo un contributo di Marzio Galeotti e Alessandro Lanza e uno di Edoardo Croci.

Più ambiente meno sviluppo: un mito da sfatare

Marzio Galeotti e Alessandro Lanza

Illarionov. Un nome divenuto famoso alla Cop9 di Milano, per aver riportato indietro le lancette del Protocollo di Kyoto. Le scettiche dichiarazioni del consigliere economico diPutin sulle possibilità di ratifica da parte della Russia poggiavano sull’assunto che i previsti limiti alle emissioni di gas serra nel 2008-2012 pregiudicherebbero l’obiettivo presidenziale di raddoppiare il Pil russo.
È l’equazione “più ambiente uguale minor crescita” che ha determinato il rifiuto australiano alla ratifica del Protocollo (l’Australia usa pesantemente il carbone, la più inquinante delle fonti fossili).

La convinzione che avrebbe finito per sostenere i costi maggiori rispetto a Giappone ed Europa è all’origine del rigetto statunitense (gli Usa hanno il maggiore rapporto emissioni/energia tra i paesi ricchi). Infine, l’esigenza di vedersi garantite le stesse potenzialità di sviluppo economico, senza limitazioni, ha indotto i paesi in via di sviluppo a non sottoscrivere nemmeno gli impegni di Kyoto nel 1997.

Un’equazione sbagliata

Per fortuna, ogni tanto si leva qualche voce a sostenere che i tetti alle emissioni sono un’opportunità piuttosto che una costosa limitazione.
Due recenti esempi vengono dalle dichiarazioni di Paul Tebo, manager dell’americana DuPont (“la DuPont ha ridotto le sue emissioni di gas-serra del 67 per cento dal 1990 senza che i suoi utili avessero a soffrirne”) e dall’Economist, che cita il caso dei nuovi e più stringenti limiti alle emissioni voluti da Tony Blair che l’industria potrebbe riuscire a rispettare con poco sforzo aggiuntivo. (1)
Potremmo poi osservare con Michael Grubb, un noto esperto inglese, che l’argomento dei costi meno si addice alle economie in transizione come la Russia, che si apprestano ad affacciarsi sul mercato internazionale dei permessi vendendo diritti d’emissione, e così rimpinguando le casse statali. (2)

Le curve di Kuznets ambientali

In letteratura, il tema della relazione tra ambiente e crescita economica è studiato da almeno vent’anni.

Descrivere le relazioni di causa-effetto tra il sistema economico e l’ambiente è decisamente impegnativo. Per questo motivo la ricerca si è orientata verso l’analisi empirica di “forme ridotte” che mettono direttamente in relazione misure di inquinanti e Pil, entrambi pro capite.
L’ipotesi – nota come curve di Kuznets ambientali – suppone che la relazione sia a “U rovesciata”: al crescere della ricchezza/benessere di un paese l’inquinamento dapprima aumenta, ma successivamente, con il passare a forme di produzione più immateriali, con il progresso tecnologico, con la crescente domanda di qualità e protezione ambientale, prende a decrescere.
Questa forma a campana appare in verità confermata solo per alcuni inquinanti. L’evidenza per il principale gas serra, l’anidride carbonica, è ambigua.
Tuttavia, questa storia ci dice che tra crescita e qualità ambientale non vi è necessariamente, sempre e comunque, una realazione inversa, un trade-off. (3)

I costi evitati

Ma, più in generale, potremmo affrontare il problema in maniera radicale.

Se davvero una politica di controllo dei cambiamenti climatici basata su limiti alle emissioni arreca più costi (minor crescita del Pil) che benefici (migliore qualità dell’ambiente, ovvero un’aria più respirabile, la possibilità di visitare Venezia anche tra molti anni, un clima meno torrido e meno variabile), allora i cittadini e i governi di interi paesi devono essere preda di irrazionalità collettiva. O forse si valuta collettivamente di più il benessere economico rispetto a quello, come dire, psico-fisico? O si danno per certi i costi, ma molti più incerti i benefici?

Il fatto è che i costi evitati conseguenti alle politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici sono del tutto sottostimati, spesso completamente assenti nella mente e nelle dichiarazioni di governanti, policy e opinion-maker. Anche i modelli computerizzati economia-ambiente, oggi insostituibile strumento per simulare nel prossimo e nel distante futuro gli effetti delle crescenti emissioni e delle politiche conseguenti, non disegnano adeguatamente questi impatti.

Da una parte, dovremmo chiederci se il Pil sia l’indicatore idoneo da utilizzare nell’analisi (vedi

Di Giulio). Dall’altro, bisogna tenere conto del fatto che l’effetto serra esercita impatti su grandezze dalla difficile quantificazione, sia per la diversa unità di misura sia per il fatto che si tratta tipicamente di beni non di mercato, la cui valutazione, in assenza di prezzi, è problematica.

Ciò nonostante, le letteratura ha individuato le seguenti aree di impatto dei cambiamenti climatici: risorse idriche, sicurezza alimentare e agricola, insediamenti umani, ecosistemi terrestri e d’acqua dolce, zone costiere ed ecosistemi marini, forniture di energia, servizi assicurativi e finanziari, salute.

In tutti questi ambiti, sono stati fatti sforzi per quantificare i danni evitati e per tentarne una valutazione monetaria.

Il rapporto 1996 dell’Ipcc stima che un incremento nella temperatura globale di 2,5 gradi centigradi comporterebbe a livello dell’intero pianeta: una perdita di 0,23 per cento di Pil in agricoltura; 1.235 kmq di foresta in meno; 6.829 migliaia di tonnellate di pesce pescato in meno; un aumento di consumi elettrici pari a 353,9 terawattora; 230,7 kmc di acqua in meno; 1.007 milioni di dollari all’anno spesi per protezione delle coste; 139,9 kmq di terre asciutte perse e 253 kmq di terre umide; 106 habitat persi quanto a ecosistemi; 137,7 migliaia di morti; 2.734.000 di emigrati. Infine, gli uragani causerebbero una perdita di 8mila vite umane e 630 milioni di dollari di danni. (4)

Volendo monetizzare il danno complessivo, politiche che evitassero un aumento della temperatura di 2,5 gradi farebbero risparmiare ai paesi Ocse l’1,3 per cento del Pil secondo Frankhauser (1995), l’1,6 per cento secondo Tol (1995). Secondo quest’ultimo, i paesi non Ocse risparmierebbero addirittura il 2,7 per cento del Pil, con punte dell’8,6 per cento per la sola Africa. (5)

Conclusioni

È noto l’inganno ottico nel quale si cade guardando le cose da troppo vicino. Forse per questo si sottostimano i possibili effetti connessi cambiamento climatico? È probabile. Come viene spesso ricordato, l’orizzonte di un politico non è quello della Terra. Dunque, è perfettamente razionale (da un punto di vista personale) disinteressarsi di questioni che potrebbero diventare terribilmente serie (semplicemente, serie lo sono già) fra cinquanta o cento anni.

Un po’ di vista lunga, però, non sarebbe male.

Per saperne di più

(1) Le dichiarazioni di Paul Tebo sono riportate in “Environmentalism no threat to growth: panelists”, articolo a firma di Gary Wisby comparso sul Chicago Sun-Times del 30 gennaio 2004 (scaricabile dall’indirizzo

www.suntimes.com/output/news/cst-nws-warming30.html). “Breathe again” è l’articolo de The Economist del 17 gennaio 2004.

(2) Il pezzo di Michael Grubb si intitola “Jumping to Conclusions on Kyoto” ed è stato pubblicato il 9 gennaio 2004 da The Moscow Times.com (

www.themoscowtimes.com).

 (3) Sulla curva di Kuznets ambientale la letteratura è abbondantissima. Un riferimento “classico” è: Theodore Panayotou (2000), “Economic Growth and the Environment”, in K.G. Mäler and J. Vincent (a cura di) Handbook of Environmental Economics, Amsterdam: North-Holland. Un riferimento recente è Marzio Galeotti (2003), “Economic Development and Environmental Protection”, Fondazione Eni Enrico Mattei Nota di lavoro 89.2003 (scaricabile dall’indirizzo http://www.feem.it/NR/rdonlyres/212F3813-CB01-4C60-A083-18AD7E28E6E2/900/8903.pdf).

(4) Intergovernmental Panel on Climate Change (1996), Climate Change 1995: Impacts, Adaptations, and Mitigation of Climate Change: Scientific-Technical Analyses. Contribution of Working Group II to the Second Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change (

www.ipcc.ch).

(5) Samuel Frankhauser (1995), Valuing Climate Change: The Economics of the Greenhouse, London: Earthscan.
Richard S.J. Tol(1995), “The Damage Costs of Climate Change – Towards More Comprehensive Calculations”, Environmental and Resource Economics, 5, 353-374.

 

Tutti i limiti del Protocollo

Edoardo Croci

La nona Conferenza delle parti (Cop 9) ha confermato le debolezze originali del Protocollo di Kyoto e non ha prodotto nessuna uscita dal “limbo” in cui si trova. Forse è il momento di pensare come impostare nuovi accordi internazionali per contrastare l’effetto serra che vadano “oltre Kyoto”. Non pare infatti né realistico, né auspicabile proseguire sulla strada attuale.

In un loro intervento su lavoce.info, Marzio Galeotti e Alessandro Lanza, pur dando conto dei modesti risultati della conferenza, affermano che il negoziato procede e che il Protocollo di Kyoto è l’unica base possibile con cui affrontare il problema del cambiamento climatico globale.

Chi scrive è di diverso avviso. Il lavoro certosino di rifinitura dei meccanismi previsti dal Protocollo di Kyoto che ha impegnato le migliaia di delegati dei centonovanta paesi partecipanti alla Cop 9, stride con il limbo in cui esso è stato confinato dal ritiro degli Stati uniti e dall’incertezza della Russia. Non è affatto detto che da lì esca ed entri in vigore. Ma se anche ciò si verificasse, non sarebbe un grande passo in avanti per affrontare l’effetto serra.(1)

I limiti strutturali

Gli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra previsti dal Protocollo di Kyoto peccano di inefficacia, inefficienza, iniquità.

Il Protocollo di Kyoto non pone vincoli per la riduzione delle emissioni di gas serra a carico dei paesi dell’Allegato II, cioè quelli in via di sviluppo. Tali paesi non sono infatti disponibili ad accettare limiti alla crescita delle loro emissioni poiché ritengono che ciò comprometterebbe il loro sviluppo. Anzi, molti di loro non sono neppure disponibili a compilare inventari delle loro emissioni seguendo standard internazionali. Tutte le proiezioni internazionali indicano, però, una forte crescita delle emissioni in quelle aree, tanto che la Cina nel giro di qualche decennio potrebbe diventare il primo paese in termini di emissioni totali, davanti agli Usa, mentre India e Brasile si collocherebbero ai primi posti della classifica internazionale già in un decennio.
In sintesi, il protocollo consente il free riding non a paesi rappresentativi di una quota di emissioni marginali, ma a quelli in prospettiva più rilevanti.

I paesi che hanno accettato vincoli alle loro emissioni sono quelli dell’Allegato I, che comprende i paesi industrializzati e quelli con economie in transizione (cioè quelli dell’Europa dell’Est appartenenti all’ex blocco sovietico).
Per questi ultimi, i limiti di emissione al 2008-2012 sono però largamente inferiori alle emissioni attuali, a causa del crollo della produzione e della riconversione che l’industria di quei paesi ha seguito rispetto al 1990, l’anno base rispetto a cui si calcolano le riduzioni delle emissioni. Possono dunque aumentare le loro emissioni reali rispetto a oggi. In alternativa, possono far ricorso all’emission trading, uno dei meccanismi flessibili previsti dal Protocollo, e vendere permessi di emissione sul mercato internazionale, in assenza di riduzioni reali (è la cosiddetta “hot air”).
Dunque, il Protocollo fornisce un incentivo economico a partecipare a paesi a cui non è richiesto alcuno sforzo di riduzione delle emissioni.

Persino l’attribuzione delle quote di riduzione fra paesi industrializzati non risponde a criteri di equità ed efficienza. Infatti, a fronte di un costo di riduzione delle emissioni superiore per l’Europa rispetto agli Usa, questi (prima di ritirarsi) avevano un vincolo meno stringente dell’Europa (il 7 per cento degli Usa contro l’8 per cento dell’Europa).
La stessa ripartizione interna fra paesi europei, pur non essendo omogenea, non si fonda su criteri oggettivi e comporta oneri assai diversificati. In particolare, risulta relativamente molto onerosa per l’Italia ( ammesso che via sia da parte italiana una seria intenzione di rispettare i vincoli, ma questo è un altro discorso), che ha un elevato livello di efficienza energetica.

Se la Russia decidesse oggi di ratificare il Protocollo di Kyoto, il che ne comporterebbe l’entrata in vigore, i costi sarebbero sopportati principalmente da un ristretto gruppo di paesi europei e l’impatto in termini di contenimento delle emissioni di gas serra sarebbe assai ridotto, anzi le emissioni complessive mondiali continuerebbero a crescere.
La riduzione delle emissioni non avverrebbe inoltre dove il costo marginale di riduzione è inferiore, perché i paesi dove tale condizione si verifica non hanno assunto alcun impegno vincolante, i meccanismi flessibili previsti dal Protocollo hanno un ruolo ancillare e la presenza di “hot air” è distorsiva.

Oltre Kyoto

Gli ottimisti considerano comunque l’entrata in vigore del Protocollo un primo passo e sono convinti che successive negoziazioni consentirebbero di imporre vincoli più stringenti a tutti. Viste le debolezze strutturali del Protocollo, c’è da dubitarne. In realtà, il quadro informativo oggi a disposizione della comunità internazionale dovrebbe indurre all’impostazione di un nuovo regime internazionale post-Kyoto.

Tale azione richiederebbe come presupposti: a) un’analisi trasparente dei costi (e dei benefici) del riscaldamento globale e delle misure di adattamento e mitigazione, per verificare se esiste e a quale livello si colloca una soglia di riscaldamento accettabile (pur nell’ambito di diverse preferenze tra paesi). b) La definizione di un criterio “oggettivo” di ripartizione dei costi delle misure di mitigazione (cioè di contrasto al fenomeno) su cui fondare sistemi di incentivazione e compensazione.

In questa prospettiva, si potrebbero recuperare alcuni dei meccanismi previsti dal protocollo di Kyoto, come l’emission trading, grazie alla sua capacità di minimizzare i costi complessivi delle riduzioni delle emissioni indipendentemente dai criteri di allocazione iniziale dei permessi trasferibili.
È bene ricordare a questo proposito la recente decisione della Ue di dare comunque luogo a un mercato dei permessi su scala europea sin dal 2005, indipendentemente dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto.

Per saperne di più

http://unfcc.int
http://www.ipccc.org
http://www.europa.eu.int/comm/environment/climat/emission.htm

(1) Sia chiaro che non si condivide la posizione degli “ambientalisti scettici” e che, pur con alcuni margini di incertezza, si ritiene che le “prove” sull’esistenza del fenomeno del riscaldamento globale fornite dalla comunità scientifica siano sufficienti e che globalmente questi effetti generino costi superiori ai benefici.

 

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