Nei trasporti pubblici locali non c’è solo una questione di relazioni industriali problematiche. Il settore è fortemente sussidiato per compensare costi comparabili con la media europea, ma tariffe decisamente più basse. La vera questione è però la scarsa concorrenza. Per le resistenze di enti locali e aziende, non decolla il sistema delle gare. Che per funzionare bene dovrebbe prevedere anche la possibilità di licenziamenti e quindi l’introduzione di ammortizzatori sociali, possibilmente non distorsivi.

I trasporti pubblici locali (Tpl) sono finiti sulle prime pagine dei giornali per l’improvvisa esplosione di scioperi selvaggi che hanno paralizzato molte città e, in particolare, Milano.
I lavoratori e i sindacati intendevano così costringere le aziende a rispettare un contratto nazionale firmato due anni fa, che prevedeva aumenti salariali differiti nel tempo, e ottenere ulteriori integrazioni a livello aziendale.
Le modalità degli scioperi hanno spinto Pietro Ichino a riproporre, proprio su lavoce.info, la via dello sciopero virtuale, in termini perfettamente condivisibili.
Ma nei trasporti pubblici locali non c’è soltanto una questione di relazioni industriali problematiche.

Contratti, risorse e costi

Il contratto nazionale vigente prevede aumenti condizionati al finanziamento delle Regioni e dello Stato.
Il Tpl, infatti, è un settore fortemente sussidiato: in media le aziende coprono circa il 30 per cento dei costi con i ricavi da traffico (Milano quasi il 40 per cento). Dal 1996 in poi, i sussidi sono cresciuti del 6 per cento, cioè meno dell’inflazione (17 per cento); quindi il loro valore reale si è ridotto.
Le tariffe sono decise dalle Regioni, su proposta dei comuni, in base a considerazioni di tipo politico, cioè senza particolare attenzione al rapporto ricavi-costi. Milano ha portato la tariffa ordinaria a 1 euro con l’introduzione della moneta unica; Roma lo ha fatto solo nell’ottobre del 2003; in molte città siamo ancora a 77-80 centesimi. Le tariffe italiane (specialmente gli abbonamenti) sono significativamente più basse che nella media europea. Conseguentemente, più alti sono i sussidi pubblici, anche perché i costi non sono affatto più bassi della media europea. Si pensi che se l’Ataf di Firenze avesse avuto nel 1999 gli stessi costi unitari della First Mainline di Sheffield (un’azienda comparabile per dimensioni del servizio offerto) avrebbe avuto un avanzo di circa 7,5 milioni di euro invece che sussidi e deficit per complessivi 45 milioni. E ciò senza aumentare le tariffe.
Poiché oltre il 70 per cento dei costi del Tpl è rappresentato dal costo del lavoro, è evidente che ogni aumento salariale è destinato a incidere non poco sui conti delle aziende.

I salari degli autoferrotranvieri

Non sono disponibili dati attendibili sulle retribuzioni degli autoferrotranvieri a livello nazionale.

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La principale associazione imprenditoriale del comparto (Asstra) non permette ai non associati di accedere alle informazioni presenti nel suo portale, peraltro non recentissime.
Tuttavia, l’Atm di Milano ha rivelato che i suoi dipendenti assunti prima del 27-4-2001 percepiscono uno stipendio annuo medio lordo di 29.700 euro (netto 20.900), con un costo per l’azienda di 40.600 euro annui. Per i macchinisti delle metropolitane si sale a 34.000 euro lordi con un costo per l’azienda di 46.500 euro. I dipendenti assunti con contratti di formazione lavoro (il 9 per cento del totale) percepiscono uno stipendio lordo di 18.200 euro nei primi due anni e di 24.400 a regime. A tali salari sono da aggiungere i compensi per gli straordinari, cioè per le ore di lavoro che eccedono le 36 settimanali (30 e 14 minuti di guida effettiva per i mezzi di superficie; 27 e 40 minuti per le metropolitane).
Il sindaco di Milano, Gabriele Albertini, ha commentato questi dati sostenendo che si tratta di retribuzioni superiori a quelle di poliziotti e carabinieri. Credo siano superiori anche a quelle di postini, operai metalmeccanici, insegnanti di scuole elementari e medie, eccetera. Il che non significa che si tratta di retribuzioni elevate, ma forse, in questi mesi, si è esagerato il disagio degli autoferrotranvieri, almeno in termini relativi.
E si è sottovalutato il rischio di “contagio” di ogni cedimento alle richieste sindacali nel Tpl.

Chi dovrebbe finanziare il Tpl

Pur con qualche eccezione, come l’Atm di Milano, oggi, le aziende non hanno le risorse per onorare e men che meno per integrare i contratti nazionali.
L’Atm ne ha la possibilità perché ha beneficiato di tariffe più elevate per due anni, perché a Milano il trasporto pubblico serve una quota degli spostamenti più elevata che in altre grandi città e perché la Regione Lombardia fornisce un contributo per unità di prodotto (vettura-km) sensibilmente più elevato di quello fornito da altre Regioni.
Stando alla normativa vigente e al Titolo V della Costituzione, le risorse devono metterle i soggetti responsabili della programmazione e dell’organizzazione del settore, cioè le Regioni e i comuni. Non lo Stato. Le Regioni possono alzare le accise sugli olii minerali. E lo possono fare dal 1996. Ma non l’hanno fatto.
Regioni e comuni possono aumentare le tariffe: pochissimi l’hanno fatto. Però hanno invocato l’intervento dello Stato, del tutto incompetente in materia. E l’hanno ottenuto, con l’accordo di dicembre. Un accordo che, sebbene meno generoso di quanto Regioni, comuni e aziende sperassero, ha rimesso lo Stato in un gioco in cui non dovrebbe essere, riproponendo un sistema di finanza derivata che nel settore ha già prodotto disastri in passato.

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La concorrenza che non c’è

Regioni e comuni avevano (dal 1997) la possibilità di utilizzare un potente strumento per ridurre i costi: la concorrenza, almeno nella forma di gare per l’affidamento del servizio (a Londra, in quindici anni di gare, i costi unitari del trasporto su autobus si sono ridotti del 50 per cento).
Poche Regioni lo hanno utilizzato e con il freno tirato, cioè dopo aver varato leggi iper-protettive nei confronti dei lavoratori delle attuali aziende monopoliste. Solo Lombardia e Liguria hanno già concluso molte gare, ma sono rimaste fuori (per ora) Milano e Genova, cioè proprio le realtà più complesse (e conflittuali).
I risparmi ottenuti non sono stati finora eccezionali, per i troppi vincoli imposti. (1) Ma, almeno, i comuni che hanno aggiudicato il servizio tramite gara si sono messi al riparo dai possibili disavanzi futuri delle aziende.

Certamente anche Governo e Parlamento hanno le loro responsabilità. La lunga e confusa vicenda della contro-riforma dei servizi locali (vedi “La difficile marcia verso il mercato” e “Riforme e controriforme“) non ha certo contribuito alla chiarezza politica e normativa. Tuttavia, nulla vietava alle Regioni e i comuni di bandire le gare, se volevano. Il problema è che, in buona misura, non volevano. E non volevano neanche molti manager delle aziende, che forse non riuscivano a vedere come la minaccia concorrenziale li avrebbe aiutati nelle relazioni industriali. Chissà se dopo un dicembre e un gennaio decisamente neri cambieranno idea?

Resta comunque un problema. Perché un ordinato ed efficace sistema di gare possa essere messo in piedi è necessario che ai vincitori non sia imposta la riassunzione di tutto il personale delle perdenti. Ma ciò significa possibilità di licenziamenti. È allora necessario pensare presto all’introduzione di un normale (e possibilmente non distorsivo) sistema di ammortizzatori sociali.

Un problema comune a molti altri servizi di trasporto pubblico nel passaggio dal monopolio a un regime, almeno parzialmente, concorrenziale.


(1)
Si veda A. Boitani, C. Cambini, “Le gare per i servizi di trasporto locale in Europa e in Italia: molto rumore per nulla?”, Torino, Hermes Ricerche, 2003.

 

 

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