La Commissione europea ha bocciato il decreto salva-calcio. Riproduciamo qui gli interventi di Giuseppe Pisauro all’atto dell’introduzione del provvedimento. Mettevamo in luce come le agevolazioni abbiano un effetto distorsivo sul mercato perché offuscano la rappresentazione che il bilancio dà della situazione economica delle società calcistiche e consentono una riduzione delle imposte da pagare in futuro.

Finale di partita senza pareggio

18 febbraio 2003
Giuseppe Pisauro

L’emendamento a favore delle società di calcio, approvato alla Camera durante l’esame in prima lettura della legge di conversione del decreto fiscale di fine anno, prevede che le società sportive che svalutano i diritti pluriennali delle prestazioni degli sportivi professionisti (in pratica il “prezzo di acquisto” del calciatore) debbano procedere, ai fini civilisti e fiscali, all’ammortamento della svalutazione in dieci rate annuali (art. 3, comma 1-bis del Ddl n. 1996/AS di conversione del Dl 282/2002). Si tratta di un’importante deroga al regime normale della svalutazione dei cespiti, secondo cui la relativa minusvalenza entra tra le componenti negative del conto economico interamente nell’esercizio in cui si manifesta.

Perché questa norma proprio adesso?

Per rispondere, vale la pena ricordare la pratica, ampiamente seguita dalle società negli anni recenti, di mantenere in equilibrio il bilancio realizzando plusvalenze sul patrimonio calciatori. Il meccanismo, sostenibile in un mercato con prezzi crescenti, è semplice e può essere illustrato con un esempio. Una società acquista il calciatore A (diciamo Vieri) a un prezzo di 1000 e gli fa un contratto di cinque anni. Il primo anno tra i costi vi sarà il relativo ammortamento, pari a 200. L’anno successivo, il calciatore viene ceduto a un prezzo di 2000, realizzando così una plusvalenza di 1200, pari alla differenza tra prezzo di vendita (2000) e valore non ammortizzato del calciatore (800), che viene iscritta tra le componenti positive del conto economico. Contemporaneamente viene acquistato il giocatore B di abilità equivalente (diciamo Crespo) a un prezzo di 2000, sempre con un contratto di cinque anni. Per effetto di queste due operazioni, il conto economico del secondo anno presenta un risultato positivo di 800 (1200 la plusvalenza sul calciatore A, 400 l’ammortamento del calciatore B). Se la società è quotata in borsa, può persino distribuire un dividendo agli azionisti.

Il meccanismo è vantaggioso per entrambe le società che partecipano allo scambio e può prestarsi a strumentalizzazioni, come si capisce da un altro esempio. Due società acquistano i calciatori X e Y a un prezzo di 1000 ciascuno (X e Y, per gli esperti di calcio, potrebbero essere Pirlo e Guglielminpietro), decidono poi di scambiarli, attribuendo a ciascuno un prezzo di 2000. Dopo di che si potrebbe procedere anche a uno scambio di prestiti (X e Y diventano allora Helveg e Domoraud) per lasciare le cose (calcistiche, ma non contabili) esattamente come prima.

Naturalmente, se si inverte la tendenza dei prezzi a crescere, il meccanismo si interrompe e resta la scomoda eredità di un pesante onere per ammortamenti (620 milioni di euro per le società di serie A nel 2002, con una crescita del 26% rispetto all’anno precedente, secondo il Sole-24 Ore). A quel punto diventa desiderabile svalutare il patrimonio calciatori, per riportarlo in linea con i valori di mercato e abbattere così gli ammortamenti. Per continuare con il primo esempio, se nel terzo anno i prezzi scendono del 50 per cento, il vero valore di mercato (non ammortizzato) del calciatore B sarà di 800 (contro il valore di 1600 iscritto nello stato patrimoniale). Per riportare l’ammortamento a 200, si può procedere a una svalutazione che dà luogo a una minusvalenza da iscrivere nel conto economico, così da compensare esattamente la plusvalenza dell’anno prima. La società, però, va in perdita. A garanzia dei terzi, il codice civile fissa un limite alle perdite (il capitale sociale non può scendere sotto un minimo) e prescrive che quando la perdita di esercizio è superiore a un terzo del patrimonio netto la società, calcistica o meno, deve ricapitalizzare o fallire. La possibilità di spalmare la minusvalenza su dieci anni serve appunto a evitare queste spiacevoli conseguenze.

La norma con ogni probabilità è priva di costi per il bilancio dello Stato. Nel nostro esempio, se la società con un patrimonio calciatori di 1600 procede alla svalutazione del 50 per cento, abbatte l’ammortamento a 200 e iscrive tra i costi un decimo della minusvalenza (vale a dire 80): in tutto 280, una cifra inferiore ai 400 di ammortamenti della situazione attuale. L’operazione si traduce, quindi, in un miglioramento del conto economico, mentre le imposte da pagare non diminuiscono. Per questo motivo, la Commissione Bilancio della Camera ha rivisto il suo parere inizialmente negativo sull’emendamento poi approvato in assemblea.

Ma se non vi sono costi per l’erario, ce ne sono per il sistema economico. Vi è un chiaro effetto distorsivo della concorrenza nei confronti di società che operano in altri settori e delle società calcistiche di altri paesi Un calcio al fisco

27 febbraio 2003
Giuseppe Pisauro

Alcuni lettori ci hanno chiesto chiarimenti sugli effetti fiscali del provvedimento salva-calcio. La questione è molto importante, in quanto la presenza di un vantaggio fiscale è elemento cruciale per qualificare un intervento come “aiuto di Stato”. L’articolo 87 del Trattato europeo stabilisce che “sono incompatibili con il mercato comune (…) gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. L’articolo precedente si è concentrato sugli aspetti negativi più gravi della norma salva-calcio: la distorsione della concorrenza e la manomissione delle regole contabili. Vediamo ora le implicazioni fiscali.

Pur sembrando improbabile, non si può escludere che il provvedimento salva-calcio determini uno sgravio fiscale futuro.

Per comprendere questo punto, partiamo dall’attuale normativa tributaria. Una spa paga l’Irpeg in percentuale dell’utile, naturalmente se quest’ultimo è positivo. Se, invece, è in perdita, la spa non paga imposte né riceve un sussidio dal fisco, ma può usare la perdita come una sorta di “buono-sconto” sulle imposte degli anni successivi. Nel linguaggio tributario, la società può “riportare in avanti” la perdita, vale a dire sottrarla dall’utile degli anni successivi prima del calcolo dell’imposta. La validità del “buono-sconto” ha, tuttavia, una data di scadenza: deve essere speso interamente entro cinque anni.

Le società di calcio attualmente sono in perdita, quindi non pagano imposte. L’emergere della minusvalenza, derivante dalla svalutazione del patrimonio calciatori, si aggiungerebbe alla perdita e darebbe luogo a un ulteriore buono-sconto sulle imposte future, da spendere sempre entro cinque anni. Immaginando, come è plausibile, che le società di calcio nei prossimi anni saranno ancora in perdita, il nuovo buono-sconto (la minusvalenza) non avrebbe per loro alcun valore, dato che non riusciranno a spenderlo.

Il decreto salva-calcio consente di spalmare la minusvalenza su dieci anni, in altre parole fraziona il buono-sconto e ne allunga la validità. L’ultima tranche del buono-sconto sarà originata tra dieci anni e avrà validità per altri cinque anni. Se – cosa su cui si può essere scettici, ma che è comunque possibile – nell’arco dei prossimi quindici anni le società calcistiche riusciranno a portare in utile i propri bilanci, potranno allora spendere la parte residua del buono sconto e godere di uno sgravio fiscale.


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