Ancora un trimestre di crescita negativa per il nostro prodotto interno lordo: l’inizio del 2003 può adesso essere definito come una fase di recessione. Soprattutto l’Italia continua a crescere meno della pur stagnante Europa. Riproponiamo ai lettori gli interventi di Rodolfo Helg, Paolo Manasse e Marco Pagano e Fausto Panunzi, in cui si discutono le ragioni del declino economico del nostro Paese.

La specializzazione anomala dell’economia italiana, di Rodolfo Helg (04-02-02)

La situazione italiana

L’economia italiana è caratterizzata da una specializzazione produttiva ed internazionale non tipica per un paese industrializzato. I punti di forza sono nei settori tradizionali (anche detti del “made in Italy”) e nei comparti del settore meccanico che producono macchine per la lavorazione dei metalli, del legno etc. Il tessuto produttivo italiano è invece molto debole nei settori dove più importanti sono le dimensioni di scala e nei settori “high-tech”. La conferma viene raggruppando i settori manifatturieri in macro-classi definite in funzione della intensità fattoriale: settori che producono beni ad alta intensità di lavoro non qualificato, alta intensità di lavoro qualificato e ad alto contenuto tecnologico. La figura che segue riporta una misura della specializzazione internazionale relativa italiana (l’indice dei vantaggi comparati rivelati dato dal rapporto tra la quota mondiale di esportazioni italiane del comparto considerato e la quota mondiale di esportazioni italiane totali manifatturiere – un valore maggiore di uno segnala specializzazione, un valore tra zero e uno despecializzazione) per ciascuno dei tre comparti (1).

Per tutto il periodo, ed in modo crescente, l’Italia mostra una specializzazione relativa nei settori ad alta intensità di lavoro non qualificato (i settori “tradizionali”: calzaturiero, abbigliamento, tessile, mobilio) ed una despecializzazione relativa nei settori ad alta intensità di lavoro qualificato e di tecnologia. La “distanza” tra comparti di forza e di debolezza qualifica la polarizzazione del modello di specializzazione italiano e l’assenza di sostanziale “mobilità” testimonia la sua persistenza nel tempo.

La differenza con gli altri paesi industrializzati

Il quadro è molto diverso per gli altri paesi industrializzati: Stati Uniti, Giappone ed, in parte, il Regno Unito eccellono nel comparto ad alta tecnologia, dove anche Germania e Francia non sfigurano. Tutti hanno punti di forza nei settori ad alta intensità di lavoro qualificato e mostrano debolezze nei settori ad alta intensità di lavoro non qualificato. Di qui l’anomalia della specializzazione italiana (2). Rimane il dubbio che il modello di specializzazione italiano così diverso da quello degli altri paesi industrializzati, sia pericolosamente simile a quello di alcuni paesi emergenti. Ed una certa similarità esiste. La tabella qui sotto riporta i coefficienti di correlazione di rango tra l’indice dei vantaggi comparati rivelati dei paesi industrializzati con quello dei paesi emergenti. Mentre per gli altri paesi industrializzati i coefficienti di correlazione sono quasi tutti negativi (a indicare una dissimilarità nel modello di specializzazione rispetto ai paesi emergenti), per l’Italia gran parte di questi sono positivi, a testimonianza di una maggior sovrapposizione del nostro modello di specializzazione con quello dei paesi emergenti.

E allora, quale è il problema? Semplicemente che le imprese italiane sono sottoposte maggiormente alla crescente concorrenza dei paesi emergenti. Questa caratteristica non è d’altra parte nuova. Il grado di similarità era maggiore nel passato (le correlazioni per il 1980 sono superiori a quelle del 1997- Chiarlone – Helg, 2002). Perciò è da tempo che le imprese italiane si trovano a fronteggiare questo tipo di concorrenza. Vari studi empirici (De Nardis- Traù, 1999, Chiarlone, 2001) e teorici (Petrucci-Quintieri, 2002) mostrano e spiegano come nel passato il successo italiano nei settori tradizionali sia consistito nello sfuggire a questa concorrenza tramite strategie di miglioramento qualitativo dei prodotti. Esistono ancora spazi per questa strategia?

(1) Per la composizione settoriale di questi macro-settori si veda Chiarlone-Helg (2002).

(2) L’utilizzo di questa tassonomia “nasconde” in parte la specializzazione relativa italiana nei settori della meccanica specializzata. Questa emerge maggiormente dall’uso della tassonomia à la Pavitt (si veda per esempio, Epifani, 1999). Le caratteristiche di polarizzazione e persistenza continuano a permanere anche in questa tassonomia (si vedano anche Brasili et al., 2000, e De Benedictis-Tamberi, 2001).

La globalizzazione e il metalmeccanico, di Paolo Manasse (04-02-02)

La globalizzazione avvantaggia i metalmeccanici? Potrebbe essere una battuta ma non è così alla luce di uno studio avviato recentemente su un campione di 2837 imprese del settore metalmeccanico nella seconda metà degli anni Novanta. Analizzando infatti l’andamento del differenziale salariale tra lavoratori manuali (operai) e non manuali (impiegati e dirigenti), e del rapporto tra i loro livelli d’impiego, le conclusioni sono alquanto sorprendenti (1): mentre l’innovazione tecnologica è responsabile di un aumento della quota di occupazione dei lavoratori più qualificati e dell’aumento del divario tra stipendi e salari, il commercio internazionale ha contribuito invece ad accrescere le quote di impiego degli operai meno qualificati e, almeno per tale via, ha contribuito a ridurre le disuguaglianze tra stipendi e salari.

Gli Stati Uniti

Ma facciamo un passo indietro. Fin dai primi anni Novanta molti studi(2) hanno documentato la crescita delle disparità salariali e della quota di occupazione dei lavoratori specializzati (qualificati, o skilled) verificatesi nel precedente decennio in molti paesi avanzati, a cominciare dagli Stati Uniti. Poiché sono aumentati sia i differenziali salariali sia le quote di occupazione dei lavoratori maggiormente istruiti, gli economisti ne hanno prontamente dedotto che la spiegazione dovesse avere a che fare con la domanda, e non con l’offerta, di skills(3). Ma allora, cosa spiega l’aumento della domanda relativa di lavoratori più qualificati? Almeno due fattori: l’innovazione tecnologica e la globalizzazione.

Se le nuove tecnologie (i computer) accrescono la produttività dei lavoratori qualificati più di quella di lavoratori meno qualificati, le imprese troveranno conveniente licenziare questi ultimi ed assumere i primi. Si verificherà dunque un eccesso di domanda di skills. La globalizzazione, nell’ economie avanzate, dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) funzionare così: la concorrenza dei paesi in via di sviluppo porta ad un contrazione dell’impiego nel settore “tradizionale”, ad esempio, il tessile, le cui imprese impiegano relativamente pochi lavoratori qualificati; allo stesso tempo le imprese che producono beni ad alta intensità di skills, ad esempio software, si espandono nei nuovi mercati esteri. Il risultato è che aumenta la domanda di lavoro qualificato ed il differenziale salariale. Il consenso della letteratura è che, grosso modo, l’aumento della disuguaglianza salariale sia da attribuire, per il 70-85 per cento alla tecnologia e per il restante 30-15 per cento alla globalizzazione.

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E l’ Italia?

In Italia l’effetto del progresso tecnologico è stato simile, sia qualitativamente che quantitativamente, a quello degli altri paesi industrializzati. Invece l’espansione del commercio ha avuto effetti opposti: la domanda e l’occupazione si sono spostati verso le imprese che producono beni ad alto contenuto di lavoro poco qualificato. Con ciò contribuendo a ridurre i differenziali salariali e ad accrescere l’occupazione manuale. Perché? Probabilmente per tre ragioni: perché l’Italia commercia soprattutto con paesi europei tecnologicamente più avanzati; perché, di conseguenza, le esportazioni italiane si concentrano spesso in prodotti standardizzati, caratterizzati da basso contenuto tecnologico(4); ed infine perché l’Italia, come il resto d’Europa, è protetta dalla concorrenza dei paesi in via di sviluppo da barriere commerciali.

Questi risultati vanno interpretati con cautela. Le imprese esportatrici sono state anche quelle che maggiormente hanno investito in nuove tecnologie, e ciò rende molto difficile distinguere nettamente tra gli effetti dell’innovazione tecnologica e quelli della globalizzazione. Inoltre, quest’ultima è un fenomeno complesso, che comprende, tra l’altro, i flussi migratori, la de-localizzazione delle attività produttive, la sicurezza del posto di lavoro, l’incidenza delle imposte. Questi aspetti, di grande valenza sociale, non sono considerati in questo studio. Infine, l’analisi riguarda un singolo settore economico, per quanto importante (5), ed un arco di tempo limitato (6).

Per concludere, una domanda e due risposte. Dobbiamo rallegrarci che la globalizzazione in Italia non accresca le disuguaglianze? Sì e No. Sì, perché è confortante sapere, con buona pace del giovane no-global, che la crescente integrazione dei mercati non mina necessariamente la coesione sociale. No, perché in Italia ciò appare dovuto ad un fattore di debolezza. La debolezza delle imprese che operano nei settori tecnologicamente più avanzati, che investono di più in ricerca e conoscenza, e da cui dipendono maggiormente le prospettive di crescita della nostra economia.

(1) Studio di Manasse, Stanca & Turrini (MST).Il paper, in corso di pubblicazione sulla rivista Labour Economics, è disponibile all’indirizzo: http://www.dse.unibo.it/manasse/Pdf/mstrev.pdf

(2)Si veda la letteratura citata in MST alla nota precedente

(3) Se fosse ad esempio aumentata la disponibilità di laureati (l’offerta) sul mercato, si sarebbe avuta una caduta, non un aumento, del differenziale salariale.

(4) Si veda anche Chiarlone. S., 2001, “Evidence of product differentiation and relative quality in Italian trade”, CESPRI Working Paper No. 114, in via di pubblicazione Rivista Italiana degli Economisti

(5) Il settore metal-meccanico ha prodotto circa il 40% del valore aggiunto ed il 50% delle esportazioni del settore manifatturiero in Italia durante la seconda metà degli anni novanta.

(6) I risultati sembrano però confermati da un’indagine in corso da parte degli autori per l’intero settore manifatturiero ed per l’intero decennio passato.

Il capitalismo familiare: punto di forza o di debolezza?, di Marco Pagano e Fausto Panunzi (04-02-03)

Peculiarità italiana

Probabilmente più che in ogni altro paese sviluppato, in Italia l’impresa coincide con un nucleo familiare che lo gestisce ed è proprietario della totalità o almeno della maggioranza nel capitale azionario. Ciò innanzitutto perché in Italia le piccole e medie imprese sono molto più numerose che altrove (in rapporto alle grandi imprese); e nella piccola e media impresa la scala degli investimenti e delle capacità manageriali sono ancora tipicamente alla portata di un nucleo familiare. Tuttavia in Italia, perfino le poche grandi imprese esistenti sono state controllate saldamente da una famiglia, almeno a partire dagli anni trenta e fino a pochi anni fa. Questa peculiarità italiana viene di volta in volta riproposta dai media come il punto di forza o il tallone di Achille della nostra economia, a seconda delle condizioni congiunturali in cui ci si trova. Qual è la verità?

Il capitalismo familiare ha un essenziale punto di forza: la coincidenza tra il proprietario e il manager. Per definizione, non c’è conflitto di interessi e quindi non esiste il pericolo che le decisioni gestionali possano essere in contrasto con il profitto dell’impresa, a meno che il proprietario-gestore non commetta un errore. Invece, le decisioni di un manager stipendiato possono discostarsi dalla massimizzazione del profitto, per il semplice fatto che il manager amministra soldi che non sono suoi. Ci sono molti modi in cui la condotta di un manager stipendiato può discostarsi da quella che il suo datore di lavoro desidererebbe: dall’utilizzo dei beni aziendali per scopi privati allo scarso impegno nella gestione aziendale, dall’assunzione di un familiare incompetente alla vera e propria distrazione di fondi dalle casse aziendali. Naturalmente comportamenti come questi hanno costi elevati per un’impresa, e la forza della maggior parte delle imprese italiane è appunto nella capacità di evitarli.

Capacità gestionali e risorse finanziarie

Il problema è che, crescendo, l’impresa raggiunge prima o poi una grandezza tale che le forze di una famiglia non bastano più a fornire due fattori di produzione cruciali per la sua ulteriore espansione: le capacità gestionali e le risorse finanziarie. A quel punto, la natura familiare dell’impresa si trasforma da punto di forza in “tallone d’Achille”. A seconda della situazione, la crisi può verificarsi prima per l’uno o per l’altro dei due fattori (1).

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La penuria di capacità gestionali tende a verificarsi in coincidenza con la successione nella conduzione aziendale, che infatti è un momento critico nella vita di un’azienda familiare, allo stesso modo in cui lo era nella vita di una dinastia regale o feudale. Bastano dei figli incapaci o litigiosi, e il lavoro di una vita dei loro genitori può scomparire rapidamente, coinvolgendo tutti coloro il cui destino è legato alla sopravvivenza dell’impresa. Se si considera che l’abilità gestionale e il quoziente intellettivo sono distribuiti in modo casuale tra la popolazione, esiste un’alta probabilità che un figlio o un nipote incapace porti alla rovina un’impresa familiare. A volte, se non è la stupidità degli eredi, è la loro litigiosità a rovinare l’impresa: perché il controllo sull’impresa è uno e indivisibile, mentre coloro che desiderano comandare sono più d’uno.

Ma anche quando la famiglia dei proprietari continua ad esprimere i talenti gestionali necessari, il patrimonio familiare può non essere più sufficiente a finanziare la crescita dell’impresa. A quel punto, l’impresa può indebitarsi oppure cercare di attrarre capitale azionario esterno, ma entrambe queste soluzioni reintroducono, in una forma o nell’altra, il conflitto di interesse tra finanziatore e finanziato, e quindi quei costi la cui assenza è la forza intrinseca dell’impresa familiare. L’indebitamento, specie se eccessivo, spinge l’imprenditore ad assumere rischi eccessivi, proprio perché sa di star giocando in buona misura con soldi presi a prestito invece che con soldi propri. Le partecipazioni azionarie esterne pongono il proprietario, in una certa misura, nella stessa posizione di conflitto di interessi di un manager, e quindi lo spingono a quei comportamenti inefficienti che la vera impresa familiare riesce ad evitare.

Un fattore di freno per l’intera economia

A questo punto, l’alternativa della famiglia è rinunciare alla crescita oppure vendere l’impresa a chi è in grado di trasformarla in senso manageriale e di ricapitalizzarla, magari inglobandola in un’impresa più vasta. Il problema è che in un paese come l’Italia le imprese capaci di acquistare e inglobare un’impresa più piccola scarseggiano, perché il problema si ripropone simmetricamente anche per le altre imprese. Neanche le altre imprese hanno il capitale finanziario necessario oppure la capacità di risolvere i conflitti di interesse di una gestione manageriale, e quindi neanche esse hanno la capacità di “digerire” l’acquisizione di un’altra impresa, specie se matura.

Quindi, in mancanza di un acquirente estero, molto spesso la soluzione è arrestare o rallentare la crescita dell’impresa per renderla compatibile con la crescita delle capacità gestionali e di finanziamento della famiglia. Quando il problema si propone per un’intera economia, invece che a livello della singola impresa, esso finisce per diventare un fattore di freno per la crescita dell’intera economia (2). Probabilmente l’Italia si trova esattamente a questo stadio della sua storia. Dopo aver sfruttato il punto di forza dell’impresa familiare, nella fase di crescita postbellica, in cui la maggior parte di queste imprese si trovava allo stadio nascente, ora si trova ad affrontarne in pieno il “tallone di Achille”, cioè l’incapacità di superare una soglia dimensionale critica, che è quella finanziabile e gestibile da una famiglia. Questa è probabilmente una causa non secondaria del rallentamento della crescita economica in Italia negli ultimi due decenni.

Gli esempi italiani

Restano fuori da questo quadro le poche grandi imprese che hanno sfidato questa “legge di gravità” dimensionale, come la Fiat, la Pirelli o la Fininvest, in parte grazie all’eccezionale capacità degli imprenditori che le hanno talvolta guidate e in parte grazie all’appoggio del potere politico che essi si sono riusciti ad assicurare. Tuttavia, anche queste imprese sono strette nella stessa morsa delle loro sorelle più piccole: il desiderio della famiglia di mantenere il controllo cozza con i limiti che essa ha nell’assicurare i mezzi finanziari e i talenti per la sua crescita. La crisi della Fiat è in parte un sintomo di questo conflitto immanente.

Tuttavia, almeno per quanto riguarda le sue imprese maggiori, l’Italia sta cominciando lentamente ad affrancarsi da questo modello inadeguato, in parte grazie allo sviluppo del mercato dei capitali e della maggior protezione degli azionisti di minoranza, e in parte in seguito alle privatizzazioni. Oggi, tra i dieci gruppi quotati a maggior capitalizzazione azionaria, la maggioranza è formata da conglomerati con azionariato diffuso, controllati da manager con piccole quote azionarie. È intressante notare che, in questa sua evoluzione, il nostro Paese sta semplicemente tornando al suo lontano passato. Prima della grande crisi del 1930, tra le dieci maggiori società del listino di Milano, una sola era a controllo familiare: la Fiat (3).

(1) Si veda “Family Firms” di Mike Burkart, Fausto Panunzi e Andrei Shleifer, 2002, CEPR Discussion Paper N. 3234.

(2) Si veda “Dynastic Management“, di Francesco Caselli e Nicola Gennaioli, 2003, NBER Working Paper N. 9442.

(3) Si veda Alexander Aganin e Paolo Volpin, “History of Corporate Ownership in Italy”, 2003, London Business School.

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