Da sempre molto protetto, il settore aereo dovrebbe approfittare della crisi per avviare una vera liberalizzazione, magari ricorrendo a sostegni economici concordati a livello europeo. Finalmente si aprirebbero spazi maggiori alle compagnie low-cost, con benefici in primo luogo per gli utenti.

Le recenti imbarazzanti vicende dell’Alitalia, ma soprattutto i disagi dei cittadini che devono servirsene, sollecitano qualche riflessione di carattere generale sul settore, senza soffermarsi solo su un episodio di ordinario malcostume.

Lo scenario

L’11 settembre, la guerra irachena, e infine la Sars hanno accentuato una crisi del comparto aereo in atto da tempo su scala mondiale: la United Airlines prossima al fallimento, la Sabena e la Swissair chiuse, Alitalia con bilanci in rosso da un decennio, e il ricorso di molte compagnie di bandiera europee agli aiuti di Stato (ogni volta l’ultimo, si intende). Ma la crisi è crisi delle “grandi compagnie storiche”, perché nel frattempo le nuove compagnie “low cost” sono cresciute e hanno anche realizzato ingenti profitti. E ciò nonostante l’opposizione, oltre che delle compagnie di bandiera “attaccate”, anche dei Governi. E senza risparmi in fatto di sicurezza perché le compagnie “low cost” attribuiscono a questo fattore una priorità molto elevata per la semplicissima economica ragione che nel loro caso un incidente sarebbe sicuramente attribuito dai “media” a insufficiente manutenzione, con conseguenze devastanti.

Caratterizzato da crisi profonde anche nei decenni precedenti (si pensi alla scomparsa delle maggiori compagnie “storiche” statunitensi (Twa, Eastern e Pan American), il settore affronta quindi un cambiamento strutturale, seppure ancora in presenza di elevate protezioni per le compagnie maggiori, sia negli Stati Uniti che, soprattutto, in Europa. Il regime degli “slots” (il diritto di operare servizi in certe ore su certe rotte) non è stato mai liberalizzato, così come sostanzialmente rimangono vincolati alle grandi compagnie i servizi intercontinentali (e infatti le compagnie “low cost” non operano in questo campo). Inoltre, sia negli Usa che in Europa permangono vincoli molto stringenti per i regimi proprietari, che sono negati a soggetti “esterni”.

Una debolezza strutturale

Di questa debolezza strutturale del settore sono state tentate molte spiegazioni. Vediamone due, tanto recenti e accreditate quanto poco convincenti. La prima (cfr. “The Economist” 3-9 maggio 2003) sostiene che il problema è essenzialmente legato a dimensioni aziendali insufficienti: basterebbe accentuare (e consentire) fusioni e concentrazioni per garantire la prosperità del settore (in analogia con quello automobilistico). Ma qui le “economie di scala” hanno un ruolo molto più incerto, come dimostra il fatto che sono le compagnie di maggiori dimensioni ad avere sofferto di più la crisi in Usa (e in Europa). Anche il fenomeno della crescita delle compagnie “low cost” contribuisce a smentire questa tesi.

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La seconda spiegazione si fonda sui costi eccessivi del carburante, del lavoro, dei servizi aeroportuali, del controllo del traffico aereo, ecc., (cfr. “Volare” maggio 2003), ma la crescita delle compagnie “low cost” sembra indebolire l’argomentazione. Gli aumenti di costi, se reali, hanno colpito tutto il settore: le “low cost” sono sfuggite in Europa solo all’esosità dei grandi aeroporti, ma non alle altre voci, di fatto preponderanti.

E comunque non è chiaro perché tali maggiori costi non possano essere trasferiti all’utenza finale, in forte crescita sul lungo periodo (per confermare tale “non trasferibilità”, si ricorda che il settore ha avuto redditività molto modeste fino dagli anni Settanta, pur con crescita impressionante del traffico servito).

Sembrerebbe invece che la fragilità del settore sia determinata dalla combinazione di due fattori: caratterizzato da bassi profitti e con una domanda fluttuante nel breve periodo, il settore si dimostra inoltre a offerta rigida, come se prevalessero i costi fissi. In altre parole, sembra che la crisi sia connessa a esuberi di capacità strutturali, anche se periodici. Questa spiegazione si adatta bene all’Europa: grandi compagnie semipubbliche e inefficienti (da cui i bassi profitti), con offerta rigida per ragioni politiche (iper-tutela del lavoro, “immagine nazionale” da sostenere).

Ma forse è possibile riscontrare elementi di rigidità dell’offerta anche nelle grandi compagnie americane. Possono essere legati alla necessità del controllo sui segmenti più redditizi della rete (gli “slots” strategici non liberalizzati richiedono la non interruzione, neppure temporanea, del servizio, pena l’avvento di concorrenti. È la logica che discenda da un regime noto come “grandfathers’right”). A ciò si può aggiungere per estensione la necessità del controllo di interi aeroporti “hub” (cioè nodo della rete dei servizi, e spesso sede amministrativa e tecnica della compagnia dominante), come Atlanta, Denver, Chicago. La posizione dominante in un aeroporto ha anche risvolti politici: garantisce posti di lavoro o servizi alla comunità locale che è generalmente proprietaria dell’aeroporto, e che “ricambia” garantendo proprio la dominanza. Ridurre i voli nei periodi di crisi può incrinare le alleanze costituite, aprendo così le porte ai concorrenti (si pensi ai complessi rapporti tra Sea, Aeroporti di Roma e Alitalia, per un esempio più vicino a noi).

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Il caso Alitalia

Per quanto riguarda il nostro Paese, Alitalia è in sofferenza ormai da più di dieci anni, con bilanci in perdita nonostante le elevate tariffe e la protezione di cui gode (slots, voli intercontinentali). La crisi attuale mette in moto pressioni per ridurre alcuni costi (aeroportuali e di controllo del traffico aereo). Sono costi da monopolio naturale che vanno ridimensionati, e di molto, con una buona regolazione pubblica mirata a incentivare drasticamente l’efficienza delle gestioni. In questi giorni il tentativo di riduzione del costo del lavoro, con la contrazione del personale di bordo, ha dato luogo a forme di protesta inaccettabili, indicative di relazioni industriali improprie e tipiche di aziende abituate a regimi clientelari (per inciso, un contesto più concorrenziale ridurrebbe grandemente l’impatto di tali proteste anomale sugli utenti, grazie a un’offerta di servizi meno concentrata).

Ma a livello europeo occorrerebbe “approfittare” dell’attuale crisi per liberalizzare il settore, invece che per rafforzarne le barriere monopolistiche (c’è una proposta all’attenzione della Commissione europea di “congelare” gli slots non usati dalle compagnie maggiori, a danno delle compagnie “low cost” che potrebbero accedere a rotte e aeroporti più appetibili).

Si potrebbe pensare a sostegni economici (“una tantum” per davvero, questa volta) concordati a livello europeo anche per bilanciare gli analoghi interventi in Usa. In cambio si dovrebbe avviare una reale privatizzazione e apertura del sistema a nuovi soggetti, che già hanno creato grandi benefici agli utenti europei con la loro efficienza. Tali sostegni economici avrebbero il significato di “viatico”, cioè sarebbero connessi alla sostanziale cessazione della presenza pubblica nel settore (se non a fini regolatori a difesa degli utenti), e potrebbero servire anche a tutelare gli addetti delle compagnie che fossero costrette a drastici ridimensionamenti.

Infine, la crescita delle compagnie “low cost” significa occupazione e domanda di nuovi aerei, in altre parole uno sviluppo del settore che i grandi “elefanti bianchi” del passato non sembrano più in grado di garantire. A quando una “Ryan Air” italiana?

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