Lavoce.info

Co.co.co in transizione

Con la circolare interpretativa del ministero del Lavoro si attenuano alcune rigidità introdotte dalla nuova normativa sul mercato del lavoro. Porta qualche limitato chiarimento alla definizione di “progetto” e di “programma”. Tra punti ancora oscuri e ambiguità, l’effetto ultimo sarà favorire un adeguamento al nuovo regime più morbido di quanto si potesse prevedere. Ma la prassi che si va costruendo adesso dovrà comunque affrontare la verifica della giurisprudenza.

Annunciata da tempo, si è infine materializzata la circolare interpretativa del ministero del Lavoro (n. 1/2004) su uno degli istituti più controversi del decreto di riforma del mercato del lavoro (n. 276/2003): il lavoro a progetto o a programma (art. 61 e seguenti).

Circolari non sempre risolutive

Accade spesso che, quando viene emanata una nuova normativa, le incertezze e le ansie degli operatori si proiettino sull’attesa salvifica della “circolare”. Altrettanto spesso accade che, quand’essa finalmente arriva, finisca per deludere le attese, o per carenze del documento, o per l’oggettiva impossibilità di racchiudere in un testo esplicativo le numerose possibilità interpretative di una normativa. Entrambe queste considerazioni si attagliano alla circolare cui sono dedicate queste note.
Essa delude quando è puramente ripetitiva del testo normativo e omette di pronunciarsi su nodi interpretativi già profilatisi nell’esperienza applicativa. Su altri punti, invece, non si poteva pretendere che si facesse una luce definitiva, trattandosi di concetti normativi per definizione vaghi, che potranno chiarirsi soltanto nei tempi più lunghi dell’esperienza giurisprudenziale.

Ciò non significa che la circolare non contenga indicazioni interessanti, che sembrano una risposta a quelle critiche che hanno rimproverato al decreto di costringere i co.co.co. nella “camicia di forza” della subordinazione (oppure di farle “rimbalzare” nell’area del lavoro nero). Le critiche da “destra”, insomma, anche se il lavoro a progetto sembra fatto apposta per mettere in crisi la (troppo) cristallina chiarezza di marca bobbiana sul discrimine fra destra e sinistra. Infatti, da “sinistra”, un po’ ingenerosamente, nessuno ha riconosciuto alla normativa almeno la bontà del fine: il tentativo di dare la caccia alle collaborazioni fasulle. Nessuno, d’altra parte, ha in tasca la ricetta magica che garantisca il successo di tale tentativo, al di là delle ideologiche fughe in avanti che vorrebbero estendere a tutti i medesimi diritti dei lavoratori subordinati.

Maglie più larghe

Forse per certe reazioni del mondo imprenditoriale, la circolare manda messaggi piuttosto netti (ma non univoci) verso l’attenuazione di alcune rigidità. Si allude soprattutto all’inattesa via di fuga legata ad una lettura dell’art. 69 comma 1 meno rigida di quella che si poteva (e si può tuttora) ipotizzare: la mancanza del progetto o del programma crea una semplice presunzione di subordinazione, che può essere superata qualora il committente fornisca in giudizio la prova dell’effettiva autonomia del rapporto. Tutto si ridurrebbe, insomma, a un rovesciamento dell’onere della prova a carico del committente.

Leggi anche:  Il decreto Lavoro non aumenta il precariato

È una lettura che suscita dubbi (vedi Tursi). Gli operatori non devono illudersi che d’ora in avanti si possa impunemente fare a meno di un progetto o di un programma, anche perché non sappiamo ancora come la norma sarà interpretata dalla giurisprudenza. Non si dimentichi, poi, che il confine fra un lavoro “programmato” e un lavoro “eterodiretto”, cioè subordinato, è davvero molto labile.

Tra “progetto” e “programma”

Ma veniamo ai tormenti legati alle definizioni di “progetto” e di “programma”, che la circolare ha cercato di chiarire, con limitato successo. Così, il progetto è stato riferito a “un’attività produttiva, principale o accessoria, ben identificabile e funzionalmente collegata a un determinato risultato finale cui il collaboratore partecipa direttamente con la sua prestazione”.Il programma è riferito a un “tipo di attività cui non è direttamente riconducibile un risultato finale”, bensì un “risultato parziale destinato a essere integrato, in vista di un risultato finale, da altre lavorazioni o risultati parziali”. Tanto il progetto quanto il programma debbono avere un termine finale.

Potremmo soffermarci a lungo sulle trappole insite nel concetto di “risultato”. Certo è che la circolare, riconducendo a un risultato, pur parziale, anche il lavoro a “programma”, sembra voler scoraggiare quelle interpretazioni che stavano iniziando a diffondersi, col preciso intento di recuperare al nuovo istituto una vasta area di collaborazioni continuative, come tali qualificate dal tempo impiegato, più che dal risultato finale della prestazione.

Non pare arbitrario, infatti, ricondurre il “programma” al fatto di predeterminare le modalità, in specie temporali, di esecuzione di una prestazione e di coordinamento tra essa e l’organizzazione del committente; laddove il “progetto” è qualificato dal perseguimento, pur esso “coordinato” (anche se forse in misura meno intensa rispetto all’ipotesi del “programma”), di un dato obiettivo.

E’ vero che, se si accetta questa lettura, è possibile che non vi sia quasi un’attività di collaborazione continuativa che non risulti “programmabile”. Ma non credo che ciò debba essere mal valutato, ove si ritenga che al fondo della normativa vi sia soprattutto un’istanza di trasparenza negoziale, che rimarrebbe comunque salvaguardata.

Leggi anche:  Dalle gabbie salariali all'aumento dei consumi

I chiarimenti e i punti ancora oscuri

Non mancano altri utili chiarimenti: il limite dei 5mila euro annui, al di sopra del quale il collaboratore coordinato e continuativo deve porsi come lavoratore a progetto (a meno che sia un semplice lavoratore autonomo non coordinato), è riferito al reddito percepito col medesimo committente.

Si è altresì chiarito che con lo stesso collaboratore possono essere stipulati, senza limiti, successivi contratti di lavoro anche in relazione ad “analoghi” progetti o programmi.

Su altri punti problematici ci si poteva attendere, invece, qualcosa di più: tra questi, le modalità applicative della tutela prevista in caso di maternità della lavoratrice; la criticabile previsione per la quale i diritti previsti dalla normativa potrebbero essere oggetto di rinuncia in sede di certificazione iniziale del contratto (svuotandosi così di mordente una delle novità del decreto). E, infine, le ambiguità del regime transitorio, in specie circa l’incerta possibilità di farvi rientrare i contratti di collaborazione coordinata e continuativa “prorogati” (non “rinnovati”) dopo il 23 ottobre 2003, o in scadenza nel periodo compreso fra il 23 ottobre 2003 e il 23 ottobre 2004.

In conclusione, l’effetto ultimo della circolare sarà probabilmente quello di indurre gli operatori, che già si stavano avviando in tale direzione, a spingere al limite le possibilità applicative della neonata normativa, favorendo così una transizione al nuovo regime più morbida di quella che si poteva prevedere. Ma se questo è il momento in cui una nuova prassi si va formando, giungerà poi quello delle verifiche, e non è detto che sia privo di sorprese.

Se non altro, male che vada, si potrà dire che il decreto ha contribuito alla crescita linguistico-filosofica della popolazione, visto che mezza Italia si sta faticosamente interrogando su che cosa significhino le espressioni “progetto” e “programma”.

 

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Come aiutare i Neet a rientrare nel mercato del lavoro

Precedente

Il circolo vizioso dei condoni

Successivo

Un mercato per le licenze

  1. Paolo

    E’ ormai quasi un anno che ho un contratto da Co.Co.Co a tempo indeterminato. Oltre all’anomalia legata alla tipologia di mansione (sono un commerciale e quindi vado per “risultati” e non per “progetti”), mi domando se il Co.Co.Co. a tempo indeterminato si evolverà (come) e in quali tempi.
    Inoltre la subordinazione è reale, perchè lavorando in una realtà complessa, io rispondo direttamente alla direzione che mi assegna compiti e incarichi, non perdendo di vista la collaborazione con le altre strutture interne.

    Potete aiutarmi a risolvere questo dilemma ?

    Un grazie anticipato
    Paolo

    • La redazione

      Purtroppo non è l’unico in questa condizione. Soprattutto nelle regioni meridionali i contratti di collaborazione coordinata e continuativa possono durare molto a lungo, talvolta a vita, anche quando sono primi lavori e comportano salari molto bassi. Non credo che la nuova normativa contribuisca a risanare la situazione per le ragioni discusse sul sito. Non è un problema formale, ma di convenienza economica. Potrebbero servire sussidi per bassi salari nell’ambito di contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato. Se accompagnati ad un decentramento della contrattazione (il parasubordinato è anche un modo per sfuggire ai minimi contrattuali), potrebbero incentivare la trasformazione di molti contratti temporanei in contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato.

      Cordiali saluti

      Tito Boeri

  2. Riccardo Bellocchio

    Le collaborazioni coordinate e continuative non ricondotte ad un progetto o programma di lavoro, non determinabili nel tempo e non svolte in autonomia sono però diventate illegali.
    Non è possibile prescindere da questo fatto. L’art. 69 del Dlgs 276 è chiaro. Poi possiamo discutere quali effetti si possono avere da tale illegalità. (trasformazione tout court in rapporto di lavoro subordinato, trasformazione in rapporto di fatto, continuazione della collaborazioni in maniera atipica).
    In sostanza le collaborazioni coordinate e continuative che mascherano rapporti di lavoro subordinato sono diventate illegali.
    Questo è forse l’aspetto più innovativo della norma. Non ha stabilito che i contratti devono essere definiti esclusivamente in una unica forma giuridica stabilita una volta per tutte dal legislatore. E’ la realtà giuridica sostanziale che vince sulla formalità.
    Questo è a mio parere il problema culturale di affronto di questa normativa. E’ la prima volta che nel nostro ordinamento giuridico non si definisce a priori la realtà ma si dettano le regole entro le quali far convengere le varie forme di collaborazione e di lavoro. I paletti ci sono e sono molto chiari. O si è dipendenti o si è autonomi. Non ci sono scorciatoie.
    E’ evidente che esiste una convenienza economica tra le varie forme di lavoro, ma tale convenienza deve essere regolamentata. Perchè dettare esclusivamente un modello economico/normativo unico per imbrigliare la realtà, incentivando o disincentivando le anomalie a secondo del momento.?. Se la prestazione è a progetto, per cui autonoma e non subordinata, definita nel tempo, gestita in funzione del risultato avrò una convenienza legata alla tipologia della prestazione. Cioè avrò un lavoratore con determinate caratteristiche a cui potrò chiedere alcune cose e non altre. Non avrò un effetto di spiazzamento. (anche se potremo vedere tale effetto solo dopo aver sperimentato la riforma).
    Nel caso specifico è evidente che è richiesta un cambiamento della forma di lavoro attualmente usata. Perchè delle due l’una: o entro il 24 ottobre 2004 (per essere magnanimo) tale prestazione è riconducibile a un progetto, allora può continuare la sua vita oppure occorre trovare una nuova forma di lavoro che abbia tutte le caratteristiche legali del caso specifico.
    La normativa aiuta in questo. Fornisce una serie di struumenti (contratti) e norme (regole) per permettere lo sviluppo del mercato del lavoro e per cui tendenzialmente di qualsiasi forma di lavoro. Non definisce a priori: Tu devi lavorare solo con contrato a tempo pieno e indeterminato come subordinato del datore di lavoro e poi dare incentivi o disincentivi perchè la realtà non segue tale intento.
    Anche agli imprenditori è richiesto uno sforzo culturale di ripensare a come trattano i propri collaboratori e dipendenti. Non è più possibile pensare in europa a sfruttare ignobilmente i dipendenti per un semplice tornaconto esclusivamente economico. Perchè, abbiano ormai notato, che una simile visione ha portato a non sfruttare tutto il potenziale umano presente in qualsiasi realtà. Non è possibile fare innovazione e ricerca o sviluppo delle conoscenze professionali senza retribuire adeguatamente chi collabora e si fa carico di tale sforzo. Perchè la sfida è verso l’alto della catena del valore non verso il basso.

    Cordialissimi saluti

    Riccardo Bellocchio

    • La redazione

      Sono d’accordo con lei, a condizione che questa svolta si accompagni con un ripensamento dell’intera disciplina del rapporto di lavoro dipendente; e non soltanto con una riforma di questa disciplina “ai margini”, o riferita ai soli rapporti di ingresso, come nel decreto legislativo n. 276/2003. Altrimenti il rischio (anzi: la certezza) è di aggravare la connotazione sclerotica del nostro mercato del lavoro, con tutte le sue conseguenze perniciose non soltanto sul piano dell’efficienza,
      ma anche e soprattutto sul piano dell’equità.
      P.I.

  3. Patrizia

    Voglio chiedervi se qualcuno mi puo espiegare che cosa è il contrato di lavoro a progetto?

    • La redazione

      E’ un contratto di collaborazione autonoma circoscritta (appunto) a un progetto o programma temporalmente circoscritto, quindi un contratto necessariamente a termine, istituito dall’art. 61 del decreto legislativo n.276/2003 (c.d. “legge Biagi”). Lo stesso decreto introduce poi (art. 69) il
      divieto di qualsiasi altra forma di collaborazioni autonoma continuativa a tempo indeterminato, salvo che il collaboratore sia titolare di pensione di vecchiaia, oppure iscritto a un albo od ordine professionale.
      Dall’applicazione dell’intera nuova disciplina sono esclusi lo Stato e gli enti pubblici.
      P.I.

  4. Gabriele Nannini

    Sono Cococo da 1 anno ormai in un Ente Pubblico e volevo chiedere, se in caso di assunzione a tempo indeterminato da parte dell’ Ente, ho il diritto di entrare anche senza concorso?

    • La redazione

      Questa la risposta al quesito: “Purtroppo per Lei no. Non c’è alcun canale
      preferenziale per i co.co.co., che possa permettere di aggirare un principio
      costituzionalmente imposto come quello del concorso”.
      Cordialmente
      Riccardo Del Punta

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén