L’introduzione dei limiti anagrafici al pensionamento ha riportato verso l’alto i tassi di occupazione maschili nella fascia di età 50-60 anni. Incentivi e disincentivi economici apprezzabili possono perciò rivelarsi efficaci per ritardare le uscite dal mondo del lavoro. Con una nuova domanda sullo sfondo: ha ancora un senso mantenere l’istituto della pensione di anzianità in assenza di penalizzazioni?

Quali sono stati gli effetti delle riforme previdenziali sul tasso di occupazione degli Italiani di età compresa tra i 50 e i 60 anni? La domanda è importante visti gli ambiziosi impegni che il Governo italiano ha sottoscritto a livello di Unione europea, prima a Lisbona e poi a Barcellona, per invertire la preoccupante tendenza al declino del tasso di occupazione per questa fascia di età.

Quattro gruppi di età e gli effetti delle riforme

Cerco di rispondere alla domanda presentando, rispettivamente per maschi (Figura 1) e femmine (Figura 2), l’andamento dei tassi di occupazione per quattro gruppi di età durante il periodo dall’ottobre 1992 all’ottobre 2002. Ho calcolato i tassi di occupazione direttamente dai microdati delle edizioni successive della rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro dell’Istat, utilizzando i pesi campionari forniti dall’indagine. L’ottobre del 1992 segna l’avvio del processo di riforma del sistema previdenziale italiano che, dopo dieci anni, appare ancora lontano dall’essere concluso. I quattro gruppi di età evidenziati nelle figure sono stati interessati in modo assai diverso dagli interventi di riforma.
È infatti utile ricordare che, per chi ha più di 57 anni di età, è sempre stato possibile andare in pensione indipendentemente dall’età anagrafica al raggiungimento dei 35 anni di contribuzione. Per chi ha meno di 58 anni di età, la possibilità di accedere alla pensione con 35 anni di anzianità contributiva dipende invece dall’età anagrafica in modi che sono cambiati nel corso del tempo. Tra il 1996 e il 1997, chi intendeva sfruttare tale possibilità doveva avere almeno 52 anni, nel 1998 almeno 54 anni, tra il 1999 e il 2000 almeno 55 anni, nel 2001 almeno 56 anni, e dal 2002 almeno 57 anni.

Leggi anche:  Precarietà, il lato oscuro del mercato del lavoro

La figura 1 mostra come l’introduzione di questi limiti anagrafici abbia avuto un effetto diretto sull’andamento dei tassi di occupazione maschili per i diversi gruppi di età. Per il gruppo di età 52-53 il tasso di occupazione diminuisce fino al 1997 e poi risale. Per il gruppo di età 54-55 diminuisce fino al 1999 e poi risale. Per il gruppo di età 56-57 diminuisce fino al 2001 e poi mostra una tendenza a risalire. Per il gruppo di età 58-59 (quello non interessato dai limiti di età anagrafica) si osserva invece una tendenza costante alla diminuzione. Alla fine del periodo, solo quattro maschi su dieci di età compresa tra i 58 e i 59 anni risultano occupati. Dieci anni prima erano invece sei su dieci.
Per le donne invece (figura 2), l’introduzione di limiti di età anagrafica sempre più stringenti non sembra avere avuto alcun effetto. Si osserva infatti una tendenza generale all’aumento del tasso di occupazione per tutti i gruppi di età considerati. La mancanza di effetto dei limiti di età non dovrebbe sorprendere, perché solo una piccola frazione di donne riesce a raggiungere i 35 anni di contribuzione prima dell’età minima per il pensionamento di vecchiaia, e quindi a sfruttare l’opportunità offerta dalla pensione di anzianità.

Prime risposte e nuove domande

La risposta alla domanda iniziale sembra quindi chiara. In presenza dell’istituto della pensione di anzianità e in assenza di limiti anagrafici all’età di pensionamento, la tendenza alla caduta del tasso di occupazione è continuata inarrestabile, mentre l’introduzione di limiti anagrafici all’età di pensionamento ha avuto un effetto diretto e immediato riportando verso l’alto i tassi di occupazione. Questo dimostra che l’effetto dei cambiamenti nelle regole previdenziali è particolarmente sentito dal lato dell’offerta di lavoro (cioè dal lato delle scelte dei lavoratori). Per questo motivo, incentivi (e disincentivi) economici apprezzabili potrebbero avere un effetto importante nel ritardare le uscite.

A questo punto, diventa naturale porre due nuove domande che mi auguro contribuiscano a stimolare il dibattito. Dati gli obiettivi di medio periodo in termini di tasso di occupazione degli anziani, ha senso mantenere l’istituto della pensione di anzianità, in assenza di penalizzazioni? Se anche la risposta risultasse positiva, è adeguato mantenere a 57 anni (58 per i lavoratori autonomi) il limite di età anagrafica?

Leggi anche:  Carriere nella pubblica amministrazione: tanta anzianità, poco merito*

Figura 1

 

Figura 2

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Lavorare nel pubblico o nel privato? Due mondi a confronto*