La relazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato evidenzia come liberalizzazioni insufficienti e rendite oligopolistiche in importanti settori siano un freno alla crescita dell’economia italiana. Perché si trasformano in maggiori costi per le imprese e rappresentano un fattore di svantaggio e di inefficienza nella competizione sui mercati internazionali.

La relazione annuale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), tenuta dal presidente Giuseppe Tesauro lo scorso 11 giugno, ha offerto un contributo importante alla riflessione sulla competitività del nostro sistema produttivo, collegandosi così idealmente alle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Riflessione tanto più urgente dopo due anni di crescita assai contenuta e di fronte alla necessità per le imprese italiane di promuovere un miglioramento dell’efficienza e dell’innovazione senza avere più a disposizione, dopo la nascita dell’euro, la strada della svalutazione.

Concorrenza e declino dell’Italia

Questo tema, e la concreta possibilità di un declino dell’Italia in alcuni settori cruciali, è stato già sollevato da lavoce.info, ma la prospettiva seguita dall’Autorità antitrust offre spunti nuovi e di grande interesse. In estrema sintesi, dalla relazione di Giuseppe Tesauro, emerge con la nettezza dei numeri come le insufficienti liberalizzazioni e le incrostazioni oligopolistiche di un insieme importante di settori rappresentino un freno per la crescita dell’economia. E come questo effetto non si manifesti solamente con un danno per i consumatori finali, ma anche, e in modo rilevante, attraverso maggiori costi per le imprese che tali beni e servizi acquistano per le loro produzioni, e in particolare per una parte significativa dei settori esportatori italiani.

La relazione dell’Agcm individua una serie di settori nei quali gli interventi e le segnalazioni sono stati più frequentemente sollecitati negli ultimi sette anni, identificando in questo modo le aree più problematiche dal punto di vista della concorrenza. In questo elenco, troviamo ai primi posti le telecomunicazioni (58 interventi), i servizi professionali alle imprese (36), i trasporti aerei, marittimi, terrestri e attività ausiliarie dei trasporti (37), l’energia elettrica (20), il commercio al dettaglio (33), le assicurazioni (17).

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Colpisce come, nella lista dei settori a rischio, figurino molte delle industrie nelle quali negli anni Novanta è stato avviato un processo, spesso lento e faticoso, di liberalizzazione. E, tuttavia, gli interventi che sono stati sollecitati all’Autorità antitrust testimoniano come questo cammino sia stato molto spesso accidentato, con tentativi degli operatori dominanti di frenare la concorrenza dei nuovi soggetti.

Una zavorra per il sistema delle imprese

L’analisi prosegue indagando il peso che questi settori “a rischio” dal punto di vista concorrenziale rivestono nell’economia italiana. Nel farlo si guarda non solo alla domanda finale, ma anche, utilizzando la matrice input-output dell’economia italiana, alla domanda intermedia espressa dalle altre imprese produttive che utilizzano questi beni e servizi nelle loro produzioni. In questo modo è possibile individuare il peso di questi settori nella formazione del fatturato di tutti gli altri settori produttivi, e misurarne quindi l’incidenza sui costi per il sistema delle imprese.

Il dato più significativo che emerge (tabella 1) è che gran parte dei settori “problematici” dal punto di vista concorrenziale sono utilizzati in prevalenza come input intermedi dagli altri settori produttivi, piuttosto che come beni e servizi finali. Inoltre, essi appaiono ancora poco aperti alla concorrenza internazionale e presentano una bassa propensione all’esportazione.

Export e settori “problematici”

Il terzo e ultimo passaggio nell’indagine dell’Antitrust si concentra sui settori produttivi nei quali l’Italia vanta una performance positiva nelle esportazioni. Ritroviamo qui tutte le produzioni del modello di specializzazione del nostro Paese (la meccanica, il tessile, il mobile, il cuoio, i prodotti in metallo e i minerali non metalliferi) caratterizzate da significativi avanzi nella bilancia commerciale, assieme ad altri comparti (autoveicoli, produzione di metalli, chimica di base, macchine per ufficio) che, soprattutto negli ultimi anni, hanno accumulato pesanti passivi nell’interscambio con l’estero.

La dipendenza di comparti esportatori dai settori “problematici” dal punto di vista concorrenziale varia significativamente: considerando la quota del fatturato attribuibile all’acquisto di questi beni e servizi quali input intermedi, si va dal 28 per cento della farmaceutica sino al 14 per cento del comparto bevande e tabacco.

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Distinguendo i settori esportatori maggiormente dipendenti dagli input “problematici” (19-28 per cento) dagli altri, l’Agcm riporta alcuni dati di performance significativi, i tassi di crescita del valore aggiunto e il saldo della bilancia commerciale. Rimandando alla relazione del presidente Tesauro per una disamina più completa, riportiamo nella tabella 2 i dati relativi al periodo 1999-2002, fase nella quale le difficoltà dell’economia italiana si sono fatte più evidenti.

Pur con la cautela necessaria per valutare una classificazione ottenuta fissando una soglia quantitativa che distingue i due gruppi di settori esportatori, il quadro che emerge dalle analisi dell’Autorità antitrust segnala un andamento del tutto difforme sia nella crescita che nelle performance sui mercati internazionali tra settori esportatori fortemente o debolmente dipendenti dai segmenti problematici dal punto di vista concorrenziale. Questi ultimi, registrano andamenti fortemente negativi, al contrario di quanto accade per le produzioni meno legate ai settori problematici.

Tra i fattori di svantaggio e di inefficienza che le imprese italiane incontrano sui mercati internazionali, possiamo quindi collocare il permanere di rendite oligopolistiche e l’insufficiente sviluppo dei processi di liberalizzazione, caduti in un inspiegabile sonno negli ultimi due anni ma quanto mai necessari, secondo le analisi dell’Antitrust.

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